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Thursday, September 05, 2024

Le donne afghane cantano, e cantano Bella Ciao


di Mauro Suttora

Contro la tirannia dei talebani, come le donne iraniane contro quella degli ayatollah. Un canto dalle origini misteriose che ormai è l’inno di resistenza in tutto il mondo (solo in Italia ci si litiga sopra)

Huffingtonpost.it, 5 settembre 2024

E con l'Afghanistan ha fatto l'en plein. La nostra canzone Bella Ciao è diventata indiscutibilmente l'inno per la libertà più celebre del mondo, dopo che perfino le ragazze afghane lo hanno adottato per protestare contro l'ultimo decreto dei talebani. 

Due settimane fa il loro capo Hibatullah Akhundzada ha promulgato 35 articoli che vietano alle donne di avventurarsi fuori casa da sole: perfino sui bus devono essere accompagnate da un tutore. Ma, soprattutto, non possono più parlare nei luoghi pubblici. Né leggere ad alta voce. E men che meno cantare.

Si è scatenata allora la loro rivolta. Che si sparge nel mondo tramite i social, con il canto collettivo di Bella Ciao tradotto nella lingua pashtun.

La fortuna internazionale del brano è abbastanza recente. Ma non c'è manifestazione politica degli anni 2000 che non l'abbia scelta come propria bandiera. Dai turchi contro il presidente Erdogan ai curdi di Kobane, dai greci antiUe ai Fridays for Future verdi, fino ai francesi colpiti dagli attentati al Bataclan, agli argentini, o alle giovani iraniane torturate dagli ayatollah. 

Al successo planetario ha contribuito la serie spagnola La casa di carta, trasmessa da Netflix. E poi il remix del dj di Marsiglia Hugel, che dal 2018 ha ottenuto solo su YouTube 200 milioni di visualizzazioni. Così Bella Ciao ha soppiantato tutti gli altri canti da manifestazione: Marsigliese, Internazionale, Blowin' in the Wind, Imagine. 

Una bella soddisfazione per noi italiani. Che però non ne conosciamo le origini. Inno della Resistenza antifascista? Falso. "Non l'abbiamo mai cantata", assicurò Giorgio Bocca. Al quale però la cantarono i compagni partigiani al suo funerale nel 2011. 

Perché nel frattempo Bella Ciao era stata adottata dagli antifascisti, a ogni 25 aprile. Pare che la canzone sia stata presentata per la prima volta fuori d'Italia a un Festival internazionale dei giovani comunisti a Praga nel 1947: un successone. 

Ma ancora negli anni '50 le raccolte degli inni della Resistenza la ignoravano. La data spartiacque è il 1964, quando l'orecchiabilissimo ed entusiasmante motivo fu presentato al colto festival di Spoleto dal gruppo folk Canzoniere Italiano. 

Da allora ogni corteo di sinistra in Italia l'ha intonata a squarciagola, con tanto di battimani nel ritornello. Ma anche i democristiani, dopo il congresso che elesse segretario il partigiano Benigno Zaccagnini nel 1975. 

Personalmente ricordo i cortei di noi liceali udinesi che negli anni '70 la cantavamo quando arrivavamo all'altezza di viale Ungheria, i cui alti palazzi producevano un fantastico effetto rimbombo (poi urlavamo anche "Ce n'est qu'un debut, continuons le combat!", che però la cadenza friulana trasformava in un incomprensibile "Senné Zandegù...", dal nome di un famoso campione di ciclismo). 

Ma allora, se all'inizio non era un canto partigiano, da dove viene Bella Ciao? La prima melodia simile fu incisa nel 1913 da un musicista tzigano, e in effetti l'atmosfera è quella dei brani yiddish: un po' slavi, un po' ebraici, sicuramente europei orientali. 

Nella valanga di ricostruzioni storiche non mancano le canzoni delle mondine, i partigiani della Maiella e le musiche dalmate. Con annesse dispute su diritti d'autore, accuse di plagio e appropriazioni indebite. Ma alla fine nessun autore né paroliere riconosciuto: una canzone popolare appartiene al popolo.  

