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Monday, April 24, 2023

Il '68 di Belafonte



Fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 aprile 2023

È difficile oggi rendersi conto dell'impatto che ebbe Harry Belafonte nel febbraio 1968, quando condusse per una settimana il Tonight Show sul network statunitense Nbc. Ogni sera, davanti a oltre dieci milioni di esterrefatti benpensanti, il leggendario cantante appena scomparso offrì il massimo podio televisivo ai principali esponenti del movimento per i diritti civili e della controcultura.


La sua stessa presenza era storica: fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti. Gli aveva lasciato temporaneamente la poltrona Johnny Carson, monumento catodico, che condusse il Tonight Show per trent'anni (1962-92) facendone uno dei programmi anche politici più ambiti: una specie di Maurizio Costanzo più Lilli Gruber più Fabio Fazio, poi lasciato in eredità a Jay Leno, oggi a Jimmy Fallon, e soprattutto al concorrente David Letterman.

Nel 1968 gli Stati Uniti erano una polveriera. Per tre motivi: la rivolta studentesca iniziata quattro anni prima a Berkeley col Free Speech Movement; i ghetti neri in fiamme, non placati dalla legge sui diritti civili che il presidente Lyndon Johnson aveva concesso a Martin Luther King; la guerra del Vietnam, che proprio in quei mesi raggiunse il suo apice con l'offensiva del Tet, massacrando decine di migliaia di giovani americani che tornavano a casa in bara o mutilati.

Quando Belafonte sottopose la lista dei suoi invitati ai dirigenti Nbc, loro barcollarono. Metà erano di colore, e fra i bianchi il più moderato era il giovane Paul Newman, che però quando arrivò in trasmissione si trasformò in un estremista radical. Purtroppo allora non tutte le trasmissioni tv Usa venivano registrate, cosicché oggi ce ne rimane solo qualche spezzone. Memorabile quello con M.L.King: l'ultima intervista del Nobel per la pace, che verrà assassinato il 4 aprile. Robert Kennedy annunciò la sua candidatura a presidente subito dopo la partecipazione, sfruttando l'onda di consenso e interesse che aveva provocato. Anch'egli ucciso. 

Notevoli anche Aretha Franklin e Sidney Poitier: il premio Oscar di Indovina chi viene a cena, come lo stesso Belafonte, in quel periodo era accusato di 'ziotommismo' dai neri più estremisti come Malcolm X, Stokely Carmichael, le nascenti Pantere nere. E invece entrambi non sembrarono affatto sottomessi alla maggioranza silenziosa di destra che di lì a poco mandò alla Casa Bianca Richard Nixon.

Il cantante di Matilda e Banana Boat colpì nel segno, e niente fu come prima. Tre anni fa Sky ha trasmesso un documentario su questa impresa di Belafonte, e sicuramente ora la riproporrà. Non perdetela. 

Friday, January 20, 2017

Ivanka sopra la panca

RITRATTO DELLA FIRST FIGLIA DI TRUMP

di Mauro Suttora

speciale Oggi, 20 gennaio 2017

Quanto l’intervistatore tv David Letterman le ha chiesto «Sul lavoro è aggressiva come suo padre?», lei ha risposto: «Negli affari è meglio mettere subito in chiaro con chi hanno a che fare».

Il caratterino di Ivanka Trump è come la kappa del suo nome: deciso. E pensare che invece per gli slavi aggiungere una kappa è un dolce diminutivo. Quando aveva otto anni sua madre Ivana scoprì che Donald la tradiva con l’attricetta americana Marla Maples. Lo cacciò di casa, il famoso attico a tre piani in cima alla Trump Tower, e lui andò a vivere da solo qualche piano più in giù.

Quindi Ivana e i suoi fratelli Donald junior ed Eric sono cresciuti a distanza di ascensore dal papà.
Molto più presente dei genitori, prima e dopo il divorzio, è stata la nonna ceca di Ivanka: Marie Zelnickova, oggi 89enne. Fu lei a crescerla. E anche oggi la aiuta con i tre bisnipoti: Arabella di 5 anni, Joseph, 3, e Theodore di otto mesi.

Fino a 15 anni Ivanka ha frequentato la prestigiosa Chapin School di Manhattan. La stessa di Jacqueline Kennedy. Una volta un giornalista la aspettò all’uscita per chiederle di commentare una frase dell’amante di suo padre: «Con lui faccio il sesso migliore della mia vita». 
Allora, per proteggerla, la trasferirono a Wallingford nel Connecticut, in un collegio «che era una prigione, mentre i miei amici si divertivano a New York», ricorda lei.

I primi due anni di università alla Georgetown di Washington, poi in Pennsylvania alla Wharton Business School, la stessa di suo padre. Laurea in economia nel 2004. E subito al lavoro nella Trump Organization.

