Monday, June 24, 2024
Croazia, Modrić e mia nonna
Tuesday, December 27, 2022
La Croazia nell'euro riunisce l'Adriatico, come ai tempi della Repubblica veneziana
Dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti
di Mauro Suttora
HuffPost.it, 27 dicembre 2022
Risorge il Leone di San Marco: dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti.
La Croazia adotta la nostra moneta: entra nell'eurozona e nello spazio Schengen. Viene così ripristinata l'unità economica e politica fra Veneto, Friuli, Istria, isole del Carnaro e Dalmazia rotta nel 1797: in quell'anno Napoleone invase Venezia, la repubblica più antica, ricca, civile e tollerante del mondo, e poi la diede all'Austria con il trattato di Campoformio.
Da Ancona a Pola, da Pescara a Zara, da Bari a Spalato e giù fino a Ragusa/Dubrovnik (anch'essa repubblica indipendente per secoli fino al 1808), il mare Adriatico tornerà ad essere "golfo di Venezia", com'era denominato su tutti gli atlanti fino al '700.
Quindi la Croazia, dopo la Slovenia nel 2004, fa ingresso a pieno titolo nell'Europa unita, abbandonando la propria moneta (kuna) per l'euro. Porta in dote il suo porto principale, Fiume/Rijeka, che come Trieste non era mai stato veneziano: fino al 1918 fu lo sbocco al mare dell'Ungheria, così come il capoluogo giuliano era il porto dell'asburgica Vienna.
Per la verità un'unità adriatica si era già ripristinata nel 1815-66, quando da Venezia alle bocche di Cattaro/Kotor, oggi porto montenegrino, comandava l'impero austriaco. Ma fu appunto una dominazione straniera, contestata sia dagli irredentisti italiani (Niccolò Tommaseo veniva da Sebenico, e dalmata era pure Antonio Baiamonti, sindaco di Spalato fino al 1880), sia dai nazionalisti croati.
Non è un caso che gli unici due stati italiani non risorti con la Restaurazione del 1815 siano stati Venezia e Genova: erano repubbliche, quindi invise ai regni nuovamente padroni d'Europa dopo la ventata democratica napoleonica.
Il ritorno di Veneto e Friuli all'Italia nel 1866, dopo la terza guerra d'indipendenza, incattivì l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Da allora in Istria e Dalmazia gli austriaci si vendicarono favorendo i croati rispetto agli italiani. Così esasperarono gli opposti nazionalismi fra due popolazioni che sotto Venezia avevano convissuto pacificamente per secoli, con proficua divisione del lavoro: marinai e pescatori gli italiani, contadini i croati. Un esempio di tolleranza per gli attuali irriducibili sciovinismi dell'est europeo, dalla Bosnia alla Russia, dal Kosovo all'Ucraina, dalla Serbia alla Crimea.
Nella nostra parte del continente l'Unione europea ha fatto dimenticare il sangue degli ultimi cent'anni. Oggi a Gorizia, città martire della prima guerra mondiale, la nostra frontiera con la Slovenia è impercettibile quanto quelle con Francia o Austria. E Trieste ha sorpassato l'incubo dei carri armati comunisti incombenti sul Carso fino al 1989.
Festeggia Renzo Codarin, presidente dell'Anvgd (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia): "Si ricompone l'unità dell'italianità adriatica. Accogliamo con favore la completa integrazione della Croazia nell'Unione europea, che abolisce il confine sloveno-croato e restituisce continuità territoriale a Istria, Carnaro e Dalmazia".
Ma non c'è alcun accento revanscista da parte dei 350mila esuli italiani del 1947: "Abbiamo vissuto con dolore e sofferenza l'imposizione di confini che seguivano la logica della guerra fredda, senza considerazione per le istanze dell’italianità autoctona e del principio di autodeterminazione dei popoli. Ora gli esuli, i loro discendenti e le comunità italiane di Slovenia e Croazia potranno finalmente ritrovarsi nella lingua, cultura e tradizioni comuni, all'interno di una struttura statuale libera e democratica, con la salvaguardia delle culture locali".
