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Monday, January 01, 2018

Sette confini per Sette

LE FRONTIERE PIU' STRANE DEL MONDO

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera)
21 dicembre 2017

Ci sono quelli sanguinanti (Turchia-Siria) e quelli pacifici (Usa-Canada). Molti sono invisibili (Ue, spazio Schengen), alcuni protetti da muri (Israele-Palestina). E poi quelli appena risorti (Regno Unito-Europa), i dimenticati (Italia-Svizzera), i cancellati (Germania Ovest-Est).
Tutti i confini, però, condividono una caratteristica: sono carichi di storia.
Quelli naturali coincidono con mari, fiumi, monti. Gli altri invece, arbitrari, risultano da secoli di lotte, battaglie, innumerevoli morti.

Perché, per esempio, l'Italia finisce a Chiasso, e non dieci chilometri più a sud o a nord? (Risposta: battaglia persa dai 'pacifici' svizzeri a Marignano/Melegnano nel 1515, la più cruenta dell'epoca).
E qualcuno sa che la frontiera di Ventimiglia fu decisa da Napoleone nel 1808, quando assegnò il paese di Garavano a Mentone?
Molti sono ancor oggi disposti a morire, per un confine. Soprattutto se lo considerano sacro (Gerusalemme).
Qui vi raccontiamo 7 storie (come 7) meno drammatiche, ma speriamo interessanti e curiose.



1) PIPÌ NEL MAR NERO
Ci sono tre posti, in Italia, dove la nostra pipì finisce nel mar Nero. Tarvisio (Udine), San Candido e Sesto in val Pusteria (Bolzano) e Livigno (Sondrio) si trovano infatti al di là dello spartiacque alpino. Quindi il loro bacino idrografico, per dirla con gli scienziati, non è quello del Po. I torrenti che bagnano questi quattro comuni (con annesse fogne e depuratori) affluiscono nei fiumi Inn e Drava, e da lì nel Danubio fino alla Romania.

Non sono l'unica eccezione al crinale delle Alpi come frontiera. Ben più grande è il canton Ticino: italiano per geografia e lingua, ma svizzero da mezzo millennio.
Tarvisio e San Candido invece sono italiani da un secolo. Facemmo un po' i gradassi dopo la vittoria del 1918: ai generali piace controllare le valli dall'alto, così li strappammo all'Austria. Anche se a Tarvisio gli abitanti italiani erano solo 10, contro 6400 austriaci e 1680 sloveni. Uguale destino per il Sud Tirolo, ma almeno lì la geografia sta con noi.
Fummo puniti nel 1947: la Francia pigliò la parte italiana dei passi Monginevro e Moncenisio.

2) SE SAN COLOMBANO ODIA LODI
Un mese fa Sappada (Belluno) è passata dal Veneto al Friuli, con annessi finanziamenti di regione a statuto speciale. Direte: ma sono confini interni, quisquilie.
Invece no. Le diatribe fra regioni, province e anche comuni confinanti possono raggiungere accanimenti a livelli jugoslavi (guerra esclusa). Infatti c'è voluto un voto del Parlamento per spostare Sappada.
Un caso sconosciuto ma clamoroso è quello di San Colombano al Lambro. Quando nel 1992 nacque la provincia di Lodi, i suoi 7.400 abitanti votarono all'80% per rimanere con quella di Milano. Che però dista 40 km, quindi San Colombano è ora una enclave fra le province di Lodi e Pavia.
I fieri 'banini' (fra i quali il cantautore Gianluca Grignani) non potevano accettare di stare sotto i lodigiani.

Uguale destino per l'Alta Valmarecchia: sette comuni (fra cui San Leo di Cagliostro, Pennabilli di Tonino Guerra e Novafeltria) con 18mila abitanti passarono dalle Marche (Pesaro-Urbino) alla Romagna (Rimini) nel 2009. Ma sopravvive dentro di essa l'enclave toscana di Ca' Raffaello (280 abitanti) appartenente al comune di Badia Tedalda (Arezzo): un lascito medievale.

3) TURCHIA-SIRIA: FERROVIA DEL KAISER
Non è vero che tutti gli attuali confini mediorientali furono inventati da Francia e Regno Unito con l'accordo segreto Sykes-Picot del 1916, come accusano gli islamisti.
La frontiera Turchia-Siria, che i curdi hanno recentemente liberato dall'Isis, fu in realtà decisa dal Kaiser tedesco. La Germania infatti all'inizio del 900 costruì la ferrovia Berlino-Baghdad, che da Istanbul correva in territorio ottomano. E prima di scendere nell'attuale Iraq, collegava Aleppo a Mosul.

Ebbene, proprio quel tracciato fu scelto dagli anglofrancesi per separare l'attuale Turchia dalla Siria: il confine corre tuttora per 350 km in parallelo subito a sud dei binari, rimasti sotto controllo turco da Çobanbey a Nusaybin.
Nel 2010 la ferrovia è stata riaperta dopo decenni di abbandono: i treni unirono di nuovo Gaziantep (Turchia) a Mosul (Iraq). Ma dopo due anni il sogno si è infranto con lo scoppio della rivolta contro Assad di Siria. E poi con l'arrivo dell'Isis.

4) DOPPIA ENCLAVE IN OMAN
In mezzo al deserto degli Emirati Arabi Uniti, dietro a Dubai e Abu Dhabi, c'è un polveroso paesone di 3mila abitanti: Madha. È un'enclave dell'Oman sulla strada costiera che porta al Musandam, regione anch'essa controllata dal sultanato di Mascate a nord degli Emirati, proprio sulla punta della penisola araba di fronte all'Iran, sullo stretto di Hormuz.
Di enclaves nel mondo ce ne sono tante. L'Italia ha Campione (Como), circondata dalla Svizzera sul lago di Lugano.
La particolarità di Madha è che dentro di sé contiene una doppia enclave: un quartiere di 40 case, Nahwa, che appartiene agli Emirati.

