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Saturday, September 30, 2023

Salvate Meloni e il governo dalla capra Giambruno

di Mauro Suttora 

Il first gentleman d'Italia ha colpito ancora. È riuscito a dire, riferendosi ai migranti, che "Berlusconi aveva già capito tutto della transumanza dall'Africa verso l'Europa"

Huffingtonpost.it, 30 settembre 2023

"Settembre, andiamo, è tempo di migrare". E anche di straparlare. Ora in terra di Mediaset il conduttor Giambruno ha colpito ancora. "Berlusconi aveva già capito tutto della transumanza dall'Africa verso l'Europa", è riuscito a dire nel suo programma su Rete4.

Salvate il soldato Andrea Giambruno. Spiegate al first gentleman d'Italia che gli animali transumano, mentre gli uomini emigrano. Forse il tapino è stato ingannato dal significato originale del verbo 'migrare', che in effetti fino a trent'anni fa si riferiva più che altro agli uccelli. E quindi, avrà pensato, per estensione anche alle pecore. 

Salvate il soldato Giambruno. Peccato che alle elementari non insegnino più a memoria la poesia 'I Pastori' di Gabriele D'Annunzio. Avrebbe avuto chiaro il quadro della transumanza autunnale in terra d'Abruzzo, con le greggi che lasciano gli stazzi sui monti e vanno verso il mare.

Salvate il soldato Giambruno. Il prossimo weekend, Giorgia, invece di importunare ancora la tua nuova amica Ursula invitandola dappertutto, portalo a visitare i tratturi dell'Appennino molisano e dauno, dove si transuma sul serio. Scoprirete pastori solleciti e amorevoli, non scafisti avidi e crudeli.

 Salvate il soldato Giambruno. Non fatelo più parlare di politica, crea troppi imbarazzi. È laureato in filosofia, mettetelo al posto di Myrta Merlino. A voler essere pignoli oggi ha detto un'altra sciocchezza, degradando Berlusconi a ministro degli Esteri, carica mai ricoperta. 

Salvate il soldato Giambruno. Non si transuma sul mare, gli ovini non prendono il gommone. Gli riconosciamo solo un perfetto senso del timing: perché oggi è l'ultimo giorno di settembre, quindi domani la poesia dannunziana sulla transumanza sarebbe scaduta. 

Sunday, December 20, 2020

Cent'anni fa il Natale di sangue a Fiume

Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari per fondare il loro effimero e incredibile stato libero


Mauro Suttora

HuffPost, 20 dicembre 2020


Cent’anni dal Natale di sangue a Fiume, 1920. Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari (ora aeroporto di Udine-Trieste) per fondare il loro effimero e incredibile stato libero.

La peggior strage compiuta dalle nostre forze armate in tempo di pace verso concittadini, dopo quella del generale Bava Beccaris nel 1898 a Milano.

Fiume, oggi Rijeka, terza città della Croazia, era un paradiso cosmopolita. Odiata quindi dai sovranisti di allora, italiani e croati, che la volevano tutta per loro. Porto dell’Ungheria nell’impero asburgico, aveva 50mila abitanti, per metà italiani.

Situata nell’ascella dell’Istria, contrariamente a Trieste prima del 1915 non fu scossa dal nostro irredentismo, né dal nazionalismo speculare slavo.

Le minoranze croate, ungheresi, tedesche ed ebraiche vivevano felicemente, arricchendosi in tranquillità accanto agli italiani nella belle époque del Carnaro. 

I piroscafi usciti dai cantieri Cosulich nella prospiciente isola di Lussino (oggi trasferiti a Monfalcone) solcavano gli oceani portando tutte le merci del mondo alla Mitteleuropa attraverso il porto fiumano.

Il sogno finisce con la prima guerra mondiale. Niente Dalmazia all’Italia, come promessoci dagli anglofrancesi nel patto di Londra. Così la frustrazione per la “vittoria mutilata” viene canalizzata da Gabriele D’Annunzio. Non vogliono darci Fiume? E noi ce la prendiamo, eia eia alalà.

Prova generale del fascismo: reduci, arditi, camicie nere, pugnali, gagliardetti, teschi. La funerea paccottiglia militarista permea l’impresa fiumana.

Ma attenzione, avverte Pier Luigi Vercesi nel suo bel libro Fiume, l’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017): “Quell’anno diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico, e anche letterario e teatrale. D’Annunzio governa con un’invenzione al giorno. Fiume si trasforma in ‘città di vita’, dove tutto è concesso: le donne votano, l’omosessualità è tollerata, si può divorziare e ne approfitta Guglielmo Marconi, l’esercito viene abolito in tempo di pace, l’istruzione è gratuita, una nuova Costituzione sovverte le regole borghesi e monarchiche. Perfino Lenin è affascinato dal governo dannunziano”.

Insomma, il Vate conquista Fiume, ma la civiltà fiumana e l’amore libero conquistano i suoi legionari.

