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Saturday, July 01, 2023

Rischio Gorizia per i giovani ucraini: quanti morti per ogni km liberato?

Un paragone con il prezzo pagato dall'Italia in vite umane dal maggio 1915 all'ottobre 1917. Che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 luglio 2023

Tre chilometri. Di tanto i soldati italiani riuscirono ad avanzare in due anni e mezzo della Grande guerra, dalle "radiose giornate" del maggio 1915 alla disfatta di Caporetto nell'ottobre 1917. Al prezzo atroce di 400mila morti e 300mila mutilati: una vittima ogni sette millimetri conquistati.

È questo l'incubo dei generali ucraini. Perché in cento anni le armi hanno fatto grandi progressi (chiamiamoli così): oggi ci sono tank, elettronica, droni. Ma alla fine, in tutte le guerre bisogna mettere gli stivali o i cingoli dei blindati nel fango. E i campi minati dai russi al di qua del fiume Dnipro sono più o meno gli stessi che gli austriaci minarono al di qua dell'Isonzo, e che falcidiarono una generazione di giovani italiani.

Soprattutto, attaccare costa molto più che difendersi. Allora come oggi. Agli ucraini è bastato giocare al tiro a bersaglio con i missili Javelin per distruggere le colonne di carri armati russi diretti a Kiev. Ma adesso per loro le strade verso Mariupol e Melitopol sono egualmente insidiose. Le parti si sono invertite, è arrivato il turno degli ucraini rischiare di fare la fine del piccione.

"Ogni metro, ogni giorno ci costa sangue", ammette con il Washington Post il generale Valery Zaluzhny, comandante in capo dell'esercito ucraino. Sa bene che ci vollero per esempio, nella Seconda guerra mondiale, due anni agli Alleati per liberare l'Italia nel 1943-45, ai sovietici per arrivare a Berlino; un anno dalla Normandia alla Germania.

Gorizia è un nome slavo, come quelli russi e ucraini. Significa "piccolo monte", collina. Per farla diventare italiana nell'agosto 1916 ci vollero sei offensive in un anno: sono le famose "battaglie dell'Isonzo" che ci hanno insegnato a scuola. In realtà carneficine che costarono ciascuna decine di migliaia di vittime all'Italia. I soldati austriaci erano la metà dei nostri ed ebbero metà dei morti. Non perché fossero più bravi, prudenti, coraggiosi o vigliacchi, ma perché appunto difendersi è più facile.

Subito dopo la conquista di Gorizia il comandante in capo Luigi Cadorna, dal suo tranquillo quartier generale nell'attuale liceo classico Stellini di Udine, lanciò altri centomila giovani militari alla conquista di Trieste. 
Non sapeva che il suo avversario generale Svetozar Borojević, serbo ma nato in Croazia e quindi cittadino austroungarico (Vienna era un impero modernamente multietnico, i nazionalisti allora eravamo noi), aveva costretto migliaia di suoi prigionieri di guerra russi a costruire fortificazioni invalicabili sul Carso. 

Gli austriaci, come i russi oggi, ricorsero anche all'allagamento: fecero esondare le acque dell'Isonzo captate dal canale Dottori a Sagrado (Gorizia), trasformando centinaia di ettari in acquitrini impraticabili per i fanti italiani. I quali uscivano dalle trincee solo per farsi falcidiare dalle mitragliatrici asburgiche. E se rifiutavano di andare verso la morte certa finivano giustiziati dai tribunali militari italiani. Così la nostra settima offensiva sull'Isonzo non riuscì a raggiungere neppure Duino. Al solito prezzo di 20mila morti.


Non ci credete? Guardate il film 'Uomini Contro' di Francesco Rosi con Gian Maria Volonté, tratto dal libro 'Un anno sull'altipiano' di Emilio Lussu, padre della Repubblica. Oppure visitate il Parco tematico della Grande Guerra a Monfalcone (Gorizia) e il cimitero di Redipuglia, per comprendere la grande assurdità della guerra.
Perché dopo quelle sette battaglie dell'Isonzo ce ne furono altre cinque, tutte egualmente sanguinose e inutili. Due anni dopo invece ne bastò una, partita di slancio dal Piave nell'ottobre 1918, per vincere il conflitto.


Dopo l'effimera liberazione del 1916 Gorizia cambiò padrone ben sette volte nei successivi trent'anni (record mondiale): austriaci dopo Caporetto, italiani dopo il Piave, jugoslavi nel 1943, poi tedeschi, di nuovo jugoslavi, nel '45 angloamericani, infine divisa a metà nel '47 fra Italia e Jugoslavia (dal 1991 Slovenia).

Auguriamo agli ucraini che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo. Auguriamo ogni male a Vladimir Putin, che con la sua aggressione ha riportato l'Europa indietro di cent'anni. Ma il rischio Gorizia per i giovani ucraini rimane. 

Thursday, August 18, 2022

La tragica attualità della strage di Pola

Era il 18 agosto 1946, è stata la prima strage della Repubblica. Fu un atto di terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina

di Mauro Suttora

Huffpost, 18 agosto 2022


È stata la prima strage della Repubblica. Alle due di pomeriggio del 18 agosto 1946 a Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, 65 persone (per un terzo ragazzi sotto i 18 anni) morirono nello scoppio di una ventina di mine antinave. Come per Piazza Fontana, gli autori della strage sono rimasti sconosciuti.

Era una calda domenica d'estate, sulla spiaggia si divertivano centinaia di famiglie. Le mine giacevano inerti senza detonatore in un angolo dell'arenile, disinnescate dagli artificieri dopo la fine della guerra. Pola era sotto amministrazione britannica, ma molti temevano che sarebbe stata scambiata con Gorizia per finire sotto la Jugoslavia comunista di Tito. Il 90% dei suoi 31mila abitanti erano italiani. 

Improvvisamente, il boato. Una nuvola di fumo fu vista a chilometri di distanza. Decine di corpi rimasero polverizzati. Centinaia i feriti. Chi aveva innescato il tritolo delle mine? Qualcuno parlò di incidente, magari causato dal fornelletto di una grigliata. 

La verità si è saputa solo nel 2008, all'apertura degli archivi di Londra: "Gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persone sconosciute". Con tutta probabilità agenti dell'Ozna, la polizia segreta del dittatore Tito. Che così raggiunse il suo scopo: terrorizzati, 28mila polesani nell'anno seguente scapparono, arrivando esuli in Italia. 

Ecco, il terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina. Sono tante le similitudini fra l'occupazione russa di Mariupol e Kherson, e quella jugoslava di Trieste e Istria 76 anni fa. 

Ora come allora, i dittatori seminano paura in pochi per disfarsi di tanti. Tito infoibò 6mila civili italiani per farne fuggire 300mila. Specifichiamo: infoibare significa gettare persone spesso vive in un buco profondo cento metri. Personalmente, avrei preferito morire gasato in pochi minuti invece di agonizzare per giorni crepando di sete coi vermi nelle ferite.  

A Pola, invece delle foibe, furono le mine a falciare ragazzi che nuotavano. A Bucha sono state le pistole di ragazzi russi,  arruolati alla vigliacca, a finire alla tempia prigionieri ucraini. Il risultato è lo stesso: la pulizia etnica. Il 90% degli italiani lasciarono l'Istria perdendo tutto; decine di migliaia ucraini stanno lasciando Donbass e le altre zone occupate dai soldati di Putin.

Nel 1945-47 la pulizia fu quadrupla. Non solo etnica contro gli italiani, ma anche politica contro i non comunisti, economica contro i borghesi, religiosa contro i cattolici. In Ucraina conosceremo solo fra qualche anno il profilo sociologico dei profughi o deportati in Siberia, ma la comune fede ortodossa non impedisce al patriarca putiniano Cirillo di applaudire i massacri. 

Altra analogia: Putin, come Tito, attua la politica del fatto compiuto. Il dittatore jugoslavo preferì lanciare i suoi partigiani alla conquista dell'italiana Trieste prima ancora di liberare la slovena Lubiana. Pretendeva tutta la Venezia Giulia fino all'Isonzo, inglobando Carso, Gorizia, Monfalcone. 

Anche il despota russo conosce la forza del fait accompli, come dicono i diplomatici. Sa che quasi sempre la linea di armistizio si trasforma in confine definitivo, oppure dà diritto a compensazioni territoriali. Così il 24 febbraio si è scagliato avventatamente contro Kiev e Kharkiv, che niente hanno a che fare con il Donbass rivendicato appena il giorno prima. Lì ha dovuto ritirarsi, come Tito da Trieste. Ma Kherson e tutto il retroterra della Crimea sono ancora suoi: è il fiume Dniepr la nuova esagerata frontiera sperata da Putin, il suo Isonzo. 

Oggi come nel 1947, sono americani e inglesi a difendere i popoli che si battono per la libertà e la democrazia. Allora ci riuscirono solo in parte, perché il nuovo confine fra Italia e Jugoslavia, quello attuale, fu tracciato sulla 'linea francese' per pressione di Stalin; mentre la loro linea Morgan avrebbe salvato la costa orientale dell'Istria (Parenzo, Rovigo, Pirano, Umago), veneziana e italiana da sempre.

In Ucraina, vedremo. Ma quella strage di Pola, vicino alle fantastiche isole Brioni, si affianca a nomi di altri massacri europei diventati tristemente famosi quest'anno, dopo quelli di Sarajevo e Srebrenica trent'anni fa: Bucha, Mariupol, Severodonetsk. 

Sunday, June 13, 2021

Quando la Sardegna “confinava” con il Principato di Monaco

Alla scoperta delle tante storie dei confini italiani con Mauro Suttora

di Roberto Roveda

Unione Sarda, 13 giugno 2021

A cavallo del Terzo millennio ci siamo sentiti tutti un po’ globalizzati e i confini sono sembrati retaggio di un passato destinato a cedere sempre più il passo alla libera circolazione delle persone, dei prodotti e delle idee. Nel giro di pochi anni però le cose sono cambiate rapidamente e drammaticamente, facendo tornare d’attualità le frontiere. Prima le crisi economica, poi l’aumento dei flussi migratori ed infine la pandemia da Coronavirus hanno fatto riapparire quei controlli sulle linee di confine che erano scomparsi da anni. 

Abbiamo così in un certo senso riscoperto che l’Italia prima o poi “finisce” per lasciare posto ad altre terre, lingue, culture e amministrazioni. Già, ma dove nascono i confini terrestri della nostra Penisola? E veramente, come si pensa spesso, coincidono con le Alpi e sono rimasti immutati nel corso dei secoli?

Le cose non sono così semplici, come ci racconta il giornalista Mauro Suttora nel suo Confini (Neri Pozza, 2021, pp. 288, anche e-book), vera miniera di storie, aneddoti e segreti riguardanti le frontiere italiane. Nel libro riviviamo, infatti, le tante vicissitudini attraverso le quali si sono formati i limiti geografici e linguistici del nostro Paese. 

Storie ricche di sorprese, dato che abbiamo terre patrie in cui si parla il tedesco (Alto-Adige), francese (Valle d’Aosta) e lo sloveno (nel Friuli) mentre l’italiano è l’idioma più diffuso in alcune aree della Svizzera ai confini con la Lombardia.

Storie inaspettate se pensiamo che per qualche decennio la Sardegna ha “confinato” addirittura con il Principato di Monaco, come ci conferma proprio Mauro Suttora:

“Per più di trent’anni, dal 1815 al 1848, il regno di Sardegna, che riuniva oltre all’isola, il Piemonte e la Liguria, aveva i propri confini in comune con il Principato monegasco, che all’epoca era grande dieci volte di più rispetto ad oggi e comprendeva anche Roccabruna e Mentone. Allo stesso tempo il regno sardo confinava con la vicina Francia. Insomma, per quanto sia un’isola la Sardegna non è per nulla estranea alle dinamiche di confine. Anzi, alla fine, la Sardegna è forse il regno antecedente all’Italia di cui mi occupo di più data la complessità delle vicende della nostra frontiera occidentale, quella con la Francia. E i sardi non sono estranei per nulla alle vicende delle nostre frontiere orientali come insegnano le vicende della Prima guerra mondiale”.

Ma cosa c’entra la Sardegna con i confini durante la Grande guerra?

“Per conquistare Gorizia nell’agosto 1916 muoiono cinquantamila soldati italiani contro quarantamila austriaci. In particolare, la battaglia di Doberdò del 6 agosto è ricordata come una delle più sanguinose della Prima guerra mondiale: cinquemila morti italiani, tremilacinquecento austriaci. Viene soprannominata “battaglia dei popoli” perché combattuta dai sardi della brigata Sassari contro reparti asburgici anch’essi a forte connotazione etnica: ungheresi, rumeni e sloveni”

Quello di Gorizia è un confine veramente tribolato…

“Come tutto il confine orientale, la cui costruzione è costata all’Italia seicento mila morti durante la Prima guerra mondiale e altre migliaia durante la Seconda, con tutto il corollario di esodi di popolazioni, stragi, foibe. Basti dire che Gorizia è passata di mano ben sette volte tra il 1916 e il 1946, un record mondiale!”.

Ma tutti i confini nazionali sono stati il frutto di lotte tanto terribili?

“Fortunatamente no. Il confine con la Svizzera è in pace da più di cinquecento anni, con l’eccezione delle guerre per il controllo della Valtellina, in Lombardia, che è stata occupata dagli Svizzeri dal 1512 al 1797. Il confine con la Francia ha una vicenda molto movimentata, piena di storie da raccontare però non ci è costato in termini di lutti quanto la frontiera orientale”.

Davvero la Francia ha cercato anche annettersi la Valle d’Aosta in anni non lontanissimi?

“Si, accadde nel 1945 e a favorire il tentativo fu il generale De Gaulle. A fermarlo fu una inedita convergenza d’intenti tra partigiani e fascisti”.

Ma noi italiani conosciamo i nostri confini?

“Assolutamente no. Siamo rimasti fermi a Mazzini che diceva che il nostro Paese ha i confini più belli, addirittura ‘sublimi’, perché è delimitato dalle Alpi a nord e dal mare a sud”.

E non è così?

“Ci sono moltissimi posti dove il confine terrestre con coincide con lo spartiacque delle Alpi. Come dico nel libro la pipì degli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) e Tarvisio (Udine) non finisce nel Po, ma nel mar Nero, attraverso il Danubio. In Lombardia, la Val di Lei, in provincia di Sondrio, fa parte invece del bacino idrografico del fiume Reno. Se aggiungiamo il fatto che spesso confini linguistici e geografici non coincidono per nulla - con il tedesco, il francese e lo sloveno parlato in terra italiana - abbiamo già capito quanto ci sia da scoprire sulla storia delle nostre frontiere”.

Roberto Roveda

Saturday, May 01, 2021

Da Tarvisio a Gorizia, la storia raccontata attraverso i confini




















cartina © Raffaella Suttora

Suttora ricostruisce i cambiamenti nel corso delle epoche. Grande spazio alle vicende legate alle nostre frontiere

di Mauro Suttora

Messaggero Veneto, quotidiano di Udine e del Friuli, 1 maggio 2021 

Perché il confine fra Italia Slovenia sta proprio a Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? E quello con la Francia di Ventimiglia? E da quanto tempo Chiasso separa Italia e Svizzera?

 

In tempo di nuovi sovranismi (fortunatamente non bellicosi) è utile conoscere meglio le nostre frontiere. Che non seguono sempre il crinale delle Alpi, come ci hanno insegnato a scuola.


Nel libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza), in libreria dal 29 aprile, spiego ad esempio che la pipì fatta a Tarvisio, così come a Livigno (Sondrio) o a San Candido (Bolzano) finisce nel mar Nero: sono tutti pezzi d’Italia che si trovano al di là dello spartiacque, e che quindi non fanno parte del bacino del Po, ma di quello del Danubio (la val Canale attraverso il torrente Slizza e poi la Drava).


La sventurata Gorizia detiene un record mondiale: ha cambiato padrone ben sette volte in soli trent’anni, dal 1916 al 1947, fra fiumi di sangue. 

E sapete che lingua parlavano gli abitanti di Tarvisio quando nel 1918 passò all’Italia? Il tedesco in 6.400, lo sloveno in 1.680, e l’italiano in dieci. 

Ciononostante, la frontiera fu fissata al Coccau.


Gli attuali confini orientali del Friuli (e dell’Italia) sono nati nel 1509, quando l’imperatore austriaco Massimiliano strappò Plezzo, Tolmino e Caporetto a Venezia. 

Fino ad allora l’alta valle dell’Isonzo era stata romana, gota, longobarda, franca, del patriarcato di Aquileia e della Serenissima. 

Gli sloveni la popolarono nel 600, e visto che erano bravi agricoltori tre secoli dopo furono invitati dai patriarchi a coltivare anche le valli del Natisone, desertificate da epidemie e invasioni degli ungari.


Ma anche qui gli spartiacque non sono rispettati. Il Natisone nasce in Italia, poi entra in Slovenia e dopo dieci chilometri torna in Italia. 

Il torrente Uccea, viceversa, nasce dal crinale della val Resia e scorre per nove chilometri in Friuli prima di diventare sloveno e sfociare nell’Isonzo. 

Quanto allo Judrio, è un caso unico al mondo: fa da frontiera per quasi tutto il suo corso, prima tra Italia e Slovenia, e poi fra le province di Udine e Gorizia, ricalcando il vecchio confine italo-austriaco dal 1866 al 1918.


Sono tante le curiosità delle nostre frontiere. Fino al 1797, per secoli, la bassa friulana era divisa fra Venezia e Austria a macchia di leopardo, con molte enclaves: Gonars, Porpetto, Cervignano e Aquileia erano asburgiche, mentre Palmanova, Strassoldo e Grado stavano sotto Venezia.


L’attuale confine Italia-Slovenia a Gorizia, per rispondere alla domanda iniziale, segue il tracciato dell’ex ferrovia Transalpina Trieste-Vienna: l’unica altra frontiera nel mondo decisa dai treni è quella martoriata fra Siria e Turchia, che corre parallela ai leggendari binari Berlino-Bagdad.


Quanto alla Venezia Giulia, è una definizione recente, coniata nel 1863 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, per distinguerla dalla Venezia Euganea (Veneto) e dalla Tridentina (Trentino). 

Ma dopo il 1945 ha dovuto cedere 112 dei suoi 127 comuni alla Jugoslavia di Tito: le intere province di Pola e Fiume, e quasi tutte quelle di Gorizia e Trieste.

Mauro Suttora

Thursday, April 29, 2021

Le frontiere son tornate



Riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus

di Mauro Suttora

 HuffPost, 29 aprile 2021

Introduzione del libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora (Neri Pozza) 

I confini sono tornati. Qui in Europa pensavamo di averli aboliti, dopo le due guerre mondiali. “Imagine there’s no countries, immagina che non ci siano più Paesi”: avevamo messo la canzone di John Lennon perfino nelle nostre segreterie telefoniche. Prima, nel 1957, ci affratellò la Comunità europea. Poi, nel 1989, il crollo del Muro di Berlino liberò i Paesi dell’Est. Infine, nel 1997, il trattato di Schengen: quella magica parolina che permette di non accorgersi più delle frontiere. Basta dogane, documenti, file di auto ai valichi. Viaggiavamo in autostrada dopo Bordighera o Vipiteno, e continuavamo a guidare a 130 all’ora. Eravamo già entrati in Francia e Austria, ma ai nostri occhi cambiavano solo i pedaggi e il colore delle strisce sull’asfalto.

Poi è arrivato il coronavirus. E le frontiere sono resuscitate in pochi giorni. In tutto il mondo. Miliardi di persone ‘confinate’ nei propri confini: delle case, dei paesi, delle città. E poi zone rosse, regioni proibite, stati off limits. Un’esperienza incredibile, inedita, improvvisa. Niente più viaggi in aereo, nave, treno, auto. Tutti bloccati come servi della gleba nei feudi medievali. “Nell’intera storia umana non è mai avvenuto nulla di così veloce e globale”, ha avvertito Henry Kissinger dall’alto dei suoi 97 anni, “ne sentiremo gli effetti per generazioni”.

A dire il vero, c’erano state avvisaglie. Prima il movimento no-global: le grandi manifestazioni a Seattle nel 1999 e a Genova nel 2001. Poi anche in Italia, come nell’Inghilterra del Brexit e negli Usa di Trump, a destra sono apparsi i ‘sovranisti’. I loro slogan: “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “No Euro/pa”.

Una volta si chiamavano nazionalisti, e hanno fatto danni per secoli. Consoliamoci: oggi, abbandonata l’insalubre tendenza a voler spostare in avanti i propri confini, i neonazionalisti si limitano a proclamare il recupero di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare. (...)

In ogni caso, riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus: i populisti austriaci ripristinando i controlli al Brennero contro i clandestini, i francesi cacciando i migranti a Modane e Mentone, gli inglesi abbandonando l’Unione europea. Nel 2019 al confine fra Slovenia e Friuli-Venezia Giulia sono apparse squadre miste di poliziotti per pattugliare l’ex cortina di ferro, che da quindici anni non esisteva più.