Forse è giusto che sia così. Le origini dei miti hanno da essere un po' nebulose, altrimenti si perde l'alone del mistero che crea la leggenda. E magari ci si riduce ad attribuire a Yoko Ono il testo della splendida Imagine del povero John Lennon. 

Saturday, May 06, 2023

Dio salvi il re, le carrozze e l'incoronazione. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo

La monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 6 maggio 2023 

"Her Majesty is a pretty nice girl, but she doesn't have a lot to say (...) Someday I'm gonna make her mine". "Sua Maestà è una ragazza carina, ma non ha molto da dire (...) Prima o poi me la faccio": sono le parole dell'ultima canzone nell'ultimo disco dei Beatles, Abbey Road, 1969. Dura solo 23 secondi, e il suo titolo non appare sulla copertina dell'Lp.

Molto 'naughty', birichino, l'autore Paul McCartney. In Italia magari qualcuno l'avrebbe denunciato per vilipendio. Gli inglesi invece adorano questo humour sottile. Mentre detestano sparate melodrammatiche come quella dell'altro beatle John Lennon, che in quei mesi restituì alla regina il titolo di baronetto per protesta contro lo scarso successo del suo 45 giri 'Cold Turkey'. 

A proposito della nomina a baronetti: fu ancora Lennon a rivelare che si fumarono una canna nei bagni di Buckingham Palace nel 1965, prima di ricevere il titolo. E sempre Lennon capitanò la fronda sbarazzina quando, durante un concerto alla presenza della regina madre e della principessa Margaret, invitò il pubblico ad accompagnare 'Twist and Shout' battendo le mani. "Voialtri invece", aggiunse rivolgendosi al palco reale, "fate tintinnare i vostri gioielli".

Ecco, i Beatles (unici inglesi a eguagliare la fama planetaria della regina) rappresentano bene il massimo grado di contestazione cui è sottoposta la Corona britannica. Più silenziosi ma concreti i Rolling Stones: pare che Mick Jagger abbia portato a termine con Margaret l'impresa solo sognata da McCartney. Adesso i tifosi scozzesi dei Rangers di Glasgow cantano: "Carlo, l'incoronazione mettitela in quel posto!" Ma sono solo cori da stadio. Quando si è trattato di votare la secessione dalla monarchia inglese, anche in Scozia hanno vinto gli unionisti.

Prevale l'indifferenza: ai due terzi dei britannici, e ai tre quarti degli under 25, la cerimonia di oggi non interessa. Ma è un disinteresse per niente bellicoso, anzi benevolo: la maggioranza assoluta degli inglesi si dichiara comunque monarchica. Come quel proverbio romanesco: "Se ci sei sono contento, se sparisci nun m'accorgo". Forse la monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci? Per sostituirla con un esangue presidente civile? Peggio: per passare a un regime presidenziale come in Usa o Francia, con il rischio di eleggere soggettoni tipo Donald Trump o Boris Johnson?

 "Quaeta non movere", non tocchiamo ciò che funziona. Quindi becchiamoci pure Carlo e Camilla. Se saranno una disgrazia, non dureranno molto: l'anagrafe è quella che è. Poi, un'onesta successione è garantita per il prossimo mezzo secolo con l'equilibrato William, sua moglie che piace alle commesse, e suo figlio George che mostra già movenze da monarca. Poi, certo, ci sono anche le disgrazie. Ma le paturnie del principe Harry hanno dominato le classifiche mondiali delle vendite di libri negli ultimi mesi: la sua autobiografia ha avuto più successo di quella di Winston Churchill. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo. Come il favoloso corteo odierno con le carrozze. 

Ho lavorato 22 anni nel settimanale Oggi. Ogni volta che abbiamo dedicato la copertina a un resoconto scritto dalla nostra impareggiabile 'royal correspondant' Michela Auriti, le vendite schizzavano all'insù. Quindi God save the King. E salvi anche le tirature dei giornali. 