Non può continuare. Con il trattato di Rapallo del novembre 1920 fra Italia e la neonata Jugoslavia, Roma rinuncia alla Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta) in cambio dello status di città libera per Fiume.

D’Annunzio rifiuta l’accordo, e Giolitti fa bombardare la città, ponendo fine all’avventura. Alle 4 di pomeriggio del 26 dicembre 1920 la nave Andrea Doria colpisce il Palazzo del governatore. Il poeta è ferito alla testa dai calcinacci nel suo studio. Due giorni dopo si dimette. 

Tuttavia, commenta Vercesi, “D’Annunzio muta il corso della storia d’Italia e probabilmente d’Europa, orchestrando la più reale rappresentazione dello spirito del tempo”.

Mauro Suttora

Monday, November 25, 2013

D'Annunzio socialista: come Grillo


Pochi sanno che il Vate per un anno fu deputato del Psi, e addirittura candidato nel 1900 per il partito allora di estrema sinistra. Usava toni da Grillo, e riuscì a ingannare i dirigenti socialisti. Ma gli elettori bocciarono questa sua capriola

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 22 novembre 2013

«Sono spinto dal disgusto per gli altri partiti. Non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere. Ciò che esiste adesso è nulla, marciume, morte che si oppone alla vita. Bisogna dapprima saccheggiare tutto».

Beppe Grillo? No: Gabriele D'Annunzio. Era il 1899, e il Vate passò ai socialisti dopo due anni da deputato di destra. Uno Scilipoti ante litteram. Non aspettò neppure la conclusione del mandato per compiere il salto della quaglia, come facevano di solito i trasformisti alla Depretis per salvare il decoro. Lui, principale precursore e ispiratore del fascismo, ci mise poco a passare da un estremo all'altro del Parlamento.

L'occasione fu l'ostruzionismo contro le leggi liberticide del governo Pelloux. «Vado verso la vita!», fu la celebre frase con cui il poeta giustificò il tradimento. Che non fu di poco conto: i socialisti, allora, erano gli estremisti dell'opposizione di sinistra (repubblicani, radicali). Entravano e uscivano di prigione, i cannoni del generale Bava Beccaris li avevano massacrati durante la rivolta del 1898. E proprio D'Annunzio era uno dei loro principali zimbelli: odiavano quel poetucolo nano, strafottente e decadente, idolo della piccola borghesia. Il quale a sua volta non perdeva occasione per irridere le loro idee di eguaglianza.

Si sta concludendo l'anno dannunziano (150° dalla nascita, 1863). Quasi nessuno ha ricordato l'anno socialista del poeta di Pescara, parentesi minima in una turbolenta vita tutta spesa all'estrema destra: dalla beffa di Buccari all'impresa di Fiume, dal volo su Vienna al ritiro nel Vittoriale. 

Ma, soprattutto, risulta incredibile l'infatuazione dei massimi dirigenti socialisti, dal direttore del quotidiano Avanti! Leonida Bissolati al segretario Filippo Turati, per il Vate individualista ed esibizionista. Il quale nei pochi mesi in cui sventolò la «bandiera color vermiglio» (gli dava noia chiamarla rossa) non abbandonò affatto le proprie idee da superuomo nietzschiano. Ciononostante, il Psi si lasciò prendere da un incomprensibile entusiasmo per il convertito. Un po' come oggi, quando chiunque a destra si opponga a Silvio Berlusconi (da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano) viene immediatamente rivalutato e portato sugli altari dal Pd.
 
Gli unici a mantenere un po' d'equilibrio furono gli elettori di sinistra: fecero subito giustizia di quella banderuola arrogante, bocciandolo nel collegio fiorentino dove il Psi lo aveva candidato nelle politiche anticipate dell’agosto 1900.
 
Ricostruiamo questa grottesca vicenda 'contro natura' grazie a documenti inediti o dimenticati rinvenuti dal professor Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, che sta pubblicando il libro D'Annunzio socialista. «Il poeta, eletto deputato nel 1897 per la destra in un collegio della sua terra d'origine, Ortona in provincia di Chieti», ricorda Alosco, «si batteva per il ripristino della grandezza della patria sul modello di Roma imperiale. Anelava alla supremazia di una classe dominante che possedesse virtù aristocratiche, appannate dal dominio della borghesia bottegaia. Nazionalista, disprezzava profondamente ogni principio democratico».

Cosa provocò, allora, il voltafaccia del 1899? «L'ostruzionismo della sinistra contro i provvedimenti straordinari proposti dal governo del generale Luigi Pelloux», spiega il professor Alosco, «al quale in giugno si unirono anche i liberali illuminati di Giolitti e Zanardelli. L'ostruzionismo era un metodo fino ad allora sconosciuto nelle nostre aule parlamentari. Ma era giustificato dalla gravità delle leggi in votazione: domicilio coatto ripristinato anche per motivi politici, polizia che poteva vietare riunioni in luoghi pubblici, scioglimento di associazioni ritenute sovversive, impiegati pubblici militarizzati, restrizioni alla libertà di stampa».