Ma, al di là delle polemiche politiche, quali sono le frontiere dell’Italia? Davvero le conosciamo? I nostri confini naturali sono le Alpi e il mare, ci hanno insegnato. E invece no. 

Perché, ad esempio, la frontiera con la Svizzera sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai i confini con Francia e Slovenia sono situati a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? Nessuno immagina che il loro tracciato fu deciso da un giovanissimo duca Sforza puzzolente nel 1515 (Chiasso), o da un puntiglioso prefetto napoleonico nel 1808 (Ventimiglia). Né che la sventurata Gorizia ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947: record mondiale.

Insomma, altro che ‘confini naturali’. Sono molti gli spartiacque non rispettati: sapete che la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio? Decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane, infatti, non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.

Questo per quanto riguarda le frontiere geografiche. Ma anche quelle linguistiche appaiono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, e abbiamo anche centomila sloveni fra Cividale e Trieste. Un po’ si prende, un po’ si dà: oltre frontiera ben 350mila svizzeri del canton Ticino conservano come madrelingua l’italiano, fino al crinale del San Gottardo.

Per tracciare alcune frontiere c’è voluto il sangue di milioni di morti. Non occorre andare tanto indietro nel tempo: basti pensare alle carneficine nei conflitti del ’900. Per altre invece è bastato un semplice litigio sui limoni, come quello che separò Mentone dal principato di Monaco nel 1848.

Duemila anni fa i confini dell’Italia romana correvano su due fiumi: il Varo a occidente, subito dopo Nizza, e l’Arsa a oriente, nell’ascella dell’Istria. Da allora infinite guerre, invasioni, trattati, favori e dispetti hanno separato gli italiani da francesi, svizzeri, austriaci e sloveni. Ma pure italiani da italiani: Ventimiglia era frontiera fra Genova e Piemonte, Chiasso separava lombardi; mentre Tonale, Pontebba o Palmanova delimitavano la Serenissima repubblica di Venezia da zone anch’esse italianofone.

Questo libro cerca di soddisfare molte curiosità. Traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto. Chi ricorda, infatti, che il generale Charles De Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte? Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani, smettendo di combattersi per qualche giorno.

Dopo l’unità d’Italia e il recupero di Trento e Trieste nel 1918, Benito Mussolini rivendicò Nizza e Savoia, Tunisia e canton Ticino, difese l’Alto Adige dalle mire naziste e occupò metà Slovenia e Dalmazia nel 1941. Nel 1942 arrivò fino al Rodano, prendendo per dieci mesi Grenoble e Chambéry, Aix-en-Provence e Tolone, oltre alla Corsica. Poi l’Italia perse tutto, e in più dovette cedere l’Istria, Fiume, Zara e metà Isonzo alla Jugoslavia, e Briga e Tenda alla Francia.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini delle nostre frontiere. Andiamo a scoprirle: dalla val d’Ossola a Cortina d’Ampezzo, dal Monginevro alla Valtellina, dal passo Resia al Carso. Fra storia, geografia, cultura e politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Mauro Suttora 

Tuesday, August 30, 2011

Province: che succede in concreto?

SCUOLE, INPS, PREFETTURE: COSA CAMBIERÀ PER GLI ABITANTI

I servizi rimangono, gli uffici si spostano. Ecco cosa cambierà in concreto per gli abitanti delle province abolite.

di Mauro Suttora

Oggi, 19 agosto 2011

Spariranno gli uffici statali, si sopperirà con l'informatizzazione e gli sportelli distaccati. Spariscono prefetture, questure, comandi provinciali di Carabinieri, Guardia di finanza e Vigili del fuoco, direzioni provinciali del lavoro, uffici scolastici provinciali, agenzie delle entrate, motorizzazione, Inps, Inail, Inpdap, Camere di commercio, Aci e tutti gli altri uffici statali o parastatali.

Naturalmente i servizi rimangono: pompieri e Carabinieri, per esempio, continuano ad avere tutte le loro caserme e la Polizia i commissariati. Per le pratiche negli uffici amministrativi, però, bisognerà fare più strada per andare nel nuovo capoluogo. Si ovvierà con sportelli distaccati e con l' informatizzazione (documenti on line ).

Uffici provinciali: tutte le competenze saranno assorbite dalla Provincia cui si viene annessi. Cancellati presidenti, consiglieri e assessori, le competenze passeranno alla nuova Provincia, che assorbirà quella sparita. Ed è qui il problema. Per risparmiare veramente, infatti, bisognerebbe abolire tutte le Province, e trasferire i loro uffici a Comuni e Regioni. Non ha senso, per esempio, che gli edifici delle scuole secondarie (e la loro manutenzione) siano della Provincia, e quelli delle primarie del Comune. Egualmente per le strade provinciali: possono tranquillamente passare alle Regioni.

Occorreranno tempi lunghi: le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Il numero degli abitanti si calcolerà il 9 ottobre, con il censimento 2011. Alcune province vicine ai 300 mila abitanti, come Pistoia e Benevento, potrebbero salvarsi.
Poi, le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Le appena elette Trieste, Gorizia e Vercelli, per esempio, dureranno fino al 2016.
M.S.

Tuesday, August 26, 2008

Olimpionici e Tibet

Gli atleti protestano quando tornano a casa

Libero

Pechino, 23 agosto 2008

Che cosa rispondono gli olimpionici delle squadre militari all’occhiolino strizzato dal ministro della Difesa? Ignazio la Russa aveva detto che potrebbe quasi premiare i «propri» atleti se esprimessero in qualche modo solidarietà al Tibet mentre si trovano in Cina.

Qui nella Casa Italia di Pechino però non troviamo neanche un azzurro disposto ad aderire all’invito del ministro. «Non è giusto chiedere a noi singoli atleti di prendersi la responsabilità di un gesto pubblico, che finirebbe per essere clamoroso. I politici potevano prendere le loro decisioni, anche di boicottare i Giochi. Ma non devono scaricare le loro indecisioni su di noi», risponde Antonio Rossi, il canoista 39enne veterano dei Giochi, cinque Olimpiadi alle spalle e portabandiera dello squadrone azzurro.

Ieri è arrivato quarto nella sua K4 1.000, e nonostante appartenga alle Fiamme Gialle della Finanza, e quindi sia formalmente un militare, il consiglio del suo ministro lo lascia freddo. «Anche perché il Cio, il Comitato olimpico internazionale, è stato chiaro su questo. L’articolo 51 proibisce ogni manifestazione politica da parte dei gareggianti, e loro lo hanno ribadito».

Indifferente quindi al Tibet? «Assolutamente no. Anzi, all’inizio delle Olimpiadi ho aderito all’iniziativa simbolica di tagliarsi una ciocca di capelli per il Tibet, e qualcuno mi ha criticato per questo. In quanto portabandiera non avrei dovuto farlo, mi ha detto un atleta. Ma io non rinuncio alle mie idee, e prima e dopo le gare parlo. Anzi, per quanto riguarda la Cina non esiste solo il Tibet. Io vengo da Lecco, e in quella zona parecchie aziende che producevano seta e telai hanno dovuto chiudere per la concorrenza cinese. Ma quanto pagano i lavoratori, qui? E con che metodi li fanno lavorare?»

Il suo compagno di equipaggio Luca Piemonte, 29 anni, di Staranzano (Gorizia), è delle Forestali. Corpo civile, ma anche lui dice: «Non trovo giusto mischiare la politica con lo sport. Le prestazioni sportive non vanno strumentalizzate. Io sono contrario a ogni forma di repressione, e di Paesi repressi al mondo ce ne sono tantissimi. Credo che si possa manifestare in un altro modo, e non durante una manifestazione politica come le Olimpiadi».

«I dirigenti ci hanno detto esplicitamente di non fare gesti politici», dice Michele Zerial, 21 anni, di Trieste, quarto nella K1 500, «ma io non avrei fatto niente lo stesso. Anche perché i cinesi con noi sono stati superdisponibili, aperti, meglio di qualsiasi aspettativa. Prima e dopo l’Olimpiade mi metto volentieri una maglietta per il Tibet, ma qui no. In Cina mi sono trovato bene».

Quanto al presidente del Coni Gianni Petrucci, conferma le cose dette all’apertura dei Giochi, quando arrivò un analogo auspicio di gesti pro-Tibet da parte del ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Perché i politici non chiedono alle aziende che fanno affari con la Cina di boicottarla?»

Mauro Suttora