Altre doppie enclaves si trovano in Olanda (la belga Baarle-Hertog, con dentro le sette mini exclaves olandesi di Baarle-Nassau).
Il record mondiale fino a due anni fa era un'enclave di terzo livello a Cooch Behar, in India: gli indiani avevano un appezzamento dentro una zona bengalese, circondata a sua volta da un'enclave indiana all'interno del Bangla Desh. Ora il puzzle è stato risolto con traslochi pacifici.

5) USA-CANADA: GUERRA DEL MAIALE
La guerra più assurda della storia scoppiò nel 1859 fra Stati Uniti e Canada, allora colonia inglese. Un contadino americano dell'isola di San Juan (fra Vancouver e Seattle, sul Pacifico), contesa dai due Paesi, uccise il maiale di un britannico che gli mangiava i tuberi.
Gli inglesi spedirono ben 2mila soldati su cinque navi da guerra per vendicare l'affronto. Gli americani risposero con 400 militari. Alla fine la disputa fu demandata al Kaiser tedesco, che assegnò l'isola agli Usa.
Insomma, fu solo una scaramuccia senza spargimento di sangue, anche se è pomposamente passata alla storia come Pig War.

In realtà il confine fra Usa e Canada è il più calmo, incustodito, lungo e dritto del mondo. Misura 8.891 km, di cui 2.475 con l'Alaska. Gli altri coincidono col 49esimo parallelo, tranne la parte orientale fra i Grandi laghi e il New England, decisa dalle guerre coloniali anglofrancesi prima dell'indipendenza americana nel 1776.
Quest'anno il premier canadese Justin Trudeau ha invitato i profughi rifiutati da Donald Trump a rifugiarsi in Canada, e allora gli Usa hanno intensificato i controlli alla frontiera, già rafforzati dopo l'11 settembre 2001.

6) LIBIA INGRANDITA DAGLI ITALIANI
Il confine sud della Libia, che oggi è quello che interessa di più l'Italia per il controllo dei migranti, non esisteva nel 1912, quando strappammo la colonia all'impero ottomano. Occupammo solo le coste di Tripolitania e Cirenaica, disinteressandoci dello "scatolone di sabbia" all'interno.

Fu solo nel 1919, alle trattative per la pace di Versailles, che la Francia (allora padrona di tutto il Sahara occidentale) ci cedette la pista che collegava le oasi di Gadames, Ghat e Tummo. Così nacquero gli attuali delicatissimi confini libici con Algeria e Niger.
Nel 1935 il premier francese Pierre Laval, per rabbonire Mussolini, concesse all'Italia anche la striscia di Aozou al confine con l'attuale Ciad. Per la quale negli anni 80, scoperti i giacimenti di uranio, Gheddafi scatenò una lunga guerra al Ciad che se l'era ripresa, fino alla ritirata libica nel 1994.
Altri ampliamenti i fascisti li ottennero da Egitto e Sudan inglese a Giarabub (roccaforte della confraternita cirenaica dei senussiti dove nacque Idris, re prima di Gheddafi) e nel sudest.

7) PAPA BORGIA INVENTÒ IL BRASILE
Appena sette mesi dopo la scoperta dell'America il papa Alessandro VI Borgia, spagnolo, si preoccupò di spartire le nuove terre fra i regni cattolici di Spagna e Portogallo: nel maggio 1493 stabilì che tutte le scoperte al di là di cento leghe da Capo Verde (36esimo meridiano) spettavano alla sua Spagna, e al di qua al Portogallo.
Un anno dopo l'incredibile trattato di Tordesillas spostò più a ovest l'immaginario confine, assegnando ai portoghesi le terre fino al 46esimo meridiano (1.770 km dall'Africa). Nacque così il Brasile, cinque anni prima che venisse scoperto da Amerigo Vespucci, che arrivò solo nel 1499 alla foce del Rio delle Amazzoni. E tutto il resto del Sud America andò alla Spagna.

In seguito i portoghesi si spinsero ben oltre il confine papale, perché l'Amazzonia era facilmente raggiungibile risalendo il fiume. Gli spagnoli in Perù invece erano troppo occupati a razziare gli ori degli Incas per occuparsi di inutili foreste.
Così un nuovo trattato del 1750 definì l'attuale confine occidentale del Brasile con Perù e Bolivia, quand'erano ancora colonie.
Mauro Suttora














Monday, November 25, 2013

D'Annunzio socialista: come Grillo


Pochi sanno che il Vate per un anno fu deputato del Psi, e addirittura candidato nel 1900 per il partito allora di estrema sinistra. Usava toni da Grillo, e riuscì a ingannare i dirigenti socialisti. Ma gli elettori bocciarono questa sua capriola

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 22 novembre 2013

«Sono spinto dal disgusto per gli altri partiti. Non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere. Ciò che esiste adesso è nulla, marciume, morte che si oppone alla vita. Bisogna dapprima saccheggiare tutto».

Beppe Grillo? No: Gabriele D'Annunzio. Era il 1899, e il Vate passò ai socialisti dopo due anni da deputato di destra. Uno Scilipoti ante litteram. Non aspettò neppure la conclusione del mandato per compiere il salto della quaglia, come facevano di solito i trasformisti alla Depretis per salvare il decoro. Lui, principale precursore e ispiratore del fascismo, ci mise poco a passare da un estremo all'altro del Parlamento.

L'occasione fu l'ostruzionismo contro le leggi liberticide del governo Pelloux. «Vado verso la vita!», fu la celebre frase con cui il poeta giustificò il tradimento. Che non fu di poco conto: i socialisti, allora, erano gli estremisti dell'opposizione di sinistra (repubblicani, radicali). Entravano e uscivano di prigione, i cannoni del generale Bava Beccaris li avevano massacrati durante la rivolta del 1898. E proprio D'Annunzio era uno dei loro principali zimbelli: odiavano quel poetucolo nano, strafottente e decadente, idolo della piccola borghesia. Il quale a sua volta non perdeva occasione per irridere le loro idee di eguaglianza.