Saturday, February 11, 2023

Burt Bacharach e i Beatles, che coincidenza

La canzone Baby it's you, i contatti con Paul McCartney, i giudizi tranchant di John Lennon

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 febbraio 2023


Un'incredibile coincidenza lega Burt Bacharach, scomparso nella sua Los Angeles il 9 febbraio a 94 anni, e l'80enne Paul McCartney, ovvero i principali compositori di musica del '900 (con George Gershwin). Esattamente sessant'anni fa, l'11 febbraio 1963, i Beatles registrarono negli studi londinesi di Abbey Road la canzone "Baby it's you" di Bacharach, portata al successo dalle Shirelles negli Usa due anni prima. 

È l'unico punto di contatto fra le loro straordinarie carriere, che si sfiorarono nuovamente solo nel 1965 quando Bacharach andò in quegli stessi studi a Londra per far incidere la sua Alfie a Cilla Black, interprete in quel periodo di vari brani composti apposta per lei da McCartney.

Ai Beatles Baby it's you era piaciuta subito. La inserirono nel loro repertorio al Cavern di Liverpool e ad Amburgo, prima di affacciarsi alla Emi di Londra per realizzare il loro primo 45 giri Love me do nell'ottobre 1962. 

Vista la performance soddisfacente (17° posto in hit parade), uscirono subito con un altro disco, Please please me, che nel gennaio '63 conquistò la testa alla classifica. Cosicché il produttore George Martin li riconvocò subito ad Abbey Road per incidere un intero long playing.  

I Beatles interruppero per un giorno il tour inglese, e in sole dieci ore l'11 febbraio registrarono l'intero loro primo leggendario 33 giri, titolato come il singolo. Fra quelle tredici canzoni brillano capolavori come Twist and shout e I saw her standing there che offuscano la cover di Bacharach. Ma comunque Baby it's you fa la sua bella figura, con la voce solista di John Lennon. 

E questa è una vera ironia della storia, perché in seguito fu proprio Lennon, nel 1971, a definire "muzak", musicaccia, l'easy listening delle canzoni molto leggere come quelle di Bacharach. "Paperwall music", musica da tappezzeria: così i rocker politicamente impegnati come Lennon o Dylan bollavano melensaggini come I'll never fall in love again o Raindrops keep fallin' on my head, capolavori di Bacharach adatti secondo loro solo per gli ascensori e le hall degli alberghi. 

Giudizio ingiusto, e per la verità la condanna di Lennon era indirizzata soprattutto all'ex compagno McCartney. Nella canzone How do you sleep? lo accusò infatti di essere un semplice entertainer senza nerbo: "L'unica cosa buona che hai composto è stata Yesterday". 

Bacharach, dall'alto dei suoi miliardi e del matrimonio con Angie Dickinson soprannominata The legs (le gambe più belle del mondo), ovviamente se ne infischiava di questi giudizi. Ma durante tutti gli anni '60 e '70 nel mondo del pop-rock c'era un confine invalicabile fra la sua inoffensiva musica californiana, evocante aperitivi innaffiati di Martini in lussuose ville al tramonto, e i brani arrabbiati della controcultura antimilitarista amata dai contestatori universitari. Insomma, Bacharach era perfetto per la quarantenne Mrs. Robinson e i whisky di suo marito, mentre il Laureato Dustin Hoffman e la sua giovane fidanzata scappavano al ritmo di Simon & Garfunkel. 

Saturday, December 25, 2021

Happy Xmas di Lennon compie 50 anni

Ma diventò un classico nel Natale 1980, subito dopo la morte dell'ex Beatle

di Mauro Suttora

HuffPost, 25 dicembre 2021

Compie mezzo secolo oggi quella che è diventata una delle più popolari canzoni di Natale: Happy Xmas di John Lennon. L’ex Beatle la incise infatti nel 1971 a New York, e al titolo aggiunse “war is over” come augurio per la fine della guerra in Vietnam (auspicio esaudito quattro anni dopo con la fuga degli statunitensi da Saigon, simile a quella da Kabul l’estate scorsa).

Per la verità in quel Natale la canzone non ebbe un gran successo. Finì in classifica, ma niente di paragonabile all’esplosione di Imagine, il precedente 45 giri di Lennon che aveva appena sbancato le hit parades di tutto il mondo nell’autunno 1971.

Per diventare un classico Happy Xmas dovette aspettare il Natale 1980, e per una ragione tristissima: pochi giorni prima Lennon era stato assassinato. Sull’onda dell’emozione planetaria il disco venne ristampato e le vendite decollarono. 

La musica della canzone riprende un classico folk inglese: Stewball. Lennon la registrò in un’unica giornata in uno studio di Manhattan. Al piano c’era Nicky Hopkins, il ‘quinto Rolling Stone’. L’inizio è inconfondibile: “And so this is is Christmas, and what have you done?”. L’arrangiamento ha un grandioso effetto eco: la famosa “parete del suono” del produttore Phil Spector, morto undici mesi fa di covid mentre scontava 19 anni di carcere per avere ucciso una donna nel 2003.

Innumerevoli le cover di Happy Xmas in questi cinquant’anni, da Celine Dion ai Maroon 5. In Italia, fra gli altri, i Pooh, Raffaella Carrà, Tiziano Ferro, Elisa.

Mauro Suttora

Thursday, April 29, 2021

Le frontiere son tornate



Riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus

di Mauro Suttora

 HuffPost, 29 aprile 2021

Introduzione del libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora (Neri Pozza) 

I confini sono tornati. Qui in Europa pensavamo di averli aboliti, dopo le due guerre mondiali. “Imagine there’s no countries, immagina che non ci siano più Paesi”: avevamo messo la canzone di John Lennon perfino nelle nostre segreterie telefoniche. Prima, nel 1957, ci affratellò la Comunità europea. Poi, nel 1989, il crollo del Muro di Berlino liberò i Paesi dell’Est. Infine, nel 1997, il trattato di Schengen: quella magica parolina che permette di non accorgersi più delle frontiere. Basta dogane, documenti, file di auto ai valichi. Viaggiavamo in autostrada dopo Bordighera o Vipiteno, e continuavamo a guidare a 130 all’ora. Eravamo già entrati in Francia e Austria, ma ai nostri occhi cambiavano solo i pedaggi e il colore delle strisce sull’asfalto.

Poi è arrivato il coronavirus. E le frontiere sono resuscitate in pochi giorni. In tutto il mondo. Miliardi di persone ‘confinate’ nei propri confini: delle case, dei paesi, delle città. E poi zone rosse, regioni proibite, stati off limits. Un’esperienza incredibile, inedita, improvvisa. Niente più viaggi in aereo, nave, treno, auto. Tutti bloccati come servi della gleba nei feudi medievali. “Nell’intera storia umana non è mai avvenuto nulla di così veloce e globale”, ha avvertito Henry Kissinger dall’alto dei suoi 97 anni, “ne sentiremo gli effetti per generazioni”.

A dire il vero, c’erano state avvisaglie. Prima il movimento no-global: le grandi manifestazioni a Seattle nel 1999 e a Genova nel 2001. Poi anche in Italia, come nell’Inghilterra del Brexit e negli Usa di Trump, a destra sono apparsi i ‘sovranisti’. I loro slogan: “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “No Euro/pa”.

Una volta si chiamavano nazionalisti, e hanno fatto danni per secoli. Consoliamoci: oggi, abbandonata l’insalubre tendenza a voler spostare in avanti i propri confini, i neonazionalisti si limitano a proclamare il recupero di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare. (...)

In ogni caso, riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus: i populisti austriaci ripristinando i controlli al Brennero contro i clandestini, i francesi cacciando i migranti a Modane e Mentone, gli inglesi abbandonando l’Unione europea. Nel 2019 al confine fra Slovenia e Friuli-Venezia Giulia sono apparse squadre miste di poliziotti per pattugliare l’ex cortina di ferro, che da quindici anni non esisteva più.

Ma, al di là delle polemiche politiche, quali sono le frontiere dell’Italia? Davvero le conosciamo? I nostri confini naturali sono le Alpi e il mare, ci hanno insegnato. E invece no. 

Perché, ad esempio, la frontiera con la Svizzera sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai i confini con Francia e Slovenia sono situati a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? Nessuno immagina che il loro tracciato fu deciso da un giovanissimo duca Sforza puzzolente nel 1515 (Chiasso), o da un puntiglioso prefetto napoleonico nel 1808 (Ventimiglia). Né che la sventurata Gorizia ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947: record mondiale.