Tre anni dopo si mette anche in proprio fondando con una società venditrice di diamanti il marchio Ivanka Trump Fine Jewelry. Negozio prima a Madison avenue, poi a Soho in Mercer street (chiuso un anno fa). Oggi i suoi gioielli sono venduti online e in qualche negozio negli Usa e nei Paesi arabi.

Due mesi fa è apparsa al fianco del padre nella prima intervista dopo l’elezione, per il programma tv 60 Minutes. Il giorno dopo un’addetta stampa della sua società ha pubblicizzato il bracciale al polso di Ivanka, avvertendo che poteva essere acquistato per 8.800 dollari.

L’altra società autonoma di Ivanka, sempre col suo nome, vende abiti, borse, scarpe e accessori nei grandi magazzini. Anche qui, l’avventura politica paterna viene usata a scopi promozionali: dopo il discorso di Ivanka alla Convenzione repubblicana della scorsa estate che ha incoronato Donald, le affezionate clienti sono state invitate a comprare il vestito che indossava.

I produttori di scarpe Derek Lam e Aquazzura hanno inoltre accusato la First Figlia di avere copiato alcuni loro modelli, e gli animalisti di usare pellicce di coniglio.

Ivanka è anche modella a tempo perso. Ha debuttato a 16 anni sulla copertina della rivista Seventeen. Poi ha sfilato per Donatella Versace e Thierry Mugler e si è fatta fotografare per Tommy Hilfiger. Per migliorarsi è diventata bionda e si è rifatta naso e seno. Finché era single finiva regolarmente nelle liste delle hot 100 americane da sposare.

Nella società di papà la carica ufficiale di Ivanka è vicepresidente per lo sviluppo e acquisizioni. Ma la popolarità le è arrivata nel 2006 partecipando a cinque puntate del reality tv paterno, The Apprentice: ha fatto la giudice e ha aiutato il vincitore a seguire uno dei tanti progetti immobiliari Trump, il grattacielo del Soho Hotel.

È apparsa anche in un imbarazzante documentario sulla vita dei figli dei ricchi del 2003, Born Rich, con Georgina Bloomberg, figlia del miliardario ex sindaco di New York. Era amica anche di Paris Hilton e Chelsea Clinton.

Ha scritto un libro, The Trump card: Playing to win in work and life (La carta Trump: Giocare per vincere nel lavoro e nella vita), e nel marzo 2017 esce il secondo: Women Who Work: Rewriting the Rules for Success (Donne che lavorano: Riscrivere le regole del successo).

Ma che idee politiche ha Ivanka Trump? «Come molti dei miei coetanei, non mi considero repubblicana o democratica», ha detto alla Convention. Dieci anni fa aveva dato addirittura mille dollari a Hillary Clinton per la sua sfortunata campagna contro Obama. Ma allora anche il padre era amico dei Clinton.

Nel 2013 lei e il marito Jared Kushner hanno organizzato un gala per il senatore democratico di colore del New Jersey Cory Booker, raccogliendo più di 40mila dollari. Tradizionalmente, la famiglia Kushner (ricchi costruttori ebrei) finanziava sia democratici che repubblicani.

All’inizio Ivanka non era così convinta della candidatura del padre: «Come cittadina, adoro quel che fa. Come figlia, naturalmente è più complicato», disse nell’ottobre 2015. Eppure Donald aveva già dichiarato che era lei la sua maggiore consigliera sui temi riguardanti le donne.

Ha partecipato finché ha potuto alla campagna del padre, perché era incinta, ma soprattutto è stata lei a pronunciare l’importante discorso che lo ha presentato alla Convenzione repubblicana, con le note di Here Comes the Sun di George Harrison (la vedova del Beatle ha protestato). Eppure non ha potuto votare per lui alle primarie di New York nell’aprile 2016, perché si era registrata in ritardo al partito repubblicano.

Prima del Natale 2016 è successo uno spiacevole incidente: si era imbarcata con i tre figli su un volo low cost per le Hawaii all’aeroporto di New York, e un passeggero le ha urlato «Tuo padre sta rovinando questo Paese!». L’uomo è stato cacciato dall’aereo e messo nel volo successivo.

Il matrimonio con Jared Kushner sembra saldo. I due sono una coppia di successo, e Jared è stato la mente della campagna online di Trump. Prima di mettersi con lui nel 2005, Ivanka ai tempi dell’università era stata fidanzata per quattro anni con Greg Hersch, poi banchiere di Salomon Brothers e Ubs. In seguito altri quattro anni con il playboy Bingo Gubelmann.