Si sta concludendo l'anno dannunziano (150° dalla nascita, 1863). Quasi nessuno ha ricordato l'anno socialista del poeta di Pescara, parentesi minima in una turbolenta vita tutta spesa all'estrema destra: dalla beffa di Buccari all'impresa di Fiume, dal volo su Vienna al ritiro nel Vittoriale. 

Ma, soprattutto, risulta incredibile l'infatuazione dei massimi dirigenti socialisti, dal direttore del quotidiano Avanti! Leonida Bissolati al segretario Filippo Turati, per il Vate individualista ed esibizionista. Il quale nei pochi mesi in cui sventolò la «bandiera color vermiglio» (gli dava noia chiamarla rossa) non abbandonò affatto le proprie idee da superuomo nietzschiano. Ciononostante, il Psi si lasciò prendere da un incomprensibile entusiasmo per il convertito. Un po' come oggi, quando chiunque a destra si opponga a Silvio Berlusconi (da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano) viene immediatamente rivalutato e portato sugli altari dal Pd.
 
Gli unici a mantenere un po' d'equilibrio furono gli elettori di sinistra: fecero subito giustizia di quella banderuola arrogante, bocciandolo nel collegio fiorentino dove il Psi lo aveva candidato nelle politiche anticipate dell’agosto 1900.
 
Ricostruiamo questa grottesca vicenda 'contro natura' grazie a documenti inediti o dimenticati rinvenuti dal professor Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, che sta pubblicando il libro D'Annunzio socialista. «Il poeta, eletto deputato nel 1897 per la destra in un collegio della sua terra d'origine, Ortona in provincia di Chieti», ricorda Alosco, «si batteva per il ripristino della grandezza della patria sul modello di Roma imperiale. Anelava alla supremazia di una classe dominante che possedesse virtù aristocratiche, appannate dal dominio della borghesia bottegaia. Nazionalista, disprezzava profondamente ogni principio democratico».

Cosa provocò, allora, il voltafaccia del 1899? «L'ostruzionismo della sinistra contro i provvedimenti straordinari proposti dal governo del generale Luigi Pelloux», spiega il professor Alosco, «al quale in giugno si unirono anche i liberali illuminati di Giolitti e Zanardelli. L'ostruzionismo era un metodo fino ad allora sconosciuto nelle nostre aule parlamentari. Ma era giustificato dalla gravità delle leggi in votazione: domicilio coatto ripristinato anche per motivi politici, polizia che poteva vietare riunioni in luoghi pubblici, scioglimento di associazioni ritenute sovversive, impiegati pubblici militarizzati, restrizioni alla libertà di stampa».

Fu quest'ultimo provvedimento a urtare la suscettibilità di D'Annunzio, che scriveva da anni su giornali nazionali: il governo non poteva limitare la sfera degli uomini di pensiero. Dopo mesi di grandi turbolenze, il 23 marzo 1900 votò anche lui contro il governo. Più per motivi estetici che politici. Il giorno dopo, infatti, aderì ufficialmente all'Estrema sinistra, accolto da un'ovazione, con queste parole: «Da una parte vi sono molti morti che urlano, dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d'intelletto, vado verso la vita».

Tre giorni dopo D’Annunzio riprende la metafora vivi/morti, oggi cara a Grillo, in un articolo sul Mattino di Napoli diretto dal suo amico-nemico Edoardo Scarfoglio. Poi vota un ordine del giorno per la scuola laica. Tanto basta ai giovani socialisti fiorentini per mandargli subito un telegramma: «Studenti plaudono vostro atto generoso osato in mezzo tanta viltà».

Il Vate si sente già un capo della sinistra. Sull'ostruzionismo dichiara a un giornale inglese: «Non fuvvi battaglia, ma una ritirata che vale più di una battaglia […] Non ho alcuna speranza nella pacificazione invocata. Se avvenisse non potrebbe essere sincera». Non sembra il Berlusconi di oggi?

Il governo comunque, indebolito, per ridimensionare la sinistra scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Il Psi candida D'Annunzio a Firenze, dove il poeta risiede da due anni nella villa La Capponcina, a Settignano.

L'Avanti! di Bissolati si sbrodola: «L'adesione di D'Annunzio all'Estrema ha un alto significato. L'impulso intellettuale che spinse il finissimo artista a correre con noi sta ad indicare quanto l'azione dell'Estrema risponda alle ragioni della dignità civile». Precisa: «Da D'Annunzio ci separa il concetto che noi abbiamo della vita sociale. Ma ad esso ci uniscono il bisogno di libertà e l'esigenza di condizioni civili che assicurino il pieno e rigoglioso sviluppo dell'individuo, così come del corpo sociale».

Nei mesi seguenti l'organo socialista accentua l'ammirazione per il Vate: «Artista superiore e illustre», «Figura gloriosa di letterato, poeta, commediografo, romanziere, viva e fulgida gloria d'Italia». Nota il professor Alosco: «L'Avanti! dà più spazio a lui che a esponenti di primo piano del partito come Andrea Costa, cui dedica poche righe di cronaca dei comizi. Ma, soprattutto, pubblica in prima pagina suoi articoli e ampie recensioni delle sue opere. Nei titoli usa perfino lo stile aulico dannunziano: 'secondo assalto' invece di ballottaggio, 'vigilia d'armi', 'dopo la lotta'». E pazienza se il Psi, pacifista, detesta tutto ciò che sa di militarismo.

D'Annunzio pubblica il libro Il Fuoco? Bissolati gli regala un lungo articolo in prima. «Del tutto inusitato in un giornale politico, figurarsi in quello del partito socialista», si sorprende Alosco. Il Vate ricambia sull'unico terreno comune che trova con la sinistra: scrive un'ode a Garibaldi. E nei comizi tesse elogi degli agricoltori.