Fu quest'ultimo provvedimento a urtare la suscettibilità di D'Annunzio, che scriveva da anni su giornali nazionali: il governo non poteva limitare la sfera degli uomini di pensiero. Dopo mesi di grandi turbolenze, il 23 marzo 1900 votò anche lui contro il governo. Più per motivi estetici che politici. Il giorno dopo, infatti, aderì ufficialmente all'Estrema sinistra, accolto da un'ovazione, con queste parole: «Da una parte vi sono molti morti che urlano, dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d'intelletto, vado verso la vita».

Tre giorni dopo D’Annunzio riprende la metafora vivi/morti, oggi cara a Grillo, in un articolo sul Mattino di Napoli diretto dal suo amico-nemico Edoardo Scarfoglio. Poi vota un ordine del giorno per la scuola laica. Tanto basta ai giovani socialisti fiorentini per mandargli subito un telegramma: «Studenti plaudono vostro atto generoso osato in mezzo tanta viltà».

Il Vate si sente già un capo della sinistra. Sull'ostruzionismo dichiara a un giornale inglese: «Non fuvvi battaglia, ma una ritirata che vale più di una battaglia […] Non ho alcuna speranza nella pacificazione invocata. Se avvenisse non potrebbe essere sincera». Non sembra il Berlusconi di oggi?

Il governo comunque, indebolito, per ridimensionare la sinistra scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Il Psi candida D'Annunzio a Firenze, dove il poeta risiede da due anni nella villa La Capponcina, a Settignano.

L'Avanti! di Bissolati si sbrodola: «L'adesione di D'Annunzio all'Estrema ha un alto significato. L'impulso intellettuale che spinse il finissimo artista a correre con noi sta ad indicare quanto l'azione dell'Estrema risponda alle ragioni della dignità civile». Precisa: «Da D'Annunzio ci separa il concetto che noi abbiamo della vita sociale. Ma ad esso ci uniscono il bisogno di libertà e l'esigenza di condizioni civili che assicurino il pieno e rigoglioso sviluppo dell'individuo, così come del corpo sociale».

Nei mesi seguenti l'organo socialista accentua l'ammirazione per il Vate: «Artista superiore e illustre», «Figura gloriosa di letterato, poeta, commediografo, romanziere, viva e fulgida gloria d'Italia». Nota il professor Alosco: «L'Avanti! dà più spazio a lui che a esponenti di primo piano del partito come Andrea Costa, cui dedica poche righe di cronaca dei comizi. Ma, soprattutto, pubblica in prima pagina suoi articoli e ampie recensioni delle sue opere. Nei titoli usa perfino lo stile aulico dannunziano: 'secondo assalto' invece di ballottaggio, 'vigilia d'armi', 'dopo la lotta'». E pazienza se il Psi, pacifista, detesta tutto ciò che sa di militarismo.

D'Annunzio pubblica il libro Il Fuoco? Bissolati gli regala un lungo articolo in prima. «Del tutto inusitato in un giornale politico, figurarsi in quello del partito socialista», si sorprende Alosco. Il Vate ricambia sull'unico terreno comune che trova con la sinistra: scrive un'ode a Garibaldi. E nei comizi tesse elogi degli agricoltori.

Anche Turati considera D'Annunzio un rivoluzionario sia nell'arte, sia nel sociale. Aveva scritto infatti già nel 1881 sul giornale La Farfalla: «Se lo lasciano fare è capace del suo bravo colpo di stato artistico, sconvolgendo gli ordini e le gerarchie costituite». E l'anno dopo: «Coscientemente o incoscientemente, è socialista e ribelle».

Ciononostante, l'Inimitabile al voto viene sconfitto: il conte di destra Tommaso Combray Digny raccoglie quasi il doppio dei suoi suffragi, 1.158 contro 619. D'Annunzio si consola solo per aver raddoppiato i trecento voti del proprio predecessore candidato di sinistra.
    
Dopo il disastro l'infatuazione socialista scema. D'Annunzio dice al Times dopo la sconfitta: «Credete che io sia socialista? Io sono sempre lo stesso; fra quella gente e me esiste una barriera. Sono e rimango individualista ad oltranza, individualità feroce. Mi piacque entrare un istante nella fossa dei leoni, ma vi fui spinto per disgusto degli altri partiti. Il socialismo in Italia è un'assurdità. Da noi non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere». E via, verso nuove avventure. Ingrato.
Mauro Suttora

Monday, December 28, 2009

Fiume negli anni Trenta

Nel romanzo Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani) il novantenne Brunello Vandano ricorda gli amori di una civiltà magica

di Mauro Suttora

Oggi, 10 dicembre 2009



«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»

Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.

«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».

Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.

Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.

Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».

Mauro Suttora