Sunday, December 20, 2020
Cent'anni fa il Natale di sangue a Fiume
Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari per fondare il loro effimero e incredibile stato libero
Mauro Suttora
HuffPost, 20 dicembre 2020
Cent’anni dal Natale di sangue a Fiume, 1920. Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari (ora aeroporto di Udine-Trieste) per fondare il loro effimero e incredibile stato libero.
La peggior strage compiuta dalle nostre forze armate in tempo di pace verso concittadini, dopo quella del generale Bava Beccaris nel 1898 a Milano.
Fiume, oggi Rijeka, terza città della Croazia, era un paradiso cosmopolita. Odiata quindi dai sovranisti di allora, italiani e croati, che la volevano tutta per loro. Porto dell’Ungheria nell’impero asburgico, aveva 50mila abitanti, per metà italiani.
Situata nell’ascella dell’Istria, contrariamente a Trieste prima del 1915 non fu scossa dal nostro irredentismo, né dal nazionalismo speculare slavo.
Le minoranze croate, ungheresi, tedesche ed ebraiche vivevano felicemente, arricchendosi in tranquillità accanto agli italiani nella belle époque del Carnaro.
I piroscafi usciti dai cantieri Cosulich nella prospiciente isola di Lussino (oggi trasferiti a Monfalcone) solcavano gli oceani portando tutte le merci del mondo alla Mitteleuropa attraverso il porto fiumano.
Il sogno finisce con la prima guerra mondiale. Niente Dalmazia all’Italia, come promessoci dagli anglofrancesi nel patto di Londra. Così la frustrazione per la “vittoria mutilata” viene canalizzata da Gabriele D’Annunzio. Non vogliono darci Fiume? E noi ce la prendiamo, eia eia alalà.
Prova generale del fascismo: reduci, arditi, camicie nere, pugnali, gagliardetti, teschi. La funerea paccottiglia militarista permea l’impresa fiumana.
Ma attenzione, avverte Pier Luigi Vercesi nel suo bel libro Fiume, l’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017): “Quell’anno diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico, e anche letterario e teatrale. D’Annunzio governa con un’invenzione al giorno. Fiume si trasforma in ‘città di vita’, dove tutto è concesso: le donne votano, l’omosessualità è tollerata, si può divorziare e ne approfitta Guglielmo Marconi, l’esercito viene abolito in tempo di pace, l’istruzione è gratuita, una nuova Costituzione sovverte le regole borghesi e monarchiche. Perfino Lenin è affascinato dal governo dannunziano”.
Insomma, il Vate conquista Fiume, ma la civiltà fiumana e l’amore libero conquistano i suoi legionari.
Non può continuare. Con il trattato di Rapallo del novembre 1920 fra Italia e la neonata Jugoslavia, Roma rinuncia alla Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta) in cambio dello status di città libera per Fiume.
D’Annunzio rifiuta l’accordo, e Giolitti fa bombardare la città, ponendo fine all’avventura. Alle 4 di pomeriggio del 26 dicembre 1920 la nave Andrea Doria colpisce il Palazzo del governatore. Il poeta è ferito alla testa dai calcinacci nel suo studio. Due giorni dopo si dimette.
Tuttavia, commenta Vercesi, “D’Annunzio muta il corso della storia d’Italia e probabilmente d’Europa, orchestrando la più reale rappresentazione dello spirito del tempo”.
Mauro Suttora
Wednesday, February 17, 2010
C'è chi nega l'eccidio in foiba
Fuggirono in 350 mila dall'Istria dopo la guerra. Ora un libro riaccende le polemiche
di Mauro Suttora
Oggi, 10 febbraio 2010
Se Joze Pirjevec, storico dell’università di Capodistria (Slovenia), avesse pubblicato il suo libro in Austria, avrebbe rischiato il carcere. Com’è capitato a David Irving, il professore inglese condannato a tre anni nel 2006 per avere negato l’Olocausto degli ebrei.
Il 10 febbraio di ogni anno, da un lustro, l’Italia celebra per legge il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dei 350 mila esuli giuliano-dalmati. Quanti furono i connazionali «infoibati», cioé gettati vivi e legati da fil di ferro nelle grotte carsiche vicino a Trieste dai partigiani comunisti jugoslavi? Neanche il numero si sa: da cinque a diecimila. Perché è stato impossibile recuperare e contare tutte le salme.
Quest’anno le polemiche sono rinfocolate dal libro Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi). Nel quale Pirjevec nega che l’eccidio delle foibe possa essere definito «genocidio». A suo avviso non ci fu un massacro premeditato, ma solo sporadici episodi, peraltro giustificati dall’odio anti-italiano attizzato dai fascisti negli anni precedenti. Il perfetto «negazionista», insomma.
«Non auspico censure»
Chissà cosa succederebbe se qualcuno osasse scrivere un simile libro contro gli ebrei. «Non auspico certo censure, né tanto meno il carcere per reati d’opinione», commenta con Oggi Brunello Vandano, 90 anni, uno fra gli ultimi testimoni diretti di quell’epoca. «Però io a Fiume negli anni ‘30 ci sono cresciuto e, contrariamente a quel che sostiene il libro, non ho assistito da parte italiana a crudeltà tali contro sloveni e croati da giustificare le vendette del dopoguerra. Anzi, quella città, a parte pochi fanatici fascisti, era un modello di convivenza interetnica. Oltre a italiani e slavi c’erano ebrei, ungheresi, tedeschi e nessun odio razziale. Fu un modello di cosmopolitismo».
Su quell’epoca felice Vandano ha appena pubblicato un bel romanzo, Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani).
«Nel ‘45 i massacri avvennero in ogni direzione», dice Vandano, «non solo contro gli italiani. Nel libro descrivo l’eccidio di Bleiburg, in cui i titini uccisero decine di migliaia di profughi slavi in fuga, molti dei quali civili. Le donne stuprate in massa prima di essere finite. I comunisti ammazzarono anche partigiani cetnici serbi e domobranci sloveni, colpevoli solo di non stare con Tito».
Un inferno, insomma, dal quale scapparono tutti gli italiani. Intere città (Fiume, Pola, Zara) si svuotarono quasi completamente. Una perfetta pulizia etnica, come poi negli anni ‘90.
«Giusto castigo popolare»
L’esule Ennio Milanese ha raccolto nel libro Il ricordo più lungo (Accadueo) un articolo contro i profughi scampati alle foibe scritto su L’Unità del 30 novembre ‘46 da Piero Montagnani, poi senatore Pci: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città. [Alcuni di loro] sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava. Gli altri sono incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste».
Monday, December 28, 2009
Fiume negli anni Trenta
di Mauro Suttora
Oggi, 10 dicembre 2009
«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»
Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.
«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».
Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.
Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.
Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».
Mauro Suttora
Tuesday, August 26, 2008
Alex Schwazer
Libero, 23 agosto 2008
di Mauro Suttora
Chissà perché vengono tutti da posti lontanissimi, i nostri campioni di marcia. Abdon Pamich, ultima medaglia d’oro nei 50 chilometri all’Olimpiade di Tokio 1964, è profugo di Fiume, oggi Croazia. E Alex Schwazer arriva da Vipiteno/Sterzing. A nord di Bolzano, a nord di Bressanone, a soli dieci chilometri dal confine austriaco. Se percorre la sua distanza di gara verso nord, è già a Innsbruck.
Lo osservo mentre parla con i giornalisti nella “mixed zone”, il corridoio che inghiotte gli atleti dopo la gara portandoli agli spogliatoi. Si presenta contemporaneamente a Casimiro, un marciatore slovacco distrutto, piedi nudi e doloranti. Controllo sul tabellone: il povero Casimiro è arrivato ultimo, 47esimo, ed è anche stato bravo a non ritirarsi come hanno fatto in dieci sotto il sole caldissimo di Pechino.
Casimiro e Alex, ultimo e primo. Alex appare miracolosamente già fresco e riposato, dopo aver parlato per mezz’ora alle tv a bordo pista. Perfino i cinesi vogliono intervistarlo.
Alex è bellissimo, perfetto per diventare personaggio e fare innamorare milioni di ragazze. Il suo idolo Robert Korzeniowski, polacco tre volte oro (Atlanta, Sidney, Atene) lo stuzzica in conferenza stampa: “A chi è dedicato il braccialetto che indossi?” Lo sanno tutti: a Carolina Kostner, l’altra regina dello sport altoatesino, due anni più giovane di lui. Ma Alex diventa rosso, continua a sorridere e dice che nella vita non c’è solo lo sport, che bisogna anche essere felici, soprattutto a 23 anni.
Insomma il contrario del disperante “fenomeno” del nuoto Phelps, che ho incrociato l’altra sera alla festa dello sponsor Omega, e che appare quel che lui stesso ammette di essere: “Noioso, nella vita so solo mangiare, dormire e guardare la tv”.
Alex invece ha la luce dell’intelligenza negli occhi scintillanti, ed è giocherellone come Usain Bolt: un altro convinto che nella vita lo sport non sia tutto, fino a prendersi i rimbrotti di quel grigio burocrate che è il presidente del Cio Jacques Rogge, non a caso conte e belga.
Che bello constatare che Bolt, l’uomo più veloce del mondo, e Alex, quello più resistente, sono ragazzi allegri e non automi fabbricati in palestra e farmacia. E questo proprio nell’Olimpiade dei cinesi, che i propri campioni sembrano crearli in caserma.
Alex infila perfino una quasi gaffe, quando spavaldo ma non sbruffone riesce a dire, per sminuirsi: “Se si è superiori è facile vincere”. Il che, detto nel suo accento tedesco, potrebbe risultare inquietante se non fosse Alex.
Per lui scendono negli scantinati dello stadio i massimi dirigenti dello sport italiano: Gianni Petrucci, presidente del Coni, e Franco Arese campione dei 1.500 e capo della Federazione atletica leggera. L’allenatore Sandro Damilano, fratello del Maurizio marciatore d’oro nella 20 km. a Mosca 1980, rimane seduto su una seggiolina portatile, incredulo e felice. Per fortuna che è arrivato l’oro di Alex, dopo il bronzo della Rigaudo sempre nella marcia, a far felici tutti. Altrimenti il bilancio dell’Italia nella principale disciplina dell’Olimpiade sarebbe stato misero.
Ma adesso abbiamo Alex, e tutti i problemi del nostro sport sono risolti. Ora vado alla festa di Casa Italia. Per festeggiare Alex, stasera pizza-party invece delle abituali scaglie dello sponsor Parmigiano reggiano.
Mauro Suttora
Friday, June 11, 1993
Saturday, September 26, 1987
Profughi istriani e dalmati
Ferite socchiuse: 40 anni dopo, gli esuli italiani si interrogano sul proprio passato
PALESTINESI DI CASA NOSTRA
Dalmati e istriani si incontrano a Trieste per commemorare gli avvenimenti del 1947. Gli jugoslavi li chiamano fuggiaschi, il Msi li corteggia. Ma loro cosa rivendicano? Le terre perdute? No, dicono, soltanto il diritto alla nostalgia
Europeo, 26 settembre 1987
di Mauro Suttora
In via Montenapoleone a Milano, fra i re della moda mondiale, la Dalmazia è regina. Sono dalmati, infatti, i due stilisti che si fronteggiano all'inizio della via, con le loro ricche vetrine nelle postazioni più prestigiose, quelle vicine a piazza San Babila: Ottavio Missoni e Mila Schoen. Dalmati , e quindi profughi. Così come gli altri 350 mila istriani, fiumani e lussignani che nel 1947, quarant'anni fa, dovettero abbandonare le proprie terre ai partigiani jugoslavi.
Fu un esodo drammatico. Per molti comincio' gia' nel 1943: gli abitanti di Zara scapparono in 14 mila per non morire sotto i bombardamenti a tappeto degli aerei inglesi. " Io ero prigioniero in Africa", ricorda Missoni, oggi sindaco onorario del 'Libero comune di Zara in esilio', "ma la mia famiglia fuggi' a Trieste con il 90 per cento della popolazione, che era tutta italiana. Quando tornai in Italia trovai mio padre che a 65 anni, per mantenerci, si era dovuto rimettere a navigare. Erano tutti scappati senza una lira".
Per altri la fuga fu meno precipitosa: gli italiani della "zona B" del mai nato Territorio libero di Trieste se ne andarono nel 1954-55, quando la zona passo' sotto amministrazione jugoslava in cambio del ritorno di Trieste all'Italia. Ma il grosso dei profughi "esodò" nel 1947, quando il trattato di pace impose all'Italia sconfitta di cedere quasi tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Fu la ratifica di una realta': gia' da due anni nei paesi italiani della costa istriana si erano installate vincitrici le truppe comuniste del maresciallo Josip Broz detto Tito. Che avevano prevalso, con l' aiuto russo-inglese, non solo su tedeschi e italiani, ma anche, dopo una feroce guerra civile interslava, sui fascisti croati (gli "ustascia") e sui partigiani monarchici "cetnici" (paragonabili ai nostri badogliani).
Il 19 e 20 settembre a Trieste si riuniscono gli esuli istriani e dalmati per commemorare gli avvenimenti di quel 1947. Arriveranno 5 mila persone dall'Italia e dall'estero (soprattutto Canada Australia e Usa, dove si sono rifugiati circa 50 mila profughi). E poi ci saranno i 50 mila triestini di origine istriana e dalmata.
Ma non sara' un anniversario facile. Il quotidiano semiufficiale Delo (Lavoro) di Lubiana ha gia' dedicato al raduno un articolo in cui si esprime "sorpresa e meraviglia per l'appoggio delle autorita' italiane a questi 350 mila fuggiaschi" (agli esuli, nonostante l'insulto del termine "fuggiasco", l'articolo non e' interamente dispiaciuto: per la prima volta infatti gli jugoslavi riconoscono il numero di 350mila profughi. Nel tentativo di minimizzare l'esodo, in passato Belgrado non era mai andata oltre la cifra di 200-250 mila).
L'ambasciata jugoslava a Roma ha protestato con il nostro governo, che dovrebbe essere rappresentato al raduno dal ministro della Funzione pubblica Giorgio Santuz (Dc), unico titolare di dicastero seppure senza portafoglio proveniente dal Friuli Venezia Giulia.
Perche' queste proteste? "Non lo so, noi non avanziamo alcuna rivendicazione nei confronti della Jugoslavia", assicura Silvio Cattalini, organizzatore del raduno ed esule da Zara. "Certo, nei decenni scorsi c'e' chi ci ha fatto passare tutti per nazionalisti o fascisti. Ma noi vogliamo fare solo un discorso culturale : mantenere viva la memoria sulla nostra tragedia , farla studiare sui libri di scuola. Fra qualche anno, dei protagonisti diretti di quella vicenda non rimarra' piu' nessuno. Ecco, noi vogliamo che la nostra sofferenza non sia cancellata".
A complicare le cose, pero', e' arrivato il Movimento sociale italiano. Il quale ha organizzato per sabato 19, alle sette di sera, un comizio di Giorgio Almirante in piazza Unita'. Gli esuli hanno un concerto nel vicino teatro Verdi alle 18 e usciranno negli stessi momenti in cui il segretario del Msi iniziera' il suo discorso.
"Almirante e' fiero di aver potuto parlare in pubblico per la prima volta proprio a Trieste, nel 1949", spiegano al Msi, "e vuole concludere la sua carriera da segretario con un comizio nella stessa città". Apriti cielo : il consigliere comunale della minoranza slovena a Trieste Alessio Lokar ha protestato per l'adesione del Comune, con il sindaco Giulio Staffieri in testa, al raduno "sciovinista e revanscista" dei profughi.
Il messaggio di Staffieri agli esuli, in effetti, si differenzia da quelli piu' anodini fatti pervenire dal presidente della Regione e da quello della Provincia. Mentre per esempio quest'ultimo definisce l'esodo come "una scelta imposta dalla storia" (frase che fa imbestialire i profughi, ma che si giustifica per la presenza in provincia di Trieste di molti sloveni ai quali dispiacerebbero indicazioni piu' precise), il sindaco si lancia in affermazioni drastiche: "All'emigrazione degli esuli va coraggiosamente dato il nome di esilio, ma noi siamo rimasti qui a mantenere le posizioni di una civilta' che non e' destinata a morire". E poi: "Accanto al rilancio dell'economia , a quello emporiale e scientifico, e' da coltivare o addirittura da anteporre il rilancio dei grandi valori ideali, di cui uno dei piu' alti e sacri e' l'amor di patria".
Patria: una parola che fa venire ancora i brividi di commozione ai profughi (anche perche' la patria e' piu' bella se perduta), ma che suscita sentimenti opposti fra i 30 mila sloveni di Trieste, che non si considerano certo un "avamposto della civiltà" (italiana, latina, occidentale, cristiana) in territorio nemico.
Cosi', a quarant' anni dalla fine della guerra, molti sono ancora gli argomenti che scottano. E anche i gesti: "Finalmente", annuncia per esempio Silvio Del Bello, 53 anni, di Umago, presidente dell'Unione degli istriani, "domenica, per la prima volta , un ministro del governo italiano rendera' omaggio alle vittime delle foibe di Basovizza e Monrupino".
Le foibe sono grotte carsiche, cavita' profonde dentro le quali i partigiani di Tito gettarono circa seimila italiani, spesso ancora vivi: tutti accusati di essere fascisti o collaborazionisti, mentre in realta' in non pochi casi si tratto' di vendette personali. Nella foiba di Basovizza, per esempio, che e' la piu' grande fossa comune d' Italia, sono finiti anche comunisti e soldati neozelandesi.
Pochi i corpi riconoscibili : quando gli alleati scoprirono la foiba, i cadaveri legati l'uno all'altro da fil di ferro erano gia' decomposti. Si conosce solo lo spazio che occupano: 300 metri cubi di ossa.
Ma si sa, fra i crimini di guerra quelli dei vincitori sono sempre i meno gravi. E quindi le vittime delle foibe non hanno ricevuto gli stessi onori degli altri caduti. Anzi, illustri professori di storia, come Giovanni Miccoli ancora nel 1976, si sono esercitati nel bollare come "aberrante" l'accostamento fra due pagine egualmente nere della guerra a Trieste, seppure di segno opposto: le foibe slavo-comuniste e il campo di sterminio nazista della risiera di San Sabba (dove, per ironia della sorte, nel dopoguerra vennero parcheggiati molti profughi istriani in attesa di sistemazione).
Ma chi sono veramente i profughi istriani e dalmati? Cos'hanno fatto in quarant'anni questi nostri 350 mila "palestinesi"?
"A differenza dei palestinesi noi siamo esuli in patria", risponde Del Bello, "e pensiamo di esserci comportati bene: ci siamo sparsi un po' in tutta Italia, abbiamo lavorato duro, ci siamo rifatti una casa".
Alcuni hanno fatto fortuna, come l'industriale farmaceutico Fulvio Bracco, quello del Cebion. Altri sono arrivati al successo: l'attrice Laura Antonelli, nata a Pola nel 1941, il cantante Sergio Endrigo, anche lui polesano, la presentatrice tv Paola Perissi (Processo del lunedi).
Uno che non ha dimenticato e' il celebre violinista Uto Ughi, 43 anni, che sta eguagliando le gesta del suo compaesano piranese Giuseppe Tartini: fa parte del consiglio nazionale dell'Unione degli istriani. Dall' ex zona B vengono lo scrittore Fulvio Tomizza e il pugile Nino Benvenuti, da Lussinpiccolo il comandante Tino Straulino, olimpionico di vela.
Mila Schoen (vero nome Maria Nutrizio, sorella del celebre giornalista Nino, ex direttore della Notte) e' fuggita dalla sua Trau', in Dalmazia, addirittura nel 1923, quando aveva un anno e mezzo. Il padre, farmacista, passo' il confine di notte, perdendo tutto. "Mio padre era un patriota", ricorda lei adesso, "e quando la Dalmazia fini' alla Jugoslavia fu considerato un traditore dagli slavi".
Non pochi sono i dalmati profughi due volte: nel primo dopoguerra quando si rifugiarono a Fiume, Zara o Pola, e poi nel 1947, quando dovettero andarsene di nuovo. Mila Schoen e' sfuggita a questo amaro destino: lei nel 1940 era gia' a Milano. "Sono ritornata per la prima volta a Trau ' sei anni fa, mi ci hanno portata in barca degli amici brasiliani. Sono posti bellissimi, straordinari. Quando sono sbarcata, ho domandato in piazza al primo passante se si ricordava dov'era la farmacia del dottor Nutrizio. 'La farmacia del buon Gigi ? Era quella la'!', mi ha subito risposto".
L' Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha sede a Roma: ha assistito 172 mila profughi e pubblica un quindicinale, Difesa Adriatica. Presidente e' Paolo Barbi, europarlamentare democristiano fino al 1984; segretario un prete, padre Flaminio Rocchi. Per le ultime elezioni Difesa Adriatica ha indicato alcuni candidati da votare, tutti Dc (l'olimpionico Abdon Pamich, Uto Ughi e lo zaratino Lucio Toth, eletto senatore) e del Msi. Perche'? "Abbiamo segnalato tutti quelli che ce lo hanno chiesto", risponde padre Rocchi. "L'unico requisito e' essere nati nelle nostre terre. Abbiamo pero' una preclusione verso il Pci, che nel 1947 voleva dare Trieste e Gorizia alla Jugoslavia".
Annunci piu' inquietanti sono pubblicati sul mensile Voce di Fiume: raduni di reduci della Decima Mas repubblichina incontri al Vittoriale. "I nostalgici ci sono dappertutto", commenta Silvio Cattalini, "ma sono solo una piccola minoranza".
E Missoni, che ne pensa? "Fiol, cos te vol che te diga, mi de politica no me interesso. Io vado in Jugoslavia da 25 anni ogni estate con la mia barca perche' il vino, il mare, i canti e i tramonti sono sempre quelli. Ma nessuno ha mai pensato di tornare. Io non ho mai avuto odio, ne' allora ne' oggi, verso gli slavi. In fondo, noi dalmati siamo sempre stati sotto qualcuno".
Padrone per padrone, l'unica nostalgia che riesce ad accomunare tutti gli esuli istriani e dalmati e' forse quella per l'impero austriaco di Francesco Giuseppe, che riusci' a far convivere pacificamente marinai e pescatori italiani della costa con i contadini slavi dell'interno. Poi sono arrivati i fascisti. Poi i comunisti. E gli ammiratori degli Asburgo sono aumentati: "Quando governavano loro, profughi non ce n'erano".
Mauro Suttora