Insomma, altro che ‘confini naturali’. Sono molti gli spartiacque non rispettati: sapete che la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio? Decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane, infatti, non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.

Questo per quanto riguarda le frontiere geografiche. Ma anche quelle linguistiche appaiono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, e abbiamo anche centomila sloveni fra Cividale e Trieste. Un po’ si prende, un po’ si dà: oltre frontiera ben 350mila svizzeri del canton Ticino conservano come madrelingua l’italiano, fino al crinale del San Gottardo.

Per tracciare alcune frontiere c’è voluto il sangue di milioni di morti. Non occorre andare tanto indietro nel tempo: basti pensare alle carneficine nei conflitti del ’900. Per altre invece è bastato un semplice litigio sui limoni, come quello che separò Mentone dal principato di Monaco nel 1848.

Duemila anni fa i confini dell’Italia romana correvano su due fiumi: il Varo a occidente, subito dopo Nizza, e l’Arsa a oriente, nell’ascella dell’Istria. Da allora infinite guerre, invasioni, trattati, favori e dispetti hanno separato gli italiani da francesi, svizzeri, austriaci e sloveni. Ma pure italiani da italiani: Ventimiglia era frontiera fra Genova e Piemonte, Chiasso separava lombardi; mentre Tonale, Pontebba o Palmanova delimitavano la Serenissima repubblica di Venezia da zone anch’esse italianofone.

Questo libro cerca di soddisfare molte curiosità. Traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto. Chi ricorda, infatti, che il generale Charles De Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte? Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani, smettendo di combattersi per qualche giorno.

Dopo l’unità d’Italia e il recupero di Trento e Trieste nel 1918, Benito Mussolini rivendicò Nizza e Savoia, Tunisia e canton Ticino, difese l’Alto Adige dalle mire naziste e occupò metà Slovenia e Dalmazia nel 1941. Nel 1942 arrivò fino al Rodano, prendendo per dieci mesi Grenoble e Chambéry, Aix-en-Provence e Tolone, oltre alla Corsica. Poi l’Italia perse tutto, e in più dovette cedere l’Istria, Fiume, Zara e metà Isonzo alla Jugoslavia, e Briga e Tenda alla Francia.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini delle nostre frontiere. Andiamo a scoprirle: dalla val d’Ossola a Cortina d’Ampezzo, dal Monginevro alla Valtellina, dal passo Resia al Carso. Fra storia, geografia, cultura e politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Mauro Suttora 

Monday, December 21, 2020

Variante Covid, variante Brexit

Il virus mutante è riuscito in un solo giorno a realizzare il sogno degli “hard brexiters”: l'isolamento del Regno Unito

di Mauro Suttora

HuffPost, 21 dicembre 2020

Nella notte più lunga dell’anno, quella del solstizio invernale, gli europei hanno completamente isolato l’isola. Alle 23 del 20 dicembre la Francia ha bloccato tutti i traghetti e i treni dell’Eurotunnel, dopo che nelle convulse ore precedenti il resto del continente aveva vietato l’atterraggio agli aerei provenienti dalla Gran Bretagna. 

Ce l’hanno fatta per miracolo i 136 passeggeri del Ryanair Londra-Pescara, ultimo volo decollato da Stansted: loro hanno protestato perché ora devono stare in quarantena, e invece possono considerarsi fortunati rispetto alle centinaia di migliaia di europei in partenza bloccati in Inghilterra per Natale.

Gli inglesi non sanno più dove mettere i diecimila camion al giorno che transitavano fra Dover e Calais: hanno dovuto parcheggiarli sulle piste dell’aeroporto del Kent, ormai inservibile. Era dai tempi di Dunkerque, 1940, che non si vedeva un casino simile da quelle parti.

Il virus mutante è riuscito in un solo giorno, quattro anni dopo il loro referendum, a realizzare il sogno degli “hard brexiters”, gli antieuropeisti più scalmanati: Isolation. Che, guarda caso, è il titolo di una canzone di John Lennon uscita esattamente mezzo secolo fa, dicembre 1970, per suggellare la rottura con i Beatles.

