IL GIORNO DELLA MEMORIA PER I PROFUGHI
Fuggirono in 350 mila dall'Istria dopo la guerra. Ora un libro riaccende le polemiche
di Mauro Suttora
Oggi, 10 febbraio 2010
Se Joze Pirjevec, storico dell’università di Capodistria (Slovenia), avesse pubblicato il suo libro in Austria, avrebbe rischiato il carcere. Com’è capitato a David Irving, il professore inglese condannato a tre anni nel 2006 per avere negato l’Olocausto degli ebrei.
Il 10 febbraio di ogni anno, da un lustro, l’Italia celebra per legge il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dei 350 mila esuli giuliano-dalmati. Quanti furono i connazionali «infoibati», cioé gettati vivi e legati da fil di ferro nelle grotte carsiche vicino a Trieste dai partigiani comunisti jugoslavi? Neanche il numero si sa: da cinque a diecimila. Perché è stato impossibile recuperare e contare tutte le salme.
Quest’anno le polemiche sono rinfocolate dal libro Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi). Nel quale Pirjevec nega che l’eccidio delle foibe possa essere definito «genocidio». A suo avviso non ci fu un massacro premeditato, ma solo sporadici episodi, peraltro giustificati dall’odio anti-italiano attizzato dai fascisti negli anni precedenti. Il perfetto «negazionista», insomma.
«Non auspico censure»
Chissà cosa succederebbe se qualcuno osasse scrivere un simile libro contro gli ebrei. «Non auspico certo censure, né tanto meno il carcere per reati d’opinione», commenta con Oggi Brunello Vandano, 90 anni, uno fra gli ultimi testimoni diretti di quell’epoca. «Però io a Fiume negli anni ‘30 ci sono cresciuto e, contrariamente a quel che sostiene il libro, non ho assistito da parte italiana a crudeltà tali contro sloveni e croati da giustificare le vendette del dopoguerra. Anzi, quella città, a parte pochi fanatici fascisti, era un modello di convivenza interetnica. Oltre a italiani e slavi c’erano ebrei, ungheresi, tedeschi e nessun odio razziale. Fu un modello di cosmopolitismo».
Su quell’epoca felice Vandano ha appena pubblicato un bel romanzo, Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani).
«Nel ‘45 i massacri avvennero in ogni direzione», dice Vandano, «non solo contro gli italiani. Nel libro descrivo l’eccidio di Bleiburg, in cui i titini uccisero decine di migliaia di profughi slavi in fuga, molti dei quali civili. Le donne stuprate in massa prima di essere finite. I comunisti ammazzarono anche partigiani cetnici serbi e domobranci sloveni, colpevoli solo di non stare con Tito».
Un inferno, insomma, dal quale scapparono tutti gli italiani. Intere città (Fiume, Pola, Zara) si svuotarono quasi completamente. Una perfetta pulizia etnica, come poi negli anni ‘90.
«Giusto castigo popolare»
L’esule Ennio Milanese ha raccolto nel libro Il ricordo più lungo (Accadueo) un articolo contro i profughi scampati alle foibe scritto su L’Unità del 30 novembre ‘46 da Piero Montagnani, poi senatore Pci: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città. [Alcuni di loro] sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava. Gli altri sono incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste».
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Wednesday, February 17, 2010
Tuesday, December 01, 2009
L'Unità: Tranfaglia su 'Mussolini segreto'
Mussolini era razzista dal 1921
di Nicola Tranfaglia
L'Unità, 1 dicembre 2009
L’Italia, dopo la sua tardiva unificazione nazionale, ha avuto (possiamo dirlo con sicurezza, almeno fino a questo momento) un solo dittatore ed è stato il romagnolo Benito Mussolini. Certo uomini politici dell’età liberale, come Crispi e Giolitti, hanno dominato per alcuni anni l’orizzonte politico nazionale ma non si può parlare di dittatori, nell’uno come nell’altro caso. L’unico che ha fissato la sua egemonia personale in maniera stabile, per più di vent’anni, abrogando di fatto lo Statuto Albertino e chiudendo parlamento, sindacati e giornali di opposizione, è stato Mussolini. Di qui il grande mito nato nell’immaginario collettivo degli italiani, le numerose biografie che sono state scritte, nonché l’esaltazione smisurata che anche uomini che venivano dalla sinistra hanno coltivato del caposupremo del regime e del partito unico, fondato per sostenerlo.
