Monday, June 24, 2024
Croazia, Modrić e mia nonna
Tuesday, May 30, 2023
Inutile intestardirsi sullo status quo in Kosovo: non funziona
Non c'è peace-keeping né peace-enforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia. Una soluzione è possibile e va cercata, perché Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dalla Ue
di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it, 30 maggio 2023
Si può dire? Questa volta hanno ragione i serbi. I quattro paesi nel nord del Kosovo che protestano contro l'insediamento di sindaci di etnia albanese sono serbi al 90%. Il voto di un mese fa è stato boicottato in massa, cosicché i sindaci hanno raccolto appena il 3%. Non v'è chi non veda che non hanno alcuna possibilità di governare.
Sì, le proteste sono state violente: lanci di sassi e molotov. Ma non più di quanto lo siano quelle che devastano periodicamente il centro di Parigi. La differenza è che i soldati non sono addestrati per fare i poliziotti, e quindi non possono mantenere l'ordine in situazioni infuocate. Devono sapere proteggersi con caschi e scudi, effettuare cariche di alleggerimento, affrontare gruppi di teppisti in continuo movimento.
È un mestiere diverso da quello dei militari. Possiamo solo ringraziare il senso di responsabilità dei comandanti italiani se non ci sono state vittime dall'una e dall'altra parte. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è creare un martire serbo.
I soldati Nato sono in Kosovo da un quarto di secolo. Ero con gli italiani nel 1999, quando fummo accolti come liberatori dagli albanesi vessati dal presidente fasciocomunista serbo Slobodan Milosevic. Che è stato processato come criminale di guerra e si è suicidato prima della condanna. Ma oggi all'Aja il Tribunale internazionale sta processando l'ex presidente del Kosovo liberato Hashim Thaci, accusato anch'egli di successive violenze contro la minoranza serba.
La soluzione del nodo kosovaro sarebbe semplice: dare a Belgrado la zona a maggioranza serba di Mitrovica, in cambio di compensazioni territoriali nei paesi di confine albanesi rimasti in Serbia. Inutile intestardirsi nel voler mantenere uno status quo che ha ampiamente dimostrato di non poter funzionare.
Vladimir Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dall'Unione Europea. I filorussi serbi soffiano sul fuoco, ora che sono passati dall'aggressione della minoranza albanese alla difesa della minoranza serba in Kosovo. Sta a noi evitare un nuovo Donbass casalingo. Perché a est di Trieste purtroppo le etnie contano ancora. Non illudiamoci di coprirle con militari Nato mandati allo sbaraglio in una missione che non è più la loro: non c'è peacekeeping né peaceenforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia.
Monday, November 28, 2022
Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano
Thursday, August 18, 2022
La tragica attualità della strage di Pola
Era il 18 agosto 1946, è stata la prima strage della Repubblica. Fu un atto di terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina
di Mauro Suttora
Huffpost, 18 agosto 2022
È stata la prima strage della Repubblica. Alle due di pomeriggio del 18 agosto 1946 a Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, 65 persone (per un terzo ragazzi sotto i 18 anni) morirono nello scoppio di una ventina di mine antinave. Come per Piazza Fontana, gli autori della strage sono rimasti sconosciuti.
Era una calda domenica d'estate, sulla spiaggia si divertivano centinaia di famiglie. Le mine giacevano inerti senza detonatore in un angolo dell'arenile, disinnescate dagli artificieri dopo la fine della guerra. Pola era sotto amministrazione britannica, ma molti temevano che sarebbe stata scambiata con Gorizia per finire sotto la Jugoslavia comunista di Tito. Il 90% dei suoi 31mila abitanti erano italiani.
Improvvisamente, il boato. Una nuvola di fumo fu vista a chilometri di distanza. Decine di corpi rimasero polverizzati. Centinaia i feriti. Chi aveva innescato il tritolo delle mine? Qualcuno parlò di incidente, magari causato dal fornelletto di una grigliata.
La verità si è saputa solo nel 2008, all'apertura degli archivi di Londra: "Gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persone sconosciute". Con tutta probabilità agenti dell'Ozna, la polizia segreta del dittatore Tito. Che così raggiunse il suo scopo: terrorizzati, 28mila polesani nell'anno seguente scapparono, arrivando esuli in Italia.
Ecco, il terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina. Sono tante le similitudini fra l'occupazione russa di Mariupol e Kherson, e quella jugoslava di Trieste e Istria 76 anni fa.