La rottura britannica con l’Europa era invece prevista fra dieci giorni, altra incredibile coincidenza, allo scadere degli infiniti negoziati Uk-Ue posposti di anno in anno. Come in ogni trattativa, il premier britannico Boris Johnson forse bluffava, tirava la corda fino all’ultimo secondo per ottenere condizioni migliori. Ma temendo un possibile ‘no deal’, nessun accordo sulle nuove condizioni e tariffe doganali, gli inglesi avevano già cominciato a fare incetta nei supermercati.

Ora dovranno fare a meno di frutta e verdura fresca da Italia e Spagna, ma anche dei vaccini anti-covid Pfizer prodotti in Belgio. Per trasportarli ci vorrà la Raf, la Royal Air Force. I ministri più importanti sono riuniti in permanenza nella sala segreta Cobra, usata solo dopo attentati terroristici e altre emergenze planetarie. In realtà la sigla sta per il tranquillamente burocratico ‘Cabinet office briefing room’, ma c’è poco da scherzare.

Il virus superveloce, infatti, non poteva piombare in un momento peggiore: nel bel mezzo dell’accaparramento Brexit, dei rifornimenti natalizi, dei ritorni a casa degli immigrati, e dopo che Boris Johnson aveva promesso feste tranquille con regole rilassate. Invece l’impennata dei contagi (ieri 36mila rispetto ai 20mila di una settimana fa) ha costretto il premier britannico a una svolta a U peggiore di quella di Conte, con drastici lockdown ovunque tranne che in Cornovaglia. Perfino Scozia e Irlanda hanno chiuso le frontiere con l’Inghilterra.

I cospirazionisti inglesi notano con soddisfazione paranoica che la variazione del covid è partita dal Kent, cioè proprio la regione più vicina all’Europa, fra Londra e la Manica. “Ragionateci sopra”: è ovviamente il complotto finale del diavolo di Bruxelles, che c’infetta prima dell’addio definitivo.

Noi invece apparteniamo alla generazione che, prima dei treni-proiettile Eurostar e delle low-cost, transitava in autostop sulle verdi colline di Canterbury per approdare alla tanto agognata Londra, oppure arrivava nella Victoria station su scassati trenini in legno da Dover. E tutto questo ci sembra un incubo.

Mauro Suttora

Wednesday, September 25, 2013

Com'è moderno il vecchio Lucrezio

IL DE RERUM NATURA TRADOTTO E COMMENTATO DA ODIFREDDI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 settembre 2013


Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto avete odiato le intraducibili versioni del De Rerum Natura di Lucrezio?

Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua versione in prosa de La Natura delle Cose. E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi all’attualità che la rendono godibilissima.

Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua canzone più famosa, Blowin’ In The Wind del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba, disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila anni dopo.

Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film 8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve girare. Idea simile a Stardust Memories di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose, di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».

Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino…»

Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli, avverte Odifreddi: «Nell’Iliade Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la prima. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa ricerca».

Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel 1635 ci scrisse sopra un intero poema: La vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997, alla trilogia Matrix» con Keanu Reeves.

Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà».

Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo, come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.

Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta nella vita, imbrattandosi la veste».

Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».

Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E ne ricava una pura voluttà».

Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda, passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di sperma».

Nessuno sospettava che Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo) sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche “scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano “timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde “cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».

Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte le altre».

Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei, cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora

Wednesday, October 29, 2003

Nicolas Cage e la figlia di Presley

CHE BELLO RISPOSARE MIA MOGLIE

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 ottobre 2003

Lui non è nuovo ai ripensamenti: nel febbraio 2000 chiese il divorzio dalla prima moglie Patricia Arquette dopo cinque anni di matrimonio, ma dopo soli cinque giorni cambiò idea. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, fu lei a decidere di separarsi definitivamente, dopo che lui la tradì con Penelope Cruz (oggi fidanzata di Tom Cruise) sul set a Cefalonia del film Il violino del capitano Corelli che stavano girando assieme.

La notizia di questi giorni, tuttavia, è clamorosa: Nicolas Cage, 39 anni, vuole risposare la seconda moglie Lisa Marie Presley, 35 anni, figlia di Elvis, con la quale aveva convissuto per appena 108 giorni l’estate scorsa. E lei è felicissima. L’11 ottobre, infatti, sul palco del suo concerto all’Avalon di Hollywood, era così distesa che ha perfino accennato a qualche passo di danza.
 
Stranissimo, per lei che notoriamente è preda di attacchi di panico ogni volta che si esibisce in pubblico: appariva gentile con tutti, altro comportamento assai inusuale. «Era da mesi che non la vedevo così in forma, di buonumore e sexy», ha confidato un suo amico, «e il concerto è stato ottimo».

La ragione di questa ventata positiva è semplice: Cage le aveva appena telefonato da Filadelfia, dove sta girando un film, confermandole il proprio desiderio di risposarla all’inizio della prossima primavera.
 
Questa volta, però, non sarà più una cerimonia fra pochi intimi, con soli trenta strettissimi parenti e amici invitati, come avvenne lo scorso agosto a Mauna Lani Bay nelle isole Hawaii: i due vogliono che tutto il mondo sappia della loro riconciliazione, ci sarà una festa colossale, e pare che il luogo prescelto sia addirittura Graceland, a Memphis (Tennessee), il palazzo di Elvis dove il cantante rock più famoso di tutti i tempi morì nel ‘77, e che da allora è stato trasformato in un museo con decine di migliaia di visitatori adoranti ogni anno.

Ma cos’è successo di così importante da far cambiare di nuovo idea all’attore premio Oscar e alla cantante che ha venduto 600 mila copie del suo disco To Whom It May Concern uscito in aprile? 
«La verità è che sono fatti l’uno per l’altra», dice un amico della coppia, «si amano ancora e a lui piace il carattere forte di Lisa Marie. Tutte le altre donne con cui Nic è stato non erano alla sua altezza. Siccome lui è un attore famoso, erano succubi e gli dicevano sempre di sì. Si sottomettevano. Ma a lui questo comportamento non interessa».

Si era molto discusso sulle cause del divorzio lampo, l’anno scorso. Secondo alcuni Cage aveva sposato la Presle y soprattutto perchè è un grande fan di Elvis, e stando con la figlia gli sembrava quasi di entrare in contatto più stretto con il fondatore della musica rock. «Tutte cretinate, è di te che sono innamorato», le ha assicurato lui durante due recenti cene intime in un ristorante italiano vicino alla casa di lei nella zona di Hidden Hills, a Los Angeles.
 
Non che la celebrità del padre non sia un fardello notevole per Lisa Marie: «Non sa mai se gli amici e anche i fidanzati sono attirati soprattutto dal suo cognome, e quindi non si fida di nessuno», spiega uno stretto conoscente.

Anche Nicolas Cage, del resto, ha dovuto fare i conti con la fama riflessa: «Lo ammiro proprio per questo», ha dichiarato la Presley, «perchè si è staccato dal cognome Coppola [il regista del Padrino Francis Ford, ndr] e si è costruito una carriera per conto suo. Sia lui che io abbiamo un carattere ribelle e indipendente». 

Quanto siano indipendenti se ne sono accorti nei poco più di tre mesi di convivenza. Lei non sopportava che lui continuasse a passare tanto tempo con i propri amici maschi, in un’atmosfera di goliardia perenne. Si sentiva trascurata, anche per il parecchio tempo che Nic trascorre con il figlio dodicenne Weston, avuto dall’ex fidanzata Kristina Fulton. E non le piaceva che il marito fosse troppo arrendevole e condiscendente con i due figli che lei ha avuto dal primo matrimonio, con il musicista Danny Keough: Danielle, 13 anni, e Benjamin, 11.

La Presley, dopo quella prima relazione, si è sposata brevemente ma disastrosamente con Michael Jackson, e questa disavventura non ha certo giovato al suo equilibrio. Un’altra notevole fonte di disaccordo sembrava fossero i futuri figli: Nic li voleva subito e Lisa Marie no. Oppure viceversa, fatto sta che anche su questo i litigi sono stati continui. 

Entrambi assai focosi, le loro discussioni finivano quasi sempre con uno dei due che se ne andava di casa sbattendo la porta. Cage abita in una specie di finto castello, con tanto di torrette e spalti, nella sterminata zona residenziale di Los Angeles. 

«Le loro litigate, come anche il loro amore, erano assai spontanee», rivela la gola profonda della coppia, «si surriscaldavano per un nonnulla, e ciascuno non voleva cedere semplicemente per una ragione d’orgoglio».

Lo stesso orgoglio che ha impedito a Cage di ritirare l’istanza di separazione che si era quasi subito pentito di aver presentato al tribunale: ormai non poteva più tornare indietro. Un comportamento puerile, finché un pomeriggio, dopo numerose e lunghe telefonate quasi giornaliere, Nic ha preso la motocicletta ed è andato a casa di lei. Dopo un lungo giro si sono fermati sulle colline che sovrastano Hollywood, e hanno entrambi convenuto che erano stati stupidi a lasciarsi. Subito dopo hanno dovuto riconoscere di essere ancora innamorati l’uno dell’altra. «In realtà, a pensarci bene, abbiamo convissuto in totale per appena due settimane», ha ammesso la Presley, «perchè Nic, che è appassionato del proprio lavoro, era sempre via».

Già lo scorso marzo, in diretta televisiva dalla cerimonia degli Oscar (dov’era candidato per il film Adaptation di Spike Jonze), il disperato Cage aveva confessato davanti al mondo intero di essere ancora innamoratissimo della sua Lisa Marie. Poi ha cominciato ad assistere ai suoi concerti ogni volta che poteva, e le ha perfino mandato il suo aereo personale per farla tornare a casa in giornata.

In settembre i due si sono rivisti dopo un concerto di lei alla House of Blues di Las Vegas, si sono chiusi in un albergo e non sono usciti dalla loro camera per due giorni interi. Il legame si è rinsaldato, e fra un mese dovrebbe arrivare l’annuncio: matrimonio bis.
Mauro Suttora

GLI A LTRI DIVORZI FALLITI

Pare che in realtà, giuridicamente, Nicolas Cage e Lisa Marie Presley non abbiano mai divorziato. Lui lo scorso novembre aveva presentato istanza di divorzio, ma lei non ha mai risposto positivamente o negativamente, e gli avvocati di lui non hanno poi più insistito per avere una risposta.
 
Peccato, perché altrimenti, se il divorzio fosse stato formalizzato, la coppia avrebbe battuto lo storico record stabilito 28 anni fa da Elizabeth Taylor e Richard Burton. I quali divorziarono nel giugno 1974 dopo dieci anni di matrimonio (il secondo per lui, il quinto per lei). Ma appena sedici mesi dopo, nell’ottobre '75, si risposarono. 
La seconda unione fra l’attrice americana e il turbolento gallese, tuttavia, non durò molto: meno di un anno dopo, nell’agosto ‘76, divorziarono per la seconda volta. Lei nel dicembre dello stesso anno procedette al settimo matrimonio, con il senatore John Warner (seguito poi da quello con Larry Fortensky, terminato nel ‘97), mentre Burton, prima di morire nell’84 a soli 59 anni per emorragia cerebrale, fece in tempo a sposarsi altre due volte.

Un altro famoso tiramolla fra vip riguarda la bionda pettoruta Pamela Anderson di Baywatch e il marito musicista Tommy Lee: separatisi la prima volta nel '96, si riconciliarono quasi subito e fecero due figli. Nel '98 Lee fu arrestato perchè menava sia la moglie che i figli, e lei chiese il divorzio. Ma l’anno seguente lo perdonò e se lo riprese in casa, solo per separarsi definitivamente nel 2000.

Ci sono poi i casi di John Lennon e Yoko Ono, separatisi per un solo anno nel ‘74, e di Harrison Ford e della moglie Melissa Mathison, che si separarono nel novembre 2000, tornarono assieme sette mesi dopo, ma alla fine si lasciarono quando lui conobbe Calista Flockhart. 

Anche il cantante Eminem pare si sia riconciliato con la moglie Kimberly Mathers, dopo il divorzio dell’ottobre 2001. A casa nostra, infine, sono tornati assieme Claudio Amendola e Francesca Neri, che però non si erano mai sposati.
Mauro Suttora

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora