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Saturday, May 06, 2023

Dio salvi il re, le carrozze e l'incoronazione. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo

La monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 6 maggio 2023 

"Her Majesty is a pretty nice girl, but she doesn't have a lot to say (...) Someday I'm gonna make her mine". "Sua Maestà è una ragazza carina, ma non ha molto da dire (...) Prima o poi me la faccio": sono le parole dell'ultima canzone nell'ultimo disco dei Beatles, Abbey Road, 1969. Dura solo 23 secondi, e il suo titolo non appare sulla copertina dell'Lp.

Molto 'naughty', birichino, l'autore Paul McCartney. In Italia magari qualcuno l'avrebbe denunciato per vilipendio. Gli inglesi invece adorano questo humour sottile. Mentre detestano sparate melodrammatiche come quella dell'altro beatle John Lennon, che in quei mesi restituì alla regina il titolo di baronetto per protesta contro lo scarso successo del suo 45 giri 'Cold Turkey'. 

A proposito della nomina a baronetti: fu ancora Lennon a rivelare che si fumarono una canna nei bagni di Buckingham Palace nel 1965, prima di ricevere il titolo. E sempre Lennon capitanò la fronda sbarazzina quando, durante un concerto alla presenza della regina madre e della principessa Margaret, invitò il pubblico ad accompagnare 'Twist and Shout' battendo le mani. "Voialtri invece", aggiunse rivolgendosi al palco reale, "fate tintinnare i vostri gioielli".

Ecco, i Beatles (unici inglesi a eguagliare la fama planetaria della regina) rappresentano bene il massimo grado di contestazione cui è sottoposta la Corona britannica. Più silenziosi ma concreti i Rolling Stones: pare che Mick Jagger abbia portato a termine con Margaret l'impresa solo sognata da McCartney. Adesso i tifosi scozzesi dei Rangers di Glasgow cantano: "Carlo, l'incoronazione mettitela in quel posto!" Ma sono solo cori da stadio. Quando si è trattato di votare la secessione dalla monarchia inglese, anche in Scozia hanno vinto gli unionisti.

Prevale l'indifferenza: ai due terzi dei britannici, e ai tre quarti degli under 25, la cerimonia di oggi non interessa. Ma è un disinteresse per niente bellicoso, anzi benevolo: la maggioranza assoluta degli inglesi si dichiara comunque monarchica. Come quel proverbio romanesco: "Se ci sei sono contento, se sparisci nun m'accorgo". Forse la monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci? Per sostituirla con un esangue presidente civile? Peggio: per passare a un regime presidenziale come in Usa o Francia, con il rischio di eleggere soggettoni tipo Donald Trump o Boris Johnson?

 "Quaeta non movere", non tocchiamo ciò che funziona. Quindi becchiamoci pure Carlo e Camilla. Se saranno una disgrazia, non dureranno molto: l'anagrafe è quella che è. Poi, un'onesta successione è garantita per il prossimo mezzo secolo con l'equilibrato William, sua moglie che piace alle commesse, e suo figlio George che mostra già movenze da monarca. Poi, certo, ci sono anche le disgrazie. Ma le paturnie del principe Harry hanno dominato le classifiche mondiali delle vendite di libri negli ultimi mesi: la sua autobiografia ha avuto più successo di quella di Winston Churchill. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo. Come il favoloso corteo odierno con le carrozze. 

Ho lavorato 22 anni nel settimanale Oggi. Ogni volta che abbiamo dedicato la copertina a un resoconto scritto dalla nostra impareggiabile 'royal correspondant' Michela Auriti, le vendite schizzavano all'insù. Quindi God save the King. E salvi anche le tirature dei giornali. 

Saturday, February 11, 2023

Burt Bacharach e i Beatles, che coincidenza

La canzone Baby it's you, i contatti con Paul McCartney, i giudizi tranchant di John Lennon

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 febbraio 2023


Un'incredibile coincidenza lega Burt Bacharach, scomparso nella sua Los Angeles il 9 febbraio a 94 anni, e l'80enne Paul McCartney, ovvero i principali compositori di musica del '900 (con George Gershwin). Esattamente sessant'anni fa, l'11 febbraio 1963, i Beatles registrarono negli studi londinesi di Abbey Road la canzone "Baby it's you" di Bacharach, portata al successo dalle Shirelles negli Usa due anni prima. 

È l'unico punto di contatto fra le loro straordinarie carriere, che si sfiorarono nuovamente solo nel 1965 quando Bacharach andò in quegli stessi studi a Londra per far incidere la sua Alfie a Cilla Black, interprete in quel periodo di vari brani composti apposta per lei da McCartney.

Ai Beatles Baby it's you era piaciuta subito. La inserirono nel loro repertorio al Cavern di Liverpool e ad Amburgo, prima di affacciarsi alla Emi di Londra per realizzare il loro primo 45 giri Love me do nell'ottobre 1962. 

Vista la performance soddisfacente (17° posto in hit parade), uscirono subito con un altro disco, Please please me, che nel gennaio '63 conquistò la testa alla classifica. Cosicché il produttore George Martin li riconvocò subito ad Abbey Road per incidere un intero long playing.  

I Beatles interruppero per un giorno il tour inglese, e in sole dieci ore l'11 febbraio registrarono l'intero loro primo leggendario 33 giri, titolato come il singolo. Fra quelle tredici canzoni brillano capolavori come Twist and shout e I saw her standing there che offuscano la cover di Bacharach. Ma comunque Baby it's you fa la sua bella figura, con la voce solista di John Lennon. 

E questa è una vera ironia della storia, perché in seguito fu proprio Lennon, nel 1971, a definire "muzak", musicaccia, l'easy listening delle canzoni molto leggere come quelle di Bacharach. "Paperwall music", musica da tappezzeria: così i rocker politicamente impegnati come Lennon o Dylan bollavano melensaggini come I'll never fall in love again o Raindrops keep fallin' on my head, capolavori di Bacharach adatti secondo loro solo per gli ascensori e le hall degli alberghi. 

Giudizio ingiusto, e per la verità la condanna di Lennon era indirizzata soprattutto all'ex compagno McCartney. Nella canzone How do you sleep? lo accusò infatti di essere un semplice entertainer senza nerbo: "L'unica cosa buona che hai composto è stata Yesterday". 

Bacharach, dall'alto dei suoi miliardi e del matrimonio con Angie Dickinson soprannominata The legs (le gambe più belle del mondo), ovviamente se ne infischiava di questi giudizi. Ma durante tutti gli anni '60 e '70 nel mondo del pop-rock c'era un confine invalicabile fra la sua inoffensiva musica californiana, evocante aperitivi innaffiati di Martini in lussuose ville al tramonto, e i brani arrabbiati della controcultura antimilitarista amata dai contestatori universitari. Insomma, Bacharach era perfetto per la quarantenne Mrs. Robinson e i whisky di suo marito, mentre il Laureato Dustin Hoffman e la sua giovane fidanzata scappavano al ritmo di Simon & Garfunkel. 

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora