«Qui è tutto inquinato. Ma mi fanno pagare l'Imu»
«Ho dovuto ammazzare i bovini, non posso coltivare più nulla, nel sangue abbiamo pcb 15 volte superiore alla norma», dice il coltivatore Antonioli. Alle porte della città, parchi vietati e una causa da 4 miliardi
di Mauro Suttora - foto di Livio Senigalliesi
Quattro miliardi di euro o un milione? Questa è l’astronomica differenza fra il costo della bonifica dell’area inquinata dalla fabbrica Snia Caffaro a Brescia, e quello che lo Stato spende ogni anno per eseguirla. A questo ritmo, i sette km quadri alla periferia della città torneranno puliti fra 4.000 anni.
L’impianto chimico ormai è chiuso, la Snia Caffaro è fallita da anni. Ma la micidiale eredità di pcb (policlorobifenili) e diossina con cui ha impregnato i terreni vicini per decenni rimane. Il commissario Marco Cappelletto ha chiesto agli ex proprietari (la finanziaria Hopa e alcune banche) un indennizzo di quattro miliardi, di cui 3,4 per danni ambientali. Intanto, il nuovo ministro dell’Ambiente Andrea Orlando (Pd) ha visitato la città e ha promesso di alzare la cifra che attualmente viene spesa per ripulire l’area.
A rischio la falda acquifera
Quel che è sicuro, è che finora tutti i cittadini danneggiati direttamente non hanno ricevuto un centesimo di rimborso. «Ho dovuto ammazzare e cremare le 21 bestie che allevavo», ci dice Pierino Antonioli, coltivatore, «perché la roggia dove la Caffaro scaricava ha inquinato i miei sette ettari coltivati a mais e fieno. Da dieci anni non posso più produrre nulla, ho reddito zero, neanche una gallina. Ma l’Imu me la fanno pagare lo stesso».
I danni della Snia Antonioli li porta anche nel sangue: «Alle ultime analisi mi hanno misurato un tasso di pcb di 220. Sono contenti, prima era 300. Ma il limite massimo sarebbe 15. Perfino un mio nipotino, che non ha mai abitato qui, ha il pcb. Dicono che l’ha preso da sua madre, mia figlia, dopo che si è trasferita».
L’area inquinata è nella periferia Est di Brescia: un cono lungo sei chilometri sotto via Milano. I tre parchi delle vie Nullo, Sorbana e Passo Gavia hanno l’erba avvelenata, e così il campo sportivo Calvesi.
I terreni della fabbrica sono ovviamente quelli più inquinati: fino a 35 metri di profondità, come un palazzo di dieci piani di terra da portar via. Peggio dell’Ilva di Taranto. Le falde acquifere sono a rischio.
Fino a dieci anni fa nessuno sospettava nulla. Poi il professore e storico Marino Ruzzenenti ha scritto un libro sulla Caffaro, e il caso è esploso.
L’impero Snia di rayon e viscosa
Dove finivano gli scarti industriali? Nelle acque di scarico e nella roggia Franzagola. La fabbrica Caffaro era entrata nell’impero Snia, quello che a Torviscosa (Udine) produceva la seta artificiale rayon.
Negli anni Novanta la Snia era ancora un gigante da 9mila dipendenti. «Venne acquistata dalla Hopa di Emilio Gnutti», spiega a Oggi Ruzzenenti, «e nel 2004 fu divisa in due: da una parte la redditizia Sorin Biomedica, tuttora quotata in Borsa, dall’altra il bidone vuoto della chimica con la Caffaro. Che infine ha chiuso i battenti ed è stata messa in liquidazione».
Chi pagherà ora per la pulizia? Il commissario liquidatore vorrebbe rivalersi almeno in parte sugli ex proprietari. Ma sarà una causa lunga e difficile.
Intanto i 200 mila abitanti di Brescia (seconda città della Lombardia) convivono con una bomba ecologica. E dall'altra parte della città l'ex cava Antonioli, trasformata in discarica di cesio 137, minaccia le falde acquifere addirittura con radiazioni nucleari.
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