Ora come allora, i dittatori seminano paura in pochi per disfarsi di tanti. Tito infoibò 6mila civili italiani per farne fuggire 300mila. Specifichiamo: infoibare significa gettare persone spesso vive in un buco profondo cento metri. Personalmente, avrei preferito morire gasato in pochi minuti invece di agonizzare per giorni crepando di sete coi vermi nelle ferite.
A Pola, invece delle foibe, furono le mine a falciare ragazzi che nuotavano. A Bucha sono state le pistole di ragazzi russi, arruolati alla vigliacca, a finire alla tempia prigionieri ucraini. Il risultato è lo stesso: la pulizia etnica. Il 90% degli italiani lasciarono l'Istria perdendo tutto; decine di migliaia ucraini stanno lasciando Donbass e le altre zone occupate dai soldati di Putin.
Nel 1945-47 la pulizia fu quadrupla. Non solo etnica contro gli italiani, ma anche politica contro i non comunisti, economica contro i borghesi, religiosa contro i cattolici. In Ucraina conosceremo solo fra qualche anno il profilo sociologico dei profughi o deportati in Siberia, ma la comune fede ortodossa non impedisce al patriarca putiniano Cirillo di applaudire i massacri.
Altra analogia: Putin, come Tito, attua la politica del fatto compiuto. Il dittatore jugoslavo preferì lanciare i suoi partigiani alla conquista dell'italiana Trieste prima ancora di liberare la slovena Lubiana. Pretendeva tutta la Venezia Giulia fino all'Isonzo, inglobando Carso, Gorizia, Monfalcone.
Anche il despota russo conosce la forza del fait accompli, come dicono i diplomatici. Sa che quasi sempre la linea di armistizio si trasforma in confine definitivo, oppure dà diritto a compensazioni territoriali. Così il 24 febbraio si è scagliato avventatamente contro Kiev e Kharkiv, che niente hanno a che fare con il Donbass rivendicato appena il giorno prima. Lì ha dovuto ritirarsi, come Tito da Trieste. Ma Kherson e tutto il retroterra della Crimea sono ancora suoi: è il fiume Dniepr la nuova esagerata frontiera sperata da Putin, il suo Isonzo.
Oggi come nel 1947, sono americani e inglesi a difendere i popoli che si battono per la libertà e la democrazia. Allora ci riuscirono solo in parte, perché il nuovo confine fra Italia e Jugoslavia, quello attuale, fu tracciato sulla 'linea francese' per pressione di Stalin; mentre la loro linea Morgan avrebbe salvato la costa orientale dell'Istria (Parenzo, Rovigo, Pirano, Umago), veneziana e italiana da sempre.
In Ucraina, vedremo. Ma quella strage di Pola, vicino alle fantastiche isole Brioni, si affianca a nomi di altri massacri europei diventati tristemente famosi quest'anno, dopo quelli di Sarajevo e Srebrenica trent'anni fa: Bucha, Mariupol, Severodonetsk.
Friday, November 05, 2021
Da Zeno a Puzzer: quanto sei matta, cara Trieste
Piccolo campionario di strampalati triestini, dal 1874 a oggi. Magia della città di frontiera
di Mauro Suttora
HuffPost, 5 novembre 2021
Trieste si sta confermando serbatoio inesauribile di personaggi originali. Gli ultimi sono i portuali, che installati all’avanguardia del movimento nopass hanno regalato al Friuli-Venezia Giulia il record di contagi, ricoverati e rianimazioni covid.
Il loro capo Stefano Puzzer ha combinato casini, si era messo a trattare per conto dei novax senza autorizzazione, ha dovuto dimettersi, è andato a Roma, ma lo hanno cacciato anche da lì con un daspo.
Quanto al neofascista Fabio Tuiach, già consigliere comunale di Forza Nuova, il virus lo ha infettato. “Colpa degli idranti”, ha detto convinto. “Ho preso freddo durante lo sgombero, ho avuto 39 di febbre, ma era solo un’influenza. Il Covid esiste solo nella mente degli ipnotizzati”. L’anno scorso esprimeva un’altra teoria: “Il virus è una punizione divina per i froci”. Naturalmente tutti i talk show sono corsi a intervistarlo, ma lui non ha ‘spaccato’: solo qualche balbettio con un rosario in mano.
Fatto sta che Trieste ha attirato refrattari al vaccino da tutta la penisola. Un po’ come i legionari dannunziani nel 1919 per l’impresa di Fiume, o gli ultimi irredentisti nel 1954 quando il capoluogo giuliano tornò all’Italia dopo la guerra e il purgatorio del Territorio libero. Altra ribalta nazionale nel 1978: il Melone inaugurò l’era delle liste civiche, anticipando di un decennio il localismo della Lega.
Non è quindi la prima volta che questa stupenda città di frontiera ci regala ‘soggettoni’ da film. Il giornalista e scrittore Pietro Spirito ha appena pubblicato il libro ‘Gente di Trieste’ (ed. Laterza), in cui racconta una dozzina di incredibili vicende.
Quella di Carl Weyprecht, per esempio, che nel 1874 stava per diventare il primo esploratore a conquistare il polo Nord. Ma la sua nave si arenò nel ghiaccio, e dopo un blocco di due anni rimase incagliata sulla banchisa, inutilizzabile a otto metri di altezza. Weyprecht e i suoi marinai istriani dovettero abbandonarla e tornare mestamente indietro. Ma furono accolti con tutti gli onori perché avevano scoperto un grande arcipelago: la Terra di Francesco Giuseppe, che intitolarono appunto al loro imperatore austroungarico.
Altri eccentrici avventurieri partiti da Trieste furono nel 1948 Glauco Gaber e tre compagni su una scialuppa a vela e motore di sette metri che, dopo una traversata atlantica di un anno e mezzo, li fece approdare a Buenos Aires. Accolti dal presidente argentino Peron e da folle festanti, propagandarono l’italianità di Trieste, allora rivendicata dalla Jugoslavia.
Nel 1943 un prigioniero di guerra triestino, Felice Benuzzi, beffò le guardie inglesi che lo tenevano prigioniero in Africa dopo la caduta dell’Etiopia, e fuggì per scalare i 5mila metri del vicino monte Kenya. Poi ritornò imperturbabile nel campo d’internamento: un mese di cella di rigore, ma grande ammirazione in Gran Bretagna, dove nel dopoguerra il suo libro divenne un bestseller. Sono tanti i triestini strampalati raccontati da Spirito. Forse il più incredibile è stato Rodolfo Maucci, costretto dai nazisti a dirigere il quotidiano locale Il Piccolo nel 1944-45, durante l’occupazione tedesca. Lui non voleva, era solo un critico musicale e notista politico, ma i nuovi padroni lo individuarono come il più adatto a guidare il giornale in quel periodo drammatico.
Maucci era disperato, sapeva che le sorti della guerra erano segnate, e che dopo la sconfitta dei nazifascisti avrebbe pagato il suo collaborazionismo. Allora escogitò una furbizia per scamparla: ogni giorno, metodicamente, nascondeva o attutiva le cronache e i titoli più sfacciatamente propagandistici, per confezionare un giornale per quanto possibile equilibrato.
Naturalmente questa sua fronda non sfuggì ai fascisti e nazisti più fanatici, che cercarono varie volte di cacciarlo. Ma un illuminato capo tedesco dell’Ufficio propaganda lo protesse per un anno e mezzo, impedendo l’arresto di Maucci e il suo probabile internamento in qualche lager nazista.
Nel maggio 1945 arrivarono i partigiani jugoslavi e chiusero Il Piccolo. Incarcerarono il protettore tedesco, che morì prigioniero a Lubiana. Non fecero in tempo ad arrestare Maucci, ma lui non fece in tempo ad assaporare la libertà: due giorni dopo la liberazione di Trieste da parte dei soldati neozelandesi e inglesi morì d’infarto a 55 anni.
Dallo Zeno di Svevo ai matti liberati da Basaglia negli anni ’70, sono tante le persone borderline che hanno affollato questa città di confine. Non per nulla confine in inglese si traduce ‘border’. Anche i personaggi dei romanzi di Tomizza appaiono divisi in due, con le loro vite a cavallo della frontiera istriana. Insomma, il destino sghembo di Trieste è segnato nella sua storia e geografia. Perciò i triestini ora osservano i pittoreschi novax accampati in piazza Unità con curiosità atavicamente tollerante.
Mauro Suttora
Wednesday, June 23, 2021
Trent'anni dopo le guerre dell'ex Jugoslavia, Slovenia e Croazia litigano ancora
Tuesday, August 30, 2011
Province: che succede in concreto?
I servizi rimangono, gli uffici si spostano. Ecco cosa cambierà in concreto per gli abitanti delle province abolite.
di Mauro Suttora
Oggi, 19 agosto 2011
Spariranno gli uffici statali, si sopperirà con l'informatizzazione e gli sportelli distaccati. Spariscono prefetture, questure, comandi provinciali di Carabinieri, Guardia di finanza e Vigili del fuoco, direzioni provinciali del lavoro, uffici scolastici provinciali, agenzie delle entrate, motorizzazione, Inps, Inail, Inpdap, Camere di commercio, Aci e tutti gli altri uffici statali o parastatali.
Naturalmente i servizi rimangono: pompieri e Carabinieri, per esempio, continuano ad avere tutte le loro caserme e la Polizia i commissariati. Per le pratiche negli uffici amministrativi, però, bisognerà fare più strada per andare nel nuovo capoluogo. Si ovvierà con sportelli distaccati e con l' informatizzazione (documenti on line ).
Uffici provinciali: tutte le competenze saranno assorbite dalla Provincia cui si viene annessi. Cancellati presidenti, consiglieri e assessori, le competenze passeranno alla nuova Provincia, che assorbirà quella sparita. Ed è qui il problema. Per risparmiare veramente, infatti, bisognerebbe abolire tutte le Province, e trasferire i loro uffici a Comuni e Regioni. Non ha senso, per esempio, che gli edifici delle scuole secondarie (e la loro manutenzione) siano della Provincia, e quelli delle primarie del Comune. Egualmente per le strade provinciali: possono tranquillamente passare alle Regioni.
Occorreranno tempi lunghi: le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Il numero degli abitanti si calcolerà il 9 ottobre, con il censimento 2011. Alcune province vicine ai 300 mila abitanti, come Pistoia e Benevento, potrebbero salvarsi.
Poi, le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Le appena elette Trieste, Gorizia e Vercelli, per esempio, dureranno fino al 2016.
M.S.
Saturday, November 21, 2009
Il Piccolo (Trieste): Perché Diari segreti?
il Piccolo
pagina 23 sezione Cultura
Trieste, 21 novembre 2009
Per oltre sessant’anni nessuno ha potuto leggerli. Perchè sui diari di Claretta Petacci è stato imposto il segreto di Stato. E adesso? Finalmente il veto è caduto, ma solo per quanto riguarda il periodo che va dal 1932 al 1938. Le altre carte, che raccontano il periodo più difficile (quello delle leggi razziali, dell’entrata in guerra, dell’8 settembre, dell’arresto di Benito Mussolini, della Repubblica di Salò, fino alla morte, rimasta avvolta nel mistero) sono ancora inaccessibili. Su quei diari ha lavorato a lungo Mauro Suttora, giornalista del gruppo Rcs. Che pubblica adesso un’ampia selezione dei documenti nel libro Claretta Petacci ”Mussolini segreto” (Rizzoli, pagg. 533, euro 21).
A invogliare alla lettura, se ce ne fosse bisogno, è la prefazione scritta da Ferdinando Petacci, nipote dell’amante del Duce, che vive da tempo in Arizona. Da bambino, quando aveva tre anni e mezzo, si ritrovò a viaggiare nel piccolo corteo di macchine che il 27 aprile del 1945 portò il capo del fascismo e la sua amante dritti verso la morte. Da allora si è sempre chiesto: perché lo Stato italiano ha fatto scendere il silenzio sulle carte di sua zia? Claretta Petacci era solo un’amante o una spia degli inglesi? O, addirittura, insieme al fratello Marcello «collaborarono con Mussolini per arrivare a una pace separata con l’Inghilterra»? La merce di scambio sarebbe stato il carteggio tra il Duce e Winston Churchill, «molto compromettente per il premier britannico».
Insomma, dopo una prefazione del genere, inutile negare che viene voglia di lanciarsi alla disperata a leggere i diari di Claretta. Che, purtroppo, deluderanno il lettore fin dalle prime pagine. Che cosa emerge da questa carte? Una marea di promesse d’amore fatte da un uomo profondamente infedele, una sorta di ”serial lover”, alla sua giovanissima, gelosissima amante. E poi il ritratto di un uomo, Mussolini, che pensa soprattutto ad apparire forte, virile, che è terrorizzato dal fatto di invecchiare e parla spesso della morte. E che non evita gli scivolini nel ridicolo. Come quando lamenta i dolori dell’ulcera provocati dal polverone che si è alzato attorno all’omicidio di Matteotti. O come quando frigna che gli stivaloni, indossati per avere un aspetto più virile, lo fanno soffrire molto.
Nei diari di Claretta, i grandi eventi del ’900 passano in secondo piano rispetto alla girandola di amanti di Mussolini e alla gelosia ossessiva della Petacci. Il Duce le racconta di alcuni imbarazzanti incontri con la principessa Maria José, che si distendeva mezza nuda vicino a lui sulla spiaggia quasi a volersi offrire. Sparla spesso e volentieri di donna Rachele, la moglie: «Una contadina». Spara a zero sugli antifascisti, se la prende con Franco che tentenna in Spagna, manda insulti e maledizioni agli ebrei. Si mostra amico di Hitler, anche se lo teme profondamente. Ma, soprattutto, tempesta di telefonate la sua Claretta. A ogni ora del giorno, della notte. Per prometterle che non la tradirà più. Anche se sa benissimo che, quando gli arriverà la prima donna disponibile, la tradirà di nuovo. ( a.m.l.)
Tuesday, August 26, 2008
Olimpionici e Tibet
Libero
Pechino, 23 agosto 2008
Che cosa rispondono gli olimpionici delle squadre militari all’occhiolino strizzato dal ministro della Difesa? Ignazio la Russa aveva detto che potrebbe quasi premiare i «propri» atleti se esprimessero in qualche modo solidarietà al Tibet mentre si trovano in Cina.
Qui nella Casa Italia di Pechino però non troviamo neanche un azzurro disposto ad aderire all’invito del ministro. «Non è giusto chiedere a noi singoli atleti di prendersi la responsabilità di un gesto pubblico, che finirebbe per essere clamoroso. I politici potevano prendere le loro decisioni, anche di boicottare i Giochi. Ma non devono scaricare le loro indecisioni su di noi», risponde Antonio Rossi, il canoista 39enne veterano dei Giochi, cinque Olimpiadi alle spalle e portabandiera dello squadrone azzurro.
Ieri è arrivato quarto nella sua K4 1.000, e nonostante appartenga alle Fiamme Gialle della Finanza, e quindi sia formalmente un militare, il consiglio del suo ministro lo lascia freddo. «Anche perché il Cio, il Comitato olimpico internazionale, è stato chiaro su questo. L’articolo 51 proibisce ogni manifestazione politica da parte dei gareggianti, e loro lo hanno ribadito».
Indifferente quindi al Tibet? «Assolutamente no. Anzi, all’inizio delle Olimpiadi ho aderito all’iniziativa simbolica di tagliarsi una ciocca di capelli per il Tibet, e qualcuno mi ha criticato per questo. In quanto portabandiera non avrei dovuto farlo, mi ha detto un atleta. Ma io non rinuncio alle mie idee, e prima e dopo le gare parlo. Anzi, per quanto riguarda la Cina non esiste solo il Tibet. Io vengo da Lecco, e in quella zona parecchie aziende che producevano seta e telai hanno dovuto chiudere per la concorrenza cinese. Ma quanto pagano i lavoratori, qui? E con che metodi li fanno lavorare?»
Il suo compagno di equipaggio Luca Piemonte, 29 anni, di Staranzano (Gorizia), è delle Forestali. Corpo civile, ma anche lui dice: «Non trovo giusto mischiare la politica con lo sport. Le prestazioni sportive non vanno strumentalizzate. Io sono contrario a ogni forma di repressione, e di Paesi repressi al mondo ce ne sono tantissimi. Credo che si possa manifestare in un altro modo, e non durante una manifestazione politica come le Olimpiadi».
«I dirigenti ci hanno detto esplicitamente di non fare gesti politici», dice Michele Zerial, 21 anni, di Trieste, quarto nella K1 500, «ma io non avrei fatto niente lo stesso. Anche perché i cinesi con noi sono stati superdisponibili, aperti, meglio di qualsiasi aspettativa. Prima e dopo l’Olimpiade mi metto volentieri una maglietta per il Tibet, ma qui no. In Cina mi sono trovato bene».
Quanto al presidente del Coni Gianni Petrucci, conferma le cose dette all’apertura dei Giochi, quando arrivò un analogo auspicio di gesti pro-Tibet da parte del ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Perché i politici non chiedono alle aziende che fanno affari con la Cina di boicottarla?»
Mauro Suttora