Nel 2008 Jared e Ivanka si sono lasciati, perché i genitori di lui volevano una nuora ebrea. Così lei si è convertita, ha studiato per un anno con un rabbino ortodosso, e l’anno dopo si sono sposati. Seguono scrupolosamente le regole del sabato ebraico: «Non facciamo neanche telefonate». La figlia Arabella frequenta una scuola materna religiosa e sta imparando l’ebraico.

Mauro Suttora

Friday, December 23, 2016

Sopra la panca, Ivanka



IL PRESIDENTE TRUMP SCEGLIE LA FIGLIA COME SUO NUMERO DUE

di Mauro Suttora

settimanale Oggi, 23 dicembre 2016 

Il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump sostituirà la First Lady con la First Daughter? Sua moglie Melania non si trasferirà con lui alla Casa Bianca il 20 gennaio. Ufficialmente perché non vuole far interrompere al figlio l’anno scolastico a New York. Ma in realtà tutti sanno che all’ex modella slovena, terza moglie di Trump, la politica interessa poco. E quando ha cercato di aiutare il marito spesso ha combinato disastri. Come alla Convention democratica della scorsa estate, quando ha copiato un discorso di Michelle Obama.

La figlia Ivanka Trump, invece, è sempre accanto al presidente da quando, 40 giorni fa, è stato eletto. Addirittura partecipa assieme a lui a vertici internazionali come quello con il premier giapponese Shinzo Abe.

Finta bionda come mamma Ivana, naso e seno rifatti, tre figli, la 35enne Ivanka non si limita a presenziare. L’arrembante daughter, infatti, è capace di organizzare scherzi orrendi a politici e vip che, dopo aver insultato il padre, ora si recano in mesta processione a baciargli la pantofola nella Trump Tower di Manhattan.

La prima vittima è stato l’ex vicepresidente Al Gore, premio Nobel e Oscar. Dopo un colloquio di mezz’ora con lei e cinque minuti col padre è sceso nell’atrio magnificando le idee “ecologiste” di Ivanka. Risultato: tre giorni dopo Trump ha nominato ministro dell’Ambiente un tizio che nega il cambiamento climatico.

Poi è stato Leonardo DiCaprio a finire nella rete della furba figlia. Anche lui democratico e ambientalista militante, è andato a Canossa senza ottenere alcun risultato.

L’ultimo incredibile voltafaccia propiziato da Ivanka col marito Jared Kushner è stato quello dei big del computer. Bill Gates di Microsoft e i capi di Apple, Google e Amazon, tutti supporter di Hillary Clinton fino a novembre, si sono lanciati in un coro di adulazioni per il «nuovo John Kennedy» (così lo sprovveduto Gates ha definito Trump). «Dobbiamo collaborare con chiunque sia al potere», si giustificano i neopatrioti.

«Mio padre mi ha insegnato a colpire per prima gli avversari, così capiscono subito con chi hanno a che fare»: parola di Ivanka a David Letterman nel suo show tv pochi anni fa. La ragazza non è cambiata. E ora si appresta a trasferirsi a Washington con il “first genero” Jared per essere la principale scudiera di Donald.

Dribbleranno la legge del 1967 contro il nepotismo che vieta al presidente dinominare parenti (come fece Kennedy col fratello Bob procuratore generale), evitando di percepire compensi. A Ivanka basterà incassare i 4 milioni di dollari del suo appartamento su Park Avenue messo in vendita a New York per rientrare nelle spese.

Lei non è stupida: ha frequentato il liceo di Jackie Kennedy a Manhattan, si è laureata a 23 anni in Economia nella stessa università del padre, la Wharton business school in Pennsylvania. E il marito Kushner continuerà a fare l’eminenza grigia on line di Trump, con la sua strategia di bufale per bypassare gli odiati giornalisti.
Mauro Suttora


I POTENTI IN GINOCCHIO DAVANTI A LORO

Questa foto fa capire subito il nuovo clima che si è instaurato negli Stati Uniti verso il nuovo presidente Donald Trump. Osteggiato e insultato durante la campagna elettorale, quando nessuno pensava potesse vincere, ora i potenti di Wall Street (finanza) e Silicon Valley (computer) fanno a gara per ottenere un incontro con i Trump nella sua Tower di New York. E a tutti i vertici c’è Ivanka (qui sotto indicata dalla freccia, accanto al fratello Eric), che spesso promuove in prima persona gli incontri.

Questo, in particolare, ha visto presenti i big californiani di Apple (Tim Cook, fuori dall’inquadratura), Facebook e Amazon (Jeff Bezos, quinto da sinistra). La California ha votato contro Trump al 70 per cento, e New York all’80, ma adesso i cosiddetti “poteri forti” mettono le vele al vento, e si rassegnano a collaborare con quello che ritenevano soltanto un personaggio folkloristico. La Borsa sembra approvare: da quando Trump è stato eletto, è ai massimi storici.
Mauro Suttora


Tuesday, September 29, 2009

Humour failure on Berlusconi

L'abbronzatura di Obama scandalizza l'Unità, ma in America fa ridere

di Mauro Suttora

Libero, 29 settembre 2009

«A… A… Abbronzatissima!» Guai a scherzare sulla canzone di Edoardo Vianello (1963), applicandola a Michelle Obama. Silvio Berlusconi regala l’ennesima prima pagina all’Unità (ma come le riempirebbero, senza di lui?), con ovvia censura annessa: «razzismo». L’ex organo del Pci perde la «i» e resta pc: sigla internazionale per «politicamente corretto», oltre che per personal computer.

Solo che negli Stati Uniti, inventori di entrambi i pc, la correttezza politica dopo trent’anni ha stufato, e abbondano invece le barzellette (berlusconiane?) sulle capriole verbali di chi non osa offendere minoranze e presunti minorati. Aveva già scritto tutto Allan Bloom nell’87 nel libro «La chiusura della mente americana», che guarda caso è stato appena ripubblicato in Italia da Lindau dopo che da decenni l’edizione Frassinelli era esaurita (a proposito di censure).

Guai a chiamare i neri «niggers», e va bene. Poi però sono stati proibiti anche «negro» (appellativo rispettabile, sempre usato da Martin Luther King), e via via addirittura «black», l’aggettivo che ancora negli anni ’70 veniva orgogliosamente inalberato dai neri stessi: «Black power», «Black panthers». Così oggi, se non dici compitamente «african american», parola lunghissima e ridicola, gli americani perbenino inarcano il sopracciglio.

Naturalmente i neri se ne fottono, e si sfottono allegramente fra loro a colpi di «nigger». Ma questo capita ovunque: da noi gli unici con licenza di «terrone» sono da sempre i meridionali. Il problema è che alcuni italiani oggi stanno diventando la caricatura degli americani. Così, invece del dignitoso «disabile» e del complicato «portatore di handicap», il perfetto pc ex pci dirà «diversamente abile».

Adesso la sinistra diversamente intelligente attacca la battuta di Berlusconi sull’abbronzatura della First lady Obama, ma non si accorge di stare copiando in peggio il pc made in Usa. Negli Stati Uniti, infatti, qualche zona franca rimane: la scorsa settimana il comico tv David Letterman, davanti a milioni di telespettatori, ha chiesto a Obama: «Scusi, lei da quanto è che è nero?» Il presidente, ridendo per scacciare le accuse di razzismo, aveva scherzato: «Ero già nero da prima delle elezioni”. Impensabile in Italia, perlomeno dalle parti della gauche-caviar pariolina.

Siccome la stupidità è contagiosa, le frontiere del pc si allargano inesorabilmente. Quando ho osato additare una signora grassa alla mia fidanzata americana sulla spiaggia, dicendole: «Guarda quant’è cicciona», lei si è subito irrigidita: «Mauro, “fat” non si dice».

«Ma lei non ci ha sentito», ho risposto.

«Fa lo stesso. Dà fastidio a me».

«E come devo dire, allora?»

«Mah… Oversize (taglia superiore), oppure chubby (paffuta)».

Infatti adesso anche in Italia svolazziamo in un turbinio di «taglie forti, larghe, morbide», mentre gli anziani si trasformano in «maturi». Come siamo educati, signora mia. I ritardati sono diventati «mentally challenged», sfidati mentalmente. Impotenti e frigide? «Sexually challenged». E non parliamo degli omosessuali (pardon, gay), che per mio nonno erano tragicamente «pederasti, invertiti, degenerati». Chi osa pronunciare una parola un po’ forte si cautela con un gesto ridicolo, simulando contemporaneamente le virgolette con medio e indice di entrambe le mani.

L’unico su cui si può ancora liberamente scherzare è lo «psiconano di Arcore». Ma scommettiamoci: i vittoriani di sinistra prima o poi lo impediranno, e anche Berlusconi verrà tutelato con un gran bel «diversamente alto».

Tuesday, February 26, 2008

Josette Sheeran, un'americana a Roma

JOSETTE SHEERAN, UN’AMERICANA A ROMA PER CONTO DI BUSH

Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)

Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008

di Mauro Suttora

Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.

Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.

Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.

La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).

Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.

Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.

Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.

Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?

Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.

Monday, August 29, 2005

New Orleans/1

KATRINA

lunedi 29 agosto 2005

Diario

Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.

Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.

Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.

Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.

Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.

La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.

Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.

Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.

Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.

“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.

“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.

Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.

Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.

Mauro Suttora