Ora, a distanza di70 anni dalla catastrofe del regime fascista nell’aprile 1945, vengono pubblicati presso Rizzoli i Diari 1932-38 (a cura di Mauro Suttora, Mussolini segreto, pp. 522.euro 21) di Claretta Petacci che di Mussolini fu la giovanissima (20 anni nel 1932) e poco segreta amante per tutti gli anni trenta e quaranta fino alla morte per fucilazione con il suo uomo presso Dongo. Sono diari conservati prima nel giardino della villa della contessa Rina Cervis, poi nel 1950 confiscati dai carabinieri e conservati nell’Archivio Centrale dello Stato, con il vincolo del segreto di Stato. Soltanto quest’anno sono stati resi accessibili ai ricercatori fino al fatidico anno 1938.
Ma quale è l’aspetto più interessante dei Diari emersi dopo tanto tempo dai nostri archivi? Ce ne sono almeno due che guidano il lettore interessato al passato del nostro paese, ai suoi costumi, alla sua cultura, a personaggi (parlo di Mussolini anzitutto) che hanno contato per molto tempo nella mentalità media degli italiani. Il primo aspetto evidente è la disparità tra l’uomo e la donna che emerge con grande evidenza nelle pagine di Claretta Petacci. I due amanti sono molto gelosi l’uno dell’altra ma c’è una differenza fondamentale: Mussolini fa di continuo “scappatelle” con altre donne (la ex favorita del Duce Romilda Ruspi Mingardi che alloggia addirittura a villa Torlonia dove il suo amante vive con la moglie Rachele e i figli ma anche altre amanti del passato che ogni tanto tornano da lui e lo sollecitano a riprendere il rapporto); Claretta, invece, non ha altre avventure ma viene di continuo sospettata da Benito e minacciata di essere lasciata per sempre.
Emerge con chiarezza il diverso significato dei tradimenti di lui e di quelli, peraltro inesistenti, di lei: Claretta lo rimprovera e si arrabbia per le “scappatelle” ma non pensa mai di lasciarlo. E lo stesso Mussolini si scusa, chiede perdono ma in più occasioni dice che non ha potuto far diversamente. Come se alle donne fosse possibile e richiesto di non lasciarsi andare ad altri amori e lo stesso non dovesse valere per gli uomini. Miviene inmente di fronte a queste pagine dei Diari una delle prime sentenze della Corte Costituzionale, appena dopo il suo tardivo insediamento a metà degli anni cinquanta, quando i giudici, dovendo stabilire, su richiesta di un tribunale, se la norma del codice penale che fissava un diverso trattamento per l’adulterio se compiuto dall’uomo rispetto a quello compiuto dalla donna, si arrampicavano sugli specchi per differenziare i due adulteri invocando l’allarme sociale. L’intento era quello di salvare la norma del codice Rocco e non dichiararla incostituzionale, malgrado il contrasto evidente con l’articolo 3 della Carta sull’eguaglianza dei cittadini di fronte ad ogni differenza. Dovettero passare alcuni anni prima che la Corte riconoscesse quella incostituzionalità.
L’altro elemento che emerge con chiarezza dai Diari riguarda le posizioni politiche e culturali che assume Mussolini nel dialogo quasi quotidiano con la giovane amante.
L’aspetto più interessante riguarda l’atteggiamento del dittatore rispetto al razzismo che appare, moderato, nei primi anni nel regime e frutto piuttosto del fanatismo di alcuni personaggi come Preziosi e Interlandi ma diventa nella seconda metà degli anni trenta la dottrina ufficiale sancita da leggi apposite e persino più precoci di quelle naziste nell’autunno 1938. «Ero razzista dal 1921. Non so come possano pensare che imito Hitler, non era ancora nato. Mi fanno ridere. La razza deve essere difesa». (4 agosto 1938).
Simili affermazioni contrastano, evidentemente, con quella visione storica di cui Renzo De Felice è stato iniziatore e caposcuola, che dipinge il razzismo fascistacomesubalterno e di qualità diversa, culturale piuttosto che biologica, rispetto a quello nazionalsocialista costitutivo dell’ideologia tedesca.
di Nicola Tranfaglia
L'Unità, 1 dicembre 2009
L’Italia, dopo la sua tardiva unificazione nazionale, ha avuto (possiamo dirlo con sicurezza, almeno fino a questo momento) un solo dittatore ed è stato il romagnolo Benito Mussolini. Certo uomini politici dell’età liberale, come Crispi e Giolitti, hanno dominato per alcuni anni l’orizzonte politico nazionale ma non si può parlare di dittatori, nell’uno come nell’altro caso. L’unico che ha fissato la sua egemonia personale in maniera stabile, per più di vent’anni, abrogando di fatto lo Statuto Albertino e chiudendo parlamento, sindacati e giornali di opposizione, è stato Mussolini. Di qui il grande mito nato nell’immaginario collettivo degli italiani, le numerose biografie che sono state scritte, nonché l’esaltazione smisurata che anche uomini che venivano dalla sinistra hanno coltivato del caposupremo del regime e del partito unico, fondato per sostenerlo.
Ora, a distanza di70 anni dalla catastrofe del regime fascista nell’aprile 1945, vengono pubblicati presso Rizzoli i Diari 1932-38 (a cura di Mauro Suttora, Mussolini segreto, pp. 522.euro 21) di Claretta Petacci che di Mussolini fu la giovanissima (20 anni nel 1932) e poco segreta amante per tutti gli anni trenta e quaranta fino alla morte per fucilazione con il suo uomo presso Dongo. Sono diari conservati prima nel giardino della villa della contessa Rina Cervis, poi nel 1950 confiscati dai carabinieri e conservati nell’Archivio Centrale dello Stato, con il vincolo del segreto di Stato. Soltanto quest’anno sono stati resi accessibili ai ricercatori fino al fatidico anno 1938.
Ma quale è l’aspetto più interessante dei Diari emersi dopo tanto tempo dai nostri archivi? Ce ne sono almeno due che guidano il lettore interessato al passato del nostro paese, ai suoi costumi, alla sua cultura, a personaggi (parlo di Mussolini anzitutto) che hanno contato per molto tempo nella mentalità media degli italiani. Il primo aspetto evidente è la disparità tra l’uomo e la donna che emerge con grande evidenza nelle pagine di Claretta Petacci. I due amanti sono molto gelosi l’uno dell’altra ma c’è una differenza fondamentale: Mussolini fa di continuo “scappatelle” con altre donne (la ex favorita del Duce Romilda Ruspi Mingardi che alloggia addirittura a villa Torlonia dove il suo amante vive con la moglie Rachele e i figli ma anche altre amanti del passato che ogni tanto tornano da lui e lo sollecitano a riprendere il rapporto); Claretta, invece, non ha altre avventure ma viene di continuo sospettata da Benito e minacciata di essere lasciata per sempre.
Emerge con chiarezza il diverso significato dei tradimenti di lui e di quelli, peraltro inesistenti, di lei: Claretta lo rimprovera e si arrabbia per le “scappatelle” ma non pensa mai di lasciarlo. E lo stesso Mussolini si scusa, chiede perdono ma in più occasioni dice che non ha potuto far diversamente. Come se alle donne fosse possibile e richiesto di non lasciarsi andare ad altri amori e lo stesso non dovesse valere per gli uomini. Miviene inmente di fronte a queste pagine dei Diari una delle prime sentenze della Corte Costituzionale, appena dopo il suo tardivo insediamento a metà degli anni cinquanta, quando i giudici, dovendo stabilire, su richiesta di un tribunale, se la norma del codice penale che fissava un diverso trattamento per l’adulterio se compiuto dall’uomo rispetto a quello compiuto dalla donna, si arrampicavano sugli specchi per differenziare i due adulteri invocando l’allarme sociale. L’intento era quello di salvare la norma del codice Rocco e non dichiararla incostituzionale, malgrado il contrasto evidente con l’articolo 3 della Carta sull’eguaglianza dei cittadini di fronte ad ogni differenza. Dovettero passare alcuni anni prima che la Corte riconoscesse quella incostituzionalità.
L’altro elemento che emerge con chiarezza dai Diari riguarda le posizioni politiche e culturali che assume Mussolini nel dialogo quasi quotidiano con la giovane amante.
L’aspetto più interessante riguarda l’atteggiamento del dittatore rispetto al razzismo che appare, moderato, nei primi anni nel regime e frutto piuttosto del fanatismo di alcuni personaggi come Preziosi e Interlandi ma diventa nella seconda metà degli anni trenta la dottrina ufficiale sancita da leggi apposite e persino più precoci di quelle naziste nell’autunno 1938. «Ero razzista dal 1921. Non so come possano pensare che imito Hitler, non era ancora nato. Mi fanno ridere. La razza deve essere difesa». (4 agosto 1938).
Simili affermazioni contrastano, evidentemente, con quella visione storica di cui Renzo De Felice è stato iniziatore e caposcuola, che dipinge il razzismo fascistacomesubalterno e di qualità diversa, culturale piuttosto che biologica, rispetto a quello nazionalsocialista costitutivo dell’ideologia tedesca.
Tuesday, September 29, 2009
Humour failure on Berlusconi
L'abbronzatura di Obama scandalizza l'Unità, ma in America fa ridere
di Mauro Suttora
Libero, 29 settembre 2009
«A… A… Abbronzatissima!» Guai a scherzare sulla canzone di Edoardo Vianello (1963), applicandola a Michelle Obama. Silvio Berlusconi regala l’ennesima prima pagina all’Unità (ma come le riempirebbero, senza di lui?), con ovvia censura annessa: «razzismo». L’ex organo del Pci perde la «i» e resta pc: sigla internazionale per «politicamente corretto», oltre che per personal computer.
Solo che negli Stati Uniti, inventori di entrambi i pc, la correttezza politica dopo trent’anni ha stufato, e abbondano invece le barzellette (berlusconiane?) sulle capriole verbali di chi non osa offendere minoranze e presunti minorati. Aveva già scritto tutto Allan Bloom nell’87 nel libro «La chiusura della mente americana», che guarda caso è stato appena ripubblicato in Italia da Lindau dopo che da decenni l’edizione Frassinelli era esaurita (a proposito di censure).
Guai a chiamare i neri «niggers», e va bene. Poi però sono stati proibiti anche «negro» (appellativo rispettabile, sempre usato da Martin Luther King), e via via addirittura «black», l’aggettivo che ancora negli anni ’70 veniva orgogliosamente inalberato dai neri stessi: «Black power», «Black panthers». Così oggi, se non dici compitamente «african american», parola lunghissima e ridicola, gli americani perbenino inarcano il sopracciglio.
Naturalmente i neri se ne fottono, e si sfottono allegramente fra loro a colpi di «nigger». Ma questo capita ovunque: da noi gli unici con licenza di «terrone» sono da sempre i meridionali. Il problema è che alcuni italiani oggi stanno diventando la caricatura degli americani. Così, invece del dignitoso «disabile» e del complicato «portatore di handicap», il perfetto pc ex pci dirà «diversamente abile».
Adesso la sinistra diversamente intelligente attacca la battuta di Berlusconi sull’abbronzatura della First lady Obama, ma non si accorge di stare copiando in peggio il pc made in Usa. Negli Stati Uniti, infatti, qualche zona franca rimane: la scorsa settimana il comico tv David Letterman, davanti a milioni di telespettatori, ha chiesto a Obama: «Scusi, lei da quanto è che è nero?» Il presidente, ridendo per scacciare le accuse di razzismo, aveva scherzato: «Ero già nero da prima delle elezioni”. Impensabile in Italia, perlomeno dalle parti della gauche-caviar pariolina.
Siccome la stupidità è contagiosa, le frontiere del pc si allargano inesorabilmente. Quando ho osato additare una signora grassa alla mia fidanzata americana sulla spiaggia, dicendole: «Guarda quant’è cicciona», lei si è subito irrigidita: «Mauro, “fat” non si dice».
«Ma lei non ci ha sentito», ho risposto.
«Fa lo stesso. Dà fastidio a me».
«E come devo dire, allora?»
«Mah… Oversize (taglia superiore), oppure chubby (paffuta)».
Infatti adesso anche in Italia svolazziamo in un turbinio di «taglie forti, larghe, morbide», mentre gli anziani si trasformano in «maturi». Come siamo educati, signora mia. I ritardati sono diventati «mentally challenged», sfidati mentalmente. Impotenti e frigide? «Sexually challenged». E non parliamo degli omosessuali (pardon, gay), che per mio nonno erano tragicamente «pederasti, invertiti, degenerati». Chi osa pronunciare una parola un po’ forte si cautela con un gesto ridicolo, simulando contemporaneamente le virgolette con medio e indice di entrambe le mani.
L’unico su cui si può ancora liberamente scherzare è lo «psiconano di Arcore». Ma scommettiamoci: i vittoriani di sinistra prima o poi lo impediranno, e anche Berlusconi verrà tutelato con un gran bel «diversamente alto».
di Mauro Suttora
Libero, 29 settembre 2009
«A… A… Abbronzatissima!» Guai a scherzare sulla canzone di Edoardo Vianello (1963), applicandola a Michelle Obama. Silvio Berlusconi regala l’ennesima prima pagina all’Unità (ma come le riempirebbero, senza di lui?), con ovvia censura annessa: «razzismo». L’ex organo del Pci perde la «i» e resta pc: sigla internazionale per «politicamente corretto», oltre che per personal computer.
Solo che negli Stati Uniti, inventori di entrambi i pc, la correttezza politica dopo trent’anni ha stufato, e abbondano invece le barzellette (berlusconiane?) sulle capriole verbali di chi non osa offendere minoranze e presunti minorati. Aveva già scritto tutto Allan Bloom nell’87 nel libro «La chiusura della mente americana», che guarda caso è stato appena ripubblicato in Italia da Lindau dopo che da decenni l’edizione Frassinelli era esaurita (a proposito di censure).
Guai a chiamare i neri «niggers», e va bene. Poi però sono stati proibiti anche «negro» (appellativo rispettabile, sempre usato da Martin Luther King), e via via addirittura «black», l’aggettivo che ancora negli anni ’70 veniva orgogliosamente inalberato dai neri stessi: «Black power», «Black panthers». Così oggi, se non dici compitamente «african american», parola lunghissima e ridicola, gli americani perbenino inarcano il sopracciglio.
Naturalmente i neri se ne fottono, e si sfottono allegramente fra loro a colpi di «nigger». Ma questo capita ovunque: da noi gli unici con licenza di «terrone» sono da sempre i meridionali. Il problema è che alcuni italiani oggi stanno diventando la caricatura degli americani. Così, invece del dignitoso «disabile» e del complicato «portatore di handicap», il perfetto pc ex pci dirà «diversamente abile».
Adesso la sinistra diversamente intelligente attacca la battuta di Berlusconi sull’abbronzatura della First lady Obama, ma non si accorge di stare copiando in peggio il pc made in Usa. Negli Stati Uniti, infatti, qualche zona franca rimane: la scorsa settimana il comico tv David Letterman, davanti a milioni di telespettatori, ha chiesto a Obama: «Scusi, lei da quanto è che è nero?» Il presidente, ridendo per scacciare le accuse di razzismo, aveva scherzato: «Ero già nero da prima delle elezioni”. Impensabile in Italia, perlomeno dalle parti della gauche-caviar pariolina.
Siccome la stupidità è contagiosa, le frontiere del pc si allargano inesorabilmente. Quando ho osato additare una signora grassa alla mia fidanzata americana sulla spiaggia, dicendole: «Guarda quant’è cicciona», lei si è subito irrigidita: «Mauro, “fat” non si dice».
«Ma lei non ci ha sentito», ho risposto.
«Fa lo stesso. Dà fastidio a me».
«E come devo dire, allora?»
«Mah… Oversize (taglia superiore), oppure chubby (paffuta)».
Infatti adesso anche in Italia svolazziamo in un turbinio di «taglie forti, larghe, morbide», mentre gli anziani si trasformano in «maturi». Come siamo educati, signora mia. I ritardati sono diventati «mentally challenged», sfidati mentalmente. Impotenti e frigide? «Sexually challenged». E non parliamo degli omosessuali (pardon, gay), che per mio nonno erano tragicamente «pederasti, invertiti, degenerati». Chi osa pronunciare una parola un po’ forte si cautela con un gesto ridicolo, simulando contemporaneamente le virgolette con medio e indice di entrambe le mani.
L’unico su cui si può ancora liberamente scherzare è lo «psiconano di Arcore». Ma scommettiamoci: i vittoriani di sinistra prima o poi lo impediranno, e anche Berlusconi verrà tutelato con un gran bel «diversamente alto».
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