Anche Turati considera D'Annunzio un rivoluzionario sia nell'arte, sia nel sociale. Aveva scritto infatti già nel 1881 sul giornale La Farfalla: «Se lo lasciano fare è capace del suo bravo colpo di stato artistico, sconvolgendo gli ordini e le gerarchie costituite». E l'anno dopo: «Coscientemente o incoscientemente, è socialista e ribelle».

Ciononostante, l'Inimitabile al voto viene sconfitto: il conte di destra Tommaso Combray Digny raccoglie quasi il doppio dei suoi suffragi, 1.158 contro 619. D'Annunzio si consola solo per aver raddoppiato i trecento voti del proprio predecessore candidato di sinistra.
    
Dopo il disastro l'infatuazione socialista scema. D'Annunzio dice al Times dopo la sconfitta: «Credete che io sia socialista? Io sono sempre lo stesso; fra quella gente e me esiste una barriera. Sono e rimango individualista ad oltranza, individualità feroce. Mi piacque entrare un istante nella fossa dei leoni, ma vi fui spinto per disgusto degli altri partiti. Il socialismo in Italia è un'assurdità. Da noi non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere». E via, verso nuove avventure. Ingrato.
Mauro Suttora

Friday, April 05, 2013

Gaetti, senatore m5s ex leghista

Senatore grillino ex leghista
NDO' COJO, COJO

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 5 aprile 2013

C’è un ex leghista fra i 54 senatori del Movimento 5 stelle: Luigi Gaetti, medico 52enne eletto a Mantova. Consigliere comunale del Carroccio dal 2000 al 2005 a Curtatone, paesone di 14 mila abitanti famoso per la battaglia contro gli austriaci del 1848. Ne erano all’oscuro tutti, fra i grillini in Lombardia. Gaetti infatti non ha menzionato questo suo imbarazzante trascorso nel curriculum che tutti i candidati alle primarie avevano dovuto mettere online. Data l’idiosincrasia dei grillini per i riciclati, difficilmente avrebbe potuto racimolare i 144 voti che gli sono bastati per approdare a Roma (sette in più, comunque, del pavese Luis Orellana, candidato M5S alla presidenza del Senato).

Trombato alle regionali del 2010 con il movimento di Grillo, l’instancabile Gaetti ci riprova l’anno dopo alle provinciali di Mantova. Altro passo falso secondo le idee del M5S, che non si è presentato a quelle elezioni perché contrario alle province. E nuova bocciatura con una lista locale ecologista che prende solo il tre per cento.

Ma il caparbio dottore non si dà per vinto e cambia per la terza volta cavallo: torna ai 5 stelle grazie a Grillo che permette la candidatura alle primarie per Camera e Senato lo scorso novembre a chi si era già candidato in passato. Questa volta ce la fa. Secondo le regole M5S, però, l’attuale è il suo secondo mandato, quindi non è più rieleggibile. Quale sarà, allora, il prossimo approdo di questo simpatico rabdomante della politica? A Roma hanno già coniato un soprannome per Gaetti: «Ndo' cojo, cojo» («Dove colgo, colgo»)

Friday, December 07, 2012

La democrazia secondo Grillo

VITA QUOTIDIANA NEL MOVIMENTO 5 STELLE RACCONTATA DA UN GIORNALISTA CHE SI È ISCRITTO E PARTECIPA ALLE ATTIVITA'

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012

Maledetto neon. Quello nella sala sotterranea dell'albergo La Rotonda di Saronno (Varese), dove il 18 novembre partecipo alla conferenza regionale lombarda del Movimento 5 Stelle (M5S), è squallido quanto la luce bianca da obitorio che quarant’anni fa mi fece scappare dalla mia prima riunione politica, al ginnasio di Bergamo.

Sono un "grillino". Qualche mese fa mi sono "registrato" nel portale di Beppe Grillo: un po' per simpatia personale, un po' per curiosità professionale. È gratis, basta mandare la scansione di un documento. E ora eccomi qua a fare la vita del militante semplice, anzi del "cittadino attivo" come si dice in grillese. 

Quasi tutta l'attività del movimento si svolge online, questa è una delle rare riunioni in cui ci si incontra di persona. Delusione: poche donne e giovani, maggioranza di maschi 40-50enni. Siamo 200, molti sono attirati dalla possibilità di candidarsi alle regionali lombarde anticipate del 10 marzo.

Per fortuna Grillo ha ristretto la candidatura alle politiche a chi era già in lista nelle elezioni passate: un giusto riconoscimento agli ante-marcia, per evitare l'assalto degli opportunisti. Alle regionali invece possono candidarsi tutti i registrati al 30 settembre. Risultato: lo hanno fatto in oltre 300 per gli 80 posti da consigliere regionale lombardo. 

Perché questa valanga? Anche se gli eletti M5S si ridurranno lo stipendio da 11mila a 2.500 euro netti mensili, sono soldi appetibili per molti: un affare da 600mila lordi in dieci anni, visto che un'altra regola di Grillo è il limite di due mandati per gli eletti. Questo tetto sembra a tutti l'antidoto perfetto per evitare la professionalizzazione dei «portavoce del movimento» (come vengono definiti pudicamente gli eletti): «Massimo dieci anni e poi fuori dai c…», ribadisce sempre il simpatico Beppe.

«Ma lo sapete che gli eletti radicali e verdi trent'anni fa ruotavano a metà mandato?», provo a proporre. «Erano quattro volte più "democratici" di noi. A casa dopo due anni e mezzo, sostituiti dai primi dei non eletti. Se vogliamo evitare la nascita di un'altra casta dobbiamo fare così anche noi, perché dopo dieci anni di politica a tempo pieno è quasi impossibile tornare al lavoro di prima». Qualcuno è d'accordo; ma Grillo ha deciso per i due mandati, e pochi hanno voglia di contraddirlo riaprendo la questione.

