di Mauro Suttora
Oggi, 18 settembre 2013
Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto
avete odiato le intraducibili versioni del De
Rerum Natura di Lucrezio?
Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia
Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua
versione in prosa de La Natura delle Cose.
E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi
all’attualità che la rendono godibilissima.
Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua
canzone più famosa, Blowin’ In The Wind
del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari
vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba,
disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila
anni dopo.
Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film
8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è
un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve
girare. Idea simile a Stardust Memories
di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di
poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già
scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose,
di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».
Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del
suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di
Italo Calvino…»
Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli,
avverte Odifreddi: «Nell’Iliade
Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la
prima. Nei Sei personaggi in cerca
d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa
ricerca».
Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio
archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel
1635 ci scrisse sopra un intero poema: La
vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno
esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997,
alla trilogia Matrix» con Keanu
Reeves.
Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare
un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come
avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei:
ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha
sempre emanato odore di empietà».
Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi
materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo,
come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il
più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione,
tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi
versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco
verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al
mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.
Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che
scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano
scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda
ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si
inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta
nella vita, imbrattandosi la veste».
Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo
Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare
rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la
mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo
nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».
Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo
contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi
del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E
ne ricava una pura voluttà».
Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la
pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda,
passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si
trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in
profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di
sperma».
Nessuno sospettava che
Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei
tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo)
sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata
pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le
scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche
“scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano
“timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde
“cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti
hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».
Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna
fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo
bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche
dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte
le altre».
Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la
pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei,
cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va
giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è
difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora
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