In luglio ho partecipato al voto semestrale di conferma per il consigliere comunale M5S di Milano Mattia Calise, 22 anni. Tutti gli eletti lo devono fare. Una sala di periferia, diretta streaming sulla sua relazione, poi voto online nei tre giorni successivi. Promosso con 235 sì e un solo no, «per non sembrare il politburo di Breznev».

Una sera sono andato col mio consigliere di zona 4 a una riunione sul verde nell’area dove non verrà più costruita la Biblioteca europea di Porta Vittoria, di fronte a casa mia. È arrivato in bici sotto la pioggia: bene, un politico che pratica quello che predica. Preso dall’entusiasmo, qualche giorno dopo l’ho aiutato a organizzare un banchetto di propaganda nel quartiere Santa Giulia (Rogoredo), martoriato dalla speculazione edilizia.

L’8 settembre faccio un salto a una manifestazione in piazza XXV Aprile che ripete la richiesta del primo Vaffa-day, cinque anni fa: via i pregiudicati dal Parlamento. Purtroppo c’è poca gente, e in più tanto nervosismo perché è appena scoppiato il caso di Giuseppe Favia, consigliere regionale M5S emiliano beccato in un fuorionda di Piazza pulita ad accusare Grillo e il suo consulente Gianroberto Casaleggio di ogni nefandezza.

Mi stupisco: avevo intervistato Favia pochi mesi prima, era la punta di diamante del movimento. I militanti sono assediati dai giornalisti che chiedono se è vero che nel M5S manca la democrazia interna, come denunciato da Favia.

Il fatto è che in quasi tutti i grillini c’è un fervore palingenetico: sono convinti di essere i primi a voler «fare politica in modo pulito». Io invece ne ho già visti tanti, con questo lodevole proposito. Non so se è un primato da guinness (o da ricovero), ma ho partecipato dall'interno a tutti i movimenti "antipolitici" degli ultimi 40 anni: extraparlamentari di sinistra, radicali, verdi, leghisti (frequentati per conto di Vittorio Feltri, mio direttore all'Europeo), dipietristi.

Con una certa regolarità infatti, ogni 8-10 anni, in Italia nascono formazioni che proclamano di essere «diverse». Da tutti gli altri partiti del passato, del presente e anche del futuro. Il M5S non sfugge a questo ottimismo eroico da stato nascente: «Non siamo un partito, vogliamo la democrazia diretta, permettiamo ai cittadini di decidere in prima persona». 

Il programma, in realtà, assomiglia molto a quello radicale e verde di 30-40 anni fa: no al finanziamento pubblico (il primo referendum radicale - perso per poco – risale al 1978, quello vinto al '93); sì a energie alternative e raccolta differenziata dei rifiuti, no al nucleare (primo referendum radicale tentato nel 1980, vinto con i verdi nell'87, rivinto l'anno scorso), no a inceneritori e grandi opere (Tav, ponte di Messina).

Poi c'è il rifiuto della forma-partito. I verdi ne hanno sempre aborrito sia il nome (nacquero come "liste” verdi nell'85) sia le procedure: «Facciamo politica in modo diverso, siamo biodegradabili», promettevano, fino al degrado poco bio di Alfonso Pecoraro Scanio nel 2008. 

Anche i radicali hanno sperimentato un partito libertario, "liquido": congresso annuale aperto a tutti, tessera perfino a Cicciolina e al capo della 'ndrangheta Giuseppe Piromalli. La parola «partitocrazia» è © di Marco Pannella. Il quale, proprio come Grillo, comanda col carisma. Senza espulsioni, però; mentre Beppe ha già fatto fuori metà dei suoi quattro consiglieri regionali eletti appena due anni fa. «Più che carisma, caserma», mormora qualcuno.

Tutti i movimenti contestatori hanno avuto leader forti: i sessantottini Mario Capanna e Adriano Sofri, i radicali Pannella ed Emma Bonino, i verdi Alex Langer e Grazia Francescato. Per non parlare di Umberto Bossi e Antonio Di Pietro, che hanno eliminato tutti gli avversari interni.

È per questo che oggi osservo con tenerezza il crescendo di purghe con cui Grillo tartassa i suoi eletti. Il M5S non è ancora entrato in Parlamento, non ha tessere, quote d’iscrizione, soldi pubblici, sedi, non ha neppure uno statuto (solo un “non Statuto” proprio per dileggiare la burocrazia dei partiti tradizionali), ma lui lancia anatemi con l’unico risultato di rendere famose le vittime: Favia, poi Federica Salsi (consigliere comunale a Bologna) perché è andata a Ballarò, infine il consigliere regionale piemontese Fabrizio Biolé.

Nelle nostre riunioni non se ne parla. Gli incontri sono sempre molto operativi, “concreti”: bisogna organizzare i banchetti o i criteri per le liste elettorali, le “graticole” per selezionare i candidati o la lista dei “referenti” provinciali del gruppo regionale comunicazione, sottogruppo ufficio stampa.

Non si parla quasi mai di politica, in realtà. Per quello ci sono i post quotidiani di Grillo sul suo portale nazionale. Scritti a volte da lui (o chi per lui: alcune finezze lessicali come “mesmerismo mediatico”, nel famoso post sul punto G della Salsi del 31 ottobre, non gli appartengono) o appaltati ad altri: il polemista Massimo Fini, l’anarchico Ascanio Celestini, l’economista della “decrescita felice” Maurizio Pallante, l’esperto di servizi segreti Aldo Giannuli, il prof universitario di matematica torinese Beppe Scienza che vent’anni fa dava consigli ai risparmiatori sull’Europeo. Ora fustiga le banche, e in effetti è stato uno dei pochi a prevedere la fregatura delle pensioni integrative private rispetto alle vecchie liquidazioni garantite dallo stato. Paolo Becchi, docente di Filosofia del diritto a Genova, ha candidamente confessato a Piazza pulita che sta con Grillo perché è l’unico che gli dà retta.

Nel variopinto parterre dei maitres-à-penser grilleschi ogni tanto s’intrufola qualche pataccaro, come l’attempato blogger romano Sergio Di Cori Modigliani diventato famoso lo scorso luglio per la “bufala Hollande”: un post in gran parte inventato da lui in cui magnificava risultati apparentemente ottenuti dal nuovo presidente francese nei primi cento giorni di governo (da una presunta abolizione totale delle auto blu a stipendi tagliati del 40% agli alti dirigenti statali). Per giorni impazzò sul web, rimbalzato dagli utenti di Facebook, finché qualcuno si prese la briga di controllare le fonti e scoprì il falso. È diventato un caso di scuola sulla capacità manipolatoria e autosuggestiva della Rete.

E qui si arriva al punto dolente. La cosa che m’infastidisce di più nel M5S è la fede assoluta in internet. «La Rete risolve ogni problema», tuona Grillo dai palchi dei comizi, ed è piacevole starlo ad ascoltare. «Grazie alla Rete scopriremo gli arrivisti che cercano di fare carriera nel M5S», dicono sicuri i miei compagni di riunione. Poi però basta che si candidi un qualsiasi Gianni Colombo a Milano, lo si googla per controllare e, panico: ce ne sono centinaia! Come scoprirne i passati misfatti, le candidature in altri partiti? 

Il povero Biolé è stato fatto fuori perché aveva già fatto il consigliere comunale in una lista civica apartitica del  suo paesino di 500 abitanti sulla montagna cuneese negli anni ’90, volontario ambientalista benemerito con vent’anni d’anticipo rispetto a molti grillini neofiti; ma  oggi, a scoppio ritardato di due anni, è diventato un reprobo da espellere, con tanto di lettera degli avvocati Squassi e Montefusco di Milano per conto del signor Grillo Giuseppe, “proprietario unico del marchio 5 Stelle”.

«Non ci può essere democrazia diretta sotto un dittatore», taglia corto il mio amico Luciano Lanza, vecchio libertario, fondatore di A-Rivista anarchica. Ci rimango male, le mie speranze vacillano.
     
«Di questo discuteremo in rete», mi rispondono gli attivisti M5S quando cerco di parlare per una volta non virtualmente, nella riunione di Saronno. «Immagino sia proibita la propaganda personale dei candidati» avevo detto, «perché ho visto orrendi ‘santini’ in Sicilia, e anche qui a Milano l’anno scorso alle comunali era permessa. Niente guerra intestina delle preferenze, spero, e inoltre non vogliamo rischiare che i clan della ’ndrangheta nell’hinterland appoggino qualche candidato sfuggito alla nostra attenta selezione…»

Niente da fare. Non c’è mai tempo per parlare guardandosi negli occhi. Solo web, computer e smartphones per gente sempre “connessa”. Ma connessa a cosa, mi domando. Sempre lì a smanettare come zombies. È online che si svolge la vita vera dei grillini, mica nella realtà così deludente, catastrofica e piena di ladri… Eppure uno dei nostri ispiratori è Ivan Illich, il cantore della convivivialità.

Grillo predica la Rete non più come mezzo ma come fine, e i seguaci più pedissequi la mettono sull’altare come i rivoluzionari francesi sostituirono Dio con la Dea Ragione, a fanatismo inalterato.
Così per seguire il M5S ora devo collegarmi con sei piattaforme diverse: il portale di Grillo, i meetup regionale e comunale, Pbworks, Facebook, Googlewiki per discutere e infine Liquid Feedback per votare.

Una sovrabbondanza elettronica ci succhia via la vita, ci fa litigare con mogli la sera perché sospettano che chattiamo nei siti erotici, o fa crollare drasticamente le nostre produttività sul luogo di lavoro.
Detto questo, ammetto che Liquid Feedback è geniale. È un sistema di votazione adottato dal partito tedesco dei Pirati, ma potrebbe esserlo anche in ogni condominio o consiglio di zona, su su fino all’Europarlamento. Se Clistene o Pericle lo avessero avuto, altro che agorà dell’antica Atene. 

Forse si avvererà la profezia di Erich Fromm: nel ’76, in Avere o essere, propose di votare con referendum sulle dieci questioni più importanti ogni anno, come gli svizzeri nella piazza del cantone di Appenzell, evitando l’intermediazione parassitaria dei politici a tempo pieno. «La politica, come l’amore, è troppo bella per lasciarla a professionisti», diceva lo slogan che invitava alla partecipazione negli anni ’70.

Quindi, ora ci riprovo. Dopo aver frequentato e votato per sessantottini, radicali, verdi, leghisti e dipietristi, mi affido abbastanza disperato a Grillo. Perché, nonostante tutte le critiche e quindi anche questo articolo, il M5S mi sembra l’unica cosa nuova nella vita pubblica italiana oggi. Probabilmente sbaglio, e dopo la sesta illusione arriverà come sempre la delusione. In effetti, il neon delle riunioni è orrendo come 40 anni fa.
Mauro Suttora

Friday, September 07, 2012

Il miglior vino rosso d'Italia

È GIOVANE, PUGLIESE, LOW COST
Gianfranco Fino dal 2004 produce Es, Primitivo di Manduria. Quest'anno in cima a tutte le classifiche

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 7 settembre 2012

Da zero alla vetta in soli sette anni. C’è riuscito qualcun altro, al mondo? Gianfranco Fino, 47 anni, enologo della scuola di Locorotondo (Bari), nel 2004 si è messo in proprio. Con la moglie 42enne Simona, avvocato di Taranto, ha comprato poco più di un ettaro di antica vigna di Primitivo a Manduria.

È nato Es, seimila bottiglie nel 2006. E quest’anno l’Es 2009 è stato votato miglior rosso d’Italia assieme al Sassicaia Tenuta San Guido di Bolgheri. Non da una sola guida, è un’eccellenza per tutte le nostre sei maggiori: Veronelli, Espresso, Gambero Rosso, Slow Wine, Ais (Associazione italiana sommelier) Bibenda e Luca Maroni. Entusiasta quest’ultimo: «L’Es è stratosferico, fuoriclasse di ricchezza e concentrazione assoluta».

Oggi gli ettari sono aumentati a otto e mezzo, e il numero delle bottiglie a 18 mila: alle 15 mila del Primitivo si aggiungono le 3 mila del Negramaro Jo (come Jonio). Solo il prezzo è rimasto più o meno uguale: 38 euro a bottiglia, contro gli 80-300 degli altri blasonati rossi al top (Barolo, Montalcino, Amarone).

«Sono fiero di avere salvato dall’estirpazione vigne locali di 50-80 anni considerate poco produttive», dice Fino a Sette. «Vendendo soltanto l’uva erano antieconomiche, non stavano dentro ai costi. Vinificando, invece, ho realizzato il sogno di mettere in bottiglia qualcosa di mia mano, dopo anni di consulenze. E soprattutto, di portare il nostro vino in tutto il mondo: sapere che è bevuto oltre oceano rappresenta il massimo stimolo a migliorarsi».

Fino ha appena firmato un nuovo contratto per l’export di migliaia di bottiglie a New York e nel New Jersey. E il 60 per cento della produzione va fuori Italia.

Appena terminata la vendemmia 2012, ora la coppia aspetta i verdetti delle nuove guide di quest’anno, in stampa fra settembre e ottobre. Fra tanti successi un’ombra: da due anni il Comune di Manduria non rilascia il permesso per costruire la cantina. Così i Fino sono costretti ad affittare qualche magazzino vicino. «Non dicono no: semplicemente, la pratica non va avanti», dice la signora Fino. Nemo propheta in patria, anche in Puglia.
Mauro Suttora

Friday, August 24, 2012

50 anni di Costa Smeralda

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 17 agosto 2012

Il 22 agosto 1968 Ringo Starr litigò con Paul McCartney e lasciò i Beatles, mentre registravano l'Album bianco nella piovosa Londra. Prese un aereo con la moglie Maureen e fuggì per una settimana dall'amico Peter Sellers in Costa Smeralda. Lì un pescatore gli raccontò che i polpi costruiscono giardini sottomarini con sassi luccicanti. Nacque la canzone Octopus's Garden.

Succedeva così, negli anni '60: il jet set saliva sul jet privato e arrivava a Porto Cervo e Porto Rotondo, appena costruite. "Succede ancora così, in realtà", ci dice il conte Luigi Donà dalle Rose, fondatore di Porto Rotondo: "In queste settimane, come ogni estate, all'aeroporto di Olbia atterrano centinaia di aerei privati".

Sono quelli dei miliardari di tutto il mondo (ora molti russi e arabi) ignari della fine dell'era Berlusconi-Briatore, che continuano a comprare, affittare e affollare ville e yacht in Sardegna. Lontani da clamori e gossip: Carlo De Benedetti ha appena venduto la sua magione di 400 mq per cento milioni di euro (250 mila euro a mq, record mondiale, neanche agli Hamptons) ma non si conosce il nome del compratore.

La Costa Smeralda compie 50 anni. Il principe Karim Aga Khan la inaugurò nel 1962. Due anni dopo nasce Porto Rotondo, che tecnicamente non fa parte della Costa, ma da sempre è considerata gemella e rivale di Porto Cervo.

"All'inizio ci diffidarono legalmente dall'usare il nome 'Costa Smeralda'", ricorda il conte Donà, allora 24enne, "ma i rapporti con l'Aga Khan sono sempre stati ottimi. La nostra fortuna è stata la scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte degli italiani. Andavano alle feste a Porto Cervo e si sentivano tagliati fuori, non parlavano abbastanza bene inglese e francese. E allora compravano casa a Porto Rotondo".

Allora come oggi, i portorotondini veneto-romani d'inverno era facile trovarli a Cortina, mentre Sankt Moritz è più per i portocervini. Ma si sta sempre parlando di ambienti più rarefatti di quelli del Billionaire: miliardari veri, ai quali risulta kitsch frequentare un locale chiamato come loro.

L'idea geniale da parte di Donà fu quella di regalare un appartamento a Monica Vitti e un lotto per villa a Ira Fürstenberg. Vip chiama vip, e presto ecco arrivare a Porto Rotondo Shirley Bassey, Claudia Cardinale, e poi Tognazzi, Morandi, Leroy, Rosi, Krizia...

E adesso? Si sente il cambio di stagione, dopo il ventennio Berlusconi-Briatore sporcato dalle escort? "Non mi faccia parlar male di Berlusconi", si ritrae il conte Donà, "abbiamo bisogno di lui per completare tante cose a Porto Rotondo, dal teatro alla scuola di vela, sub e pittura per 400 bambini..."

In realtà il vero passaggio di era per la Costa Smeralda arrivò vent'anni fa con Tangentopoli: non pochi imprenditori suoi ospiti trascorsero l'estate al fresco (non quello dell'aria condizionata). Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, scelse la villa sarda per i suoi arresti domiciliari.

"Il mio grande rimpianto è non essere riuscito a costruire il campo da golf con hotel annesso", dice il conte Donà. E senza golf niente turismo di lusso in autunno e primavera. La mitica "destagionalizzazione" sognata ma mai realizzata in Costa Smeralda: pieno in luglio-agosto, poi il deserto, contrariamente a Capri, Marbella, Saint Tropez o Portofino.

L'Aga Khan è scappato quando anche a lui hanno vietato il raddoppio del golf del Pevero, e ora hanno rinunciato dopo un decennio pure gli investitori statunitensi. I grandi alberghi e la Marina di Porto Cervo sono stati comprati quattro mesi fa dall'emiro del Qatar.

Ma nonostante Lele Mora, calciatori e veline le spiagge della Costa continuano a essere fra le più belle al mondo, l'acqua è veramente smeralda e pulita, e perfino l'architettura dei Porti Cervo e Rotondo, criticata ai tempi come "finta", dopo mezzo secolo ha acquistato un certo fascino agé.

Peccato i prezzi di aerei e traghetti: "Stanno uccidendo la Sardegna", denuncia il conte Donà, "i voli non dovrebbero costare più di 50 euro". Ma come, i vip non hanno i jet privati? "Negli anni '70 l'aereo per Olbia costava 15mila lire, come una cena. Ora non si può più venire solo per il weekend, il costo è troppo alto anche per un professionista con famiglia, e le ville restano vuote". Le compreranno tutte russi e arabi?
Mauro Suttora

Friday, May 18, 2012

Pio XI assassinato dal padre di Claretta?

Un 'buco' nel diario della Petacci riaccende i sospetti sul medico del pontefice. Dall'agenda dell'amante di Mussolini qualcuno ha strappato le pagine dal 5 al 12 febbraio 1939, e il pontefice morì il 10. Sul tavolo del Papa era pronta l'enciclica contro l'antisemitismo

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 18 maggio 2012

Papa Pio XI morì veramente d'infarto, o fu ucciso? Qualcuno lo sospettò subito, dopo che all’alba del 10 febbraio 1939 Achille Ratti mancò all'improvviso. Certo, era un 82enne cardiopatico. Ma proprio il giorno seguente avrebbe dovuto pronunciare un discorso per il decennale del Concordato. E molti si aspettavano che avrebbe condannato le dittature nazista e fascista, dopo le roventi polemiche dei mesi precedenti sulle leggi razziali.
La scomparsa del pontefice - che aveva sul tavolo di lavoro anche la bozza di un'enciclica contro l'antisemitismo poi accantonata dal successore, Pio XII - fu provvidenziale per entrambi i regimi.

Vent'anni dopo papa Giovanni XXIII fece pubblicare solo in parte la bozza di quel discorso, in cui Benito Mussolini e Adolf Hitler venivano paragonati a Nerone. Nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant, in un memoriale a lui attribuito, avrebbe affermato riguardo alla morte di Pio XI: "Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato". E indicò anche la mano che, se non causò direttamente il decesso, almeno lo favorì o affrettò: quella del medico personale Francesco Saverio Petacci, padre dell'amante di Mussolini Claretta. Ipotesi incredibile, e ritenuta tuttavia plausibile dallo storico Piero Melograni, che ha studiato a fondo quel periodo: «Petacci era un personaggio ricattabile da parte del regime».

Si sperava che i diari di Claretta Petacci, sicuramente autentici e desecretati dall’Archivio centrale dello Stato settant'anni dopo la loro redazione, avrebbero gettato qualche luce in più sul mistero. Al contrario: dall'agenda 1939 qualcuno ha eliminato proprio le pagine su quei giorni di febbraio. Dopo avere controllato la copia originale, conservata negli uffici dell’Eur, abbiamo scoperto una settimana di buco: dal 5 al 12 febbraio. Dal diario sono state chiaramente sottratte una o più pagine.

La prova? Claretta non scriveva tutti i giorni, ma quando lo faceva terminava sempre il racconto della giornata. Invece, come si può vedere, il foglio del 5 febbraio s’interrompe bruscamente, nel mezzo di una frase ("Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna. Poi dice: questi sanno..."). E riprende il 12 febbraio come se nulla fosse, con Mussolini che alle nove e tre quarti telefona a Claretta parlando della salma del papa che vuole andare ad omaggiare a San Pietro: “Vado con mia moglie. È bene anche per il mondo che lo faccia. Ma non farò tardi”. Quindi chi ha strappato i fogli ha lasciato involontariamente traccia della clamorosa manomissione.

Nei diari il duce parla di tutto con l’amante, anche di delicati argomenti politici. È sincero, si lascia andare come non fa neppure a casa propria. E lei riporta fedelmente, quasi maniacalmente, ogni sua frase.
Nelle settimane precedenti il dittatore si era scagliato più volte contro Pio XI, definendolo addirittura "una calamità, nefasto per la religione: peggio di questo papa in questo periodo non poteva capitare [...] Tu non sai il male che fa alla Chiesa. Fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e [ora] siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto" (8 ottobre '38).
E il giorno dopo, ancora più chiaro: "Porci ebrei, li ucciderò tutti". Anche Galeazzo Ciano nel suo diario scrive che Mussolini il 14 dicembre 1938 ebbe uno scatto d’ira contro il papa, di cui si augurò la morte.

Ma è possibile che Mussolini abbia fatto sopprimere Pio XI tramite il dottor Petacci? Quel che è quasi impossibile, è che nei diari di Claretta non si accenni mai alla vicenda. Soprattutto dati il ruolo di archiatra pontificio ricoperto dal padre e la familiarità che si era instaurata con Mussolini, al quale a sua volta Claretta raccontava le proprie vicende domestiche. Il duce s’interessava a Petacci, lo faceva scrivere sul Messaggero, voleva nominarlo senatore.

L’eliminazione delle pagine scottanti è quindi sicura. Difficile invece stabilire quando avvenne: prima che Claretta in fuga dal lago di Garda nell’aprile ‘45 consegnasse i diari all’amica contessa Rina Cervis? O dopo che furono ritrovati dai carabinieri, cinque anni più tardi, sotterrati nel giardino della contessa a Gardone (Brescia)?

E chi li purgò dei fogli ritenuti imbarazzanti? Claretta stessa, oppure le autorità italiane, oppure i servizi segreti alleati (americano, inglese), ai quali erano stati fatti leggere prima di seppellirli di nuovo per sette decenni nell’Archivio romano in nome della privacy.

L’unico e ultimo erede Petacci è il 70enne Ferdinando, figlio di Marcello (il fratello di Claretta ucciso a Dongo). Vive in Arizona e difende la memoria del nonno: “Perché avrebbe dovuto uccidere un amico che curava da quand’era cardinale, e che per lui era una gallina dalle uova d'oro, la massima referenza? Per fare un favore a Mussolini?”.
Mauro Suttora