Insomma, Sarkozy ha tante colpe e le sta pure pagando. Ma basta, per favore, con la frottola di un suo complotto anti-italiano in Libia.
Wednesday, August 02, 2023
Basta fake news. Sarkozy non "attaccò" la Libia
Monday, November 28, 2022
Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano
Monday, October 17, 2022
Sorpresa: un libico giudica la Libia fascista
Per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (ed. Franco Angeli), di Mustafa Rajab Younis. Sul fascista più famoso, in Italia e nel mondo, dopo il duce
di Mauro Suttora
HuffPost, 17 ottobre 2022
Nel profluvio di rievocazioni per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (Franco Angeli). Prezioso per due ragioni. L'argomento: Balbo è il più famoso dei quadrumviri della marcia del 28 ottobre 1922. Alla quale, ricordiamolo, Mussolini non partecipò: si nascose nella casa di campagna della sua amante Margherita Sarfatti a Cavallasca (Como), pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male.
Balbo, appena 26enne ma già ras dell'Emilia-Romagna, fu quindi il vero capo della marcia. E intervenne con decisione negli scontri del quartiere romano di San Lorenzo, dove la colonna fascista di Giuseppe Bottai era stata attaccata. Fondatore dell'Aeronautica, ministro dell'Aviazione, all'inizio degli anni '30 Balbo divenne il fascista più famoso dopo il duce, in Italia e nel mondo, grazie alle sue trasvolate oceaniche.
Anche per questo Mussolini, geloso, nel 1934 lo tolse da ministro e lo esiliò in Africa, come governatore della Libia. E qui inizia il libro, prezioso anche per il suo autore: Mustafa Rajab Younis, docente libico di storia contemporanea all'università di Tripoli. Il quale affronta con equilibrio un argomento controverso, senza lasciarsi trasportare da una condanna pregiudiziale della sciagurata avventura coloniale, che ha pervaso la storiografia italiana più recente (Rochat, Del Boca).
Il professor Younis descrive meticolosamente i sei anni e mezzo di 'regno' di Balbo in Libia, che quando arrivò era ancora divisa fra Tripolitania e Cirenaica, com'è tornata a essere di fatto oggi. Un'avventura che termina tragicamente il 28 giugno 1940, quando Balbo viene ucciso in volo per sbaglio dalla nostra contraerea nei primi giorni della Seconda guerra mondiale. Younis non crede ai sospetti di un abbattimento voluto: "Fu un incidente casuale".
Di nemici comunque in Italia Balbo ne aveva parecchi. Anche perché la sua fama era ulteriormente aumentata in Libia, dove si comportava da vicerè invitando giornalisti da tutto il mondo a feste da mille e una notte nelle sue sfarzose residenze. Il suo governo della Quarta sponda fu facilitato dalla fine delle ribellioni senussita e di Al Mukhtar, che avevano funestato i primi due decenni della colonia conquistata nel 1911 (guerra avversata dall'allora pacifista Mussolini, tanto da finire addirittura in carcere con Nenni).
"Younis valuta con obiettività le realizzazioni dell'epoca di Balbo in Libia", scrive il professor Andrea Baravelli nell'introduzione al libro, che viene presentato il 18 ottobre alle 17.30 nella biblioteca Cabral di Bologna. "Abitazioni, strade, acquedotti, scuole, consultori medici: un insieme sbalorditivo di opere che avrebbe consentito la realizzazione del vecchio sogno di popolamento su larga scala della Libia, stravolgendo equilibri secolari e sancendo la definitiva dipendenza delle genti arabe".
Nonostante la sua strada litoranea Balbia di 1800 chilometri il gerarca di Ferrara non fu un illuminato difensore dei diritti civili, anche se si oppose alle leggi razziali e voleva dare la cittadinanza ai libici, secondo le usanze dell'impero romano: era semplicemente un bravo organizzatore e ottimo propagandista.
Come scrive Younis, oltre a favorire l'insediamento di 20mila contadini italiani, Balbo sviluppò il turismo, costruendo grandiosi alberghi per i visitatori di Leptis Magna. Mancò di poco la scoperta del petrolio, e si sentiva in concorrenza con i colonizzatori francesi in Tunisia e gli inglesi in Egitto. Finite le tirate nazionaliste di Gheddafi, ora anche gli storici libici esaminano con equanimità luci e ombre dell'occupazione italiana della loro terra.
Monday, January 01, 2018
Sette confini per Sette
Tutti i confini, però, condividono una caratteristica: sono carichi di storia.
Quelli naturali coincidono con mari, fiumi, monti. Gli altri invece, arbitrari, risultano da secoli di lotte, battaglie, innumerevoli morti.
Perché, per esempio, l'Italia finisce a Chiasso, e non dieci chilometri più a sud o a nord? (Risposta: battaglia persa dai 'pacifici' svizzeri a Marignano/Melegnano nel 1515, la più cruenta dell'epoca).
E qualcuno sa che la frontiera di Ventimiglia fu decisa da Napoleone nel 1808, quando assegnò il paese di Garavano a Mentone?
Molti sono ancor oggi disposti a morire, per un confine. Soprattutto se lo considerano sacro (Gerusalemme).
Qui vi raccontiamo 7 storie (come 7) meno drammatiche, ma speriamo interessanti e curiose.
1) PIPÌ NEL MAR NERO
Ci sono tre posti, in Italia, dove la nostra pipì finisce nel mar Nero. Tarvisio (Udine), San Candido e Sesto in val Pusteria (Bolzano) e Livigno (Sondrio) si trovano infatti al di là dello spartiacque alpino. Quindi il loro bacino idrografico, per dirla con gli scienziati, non è quello del Po. I torrenti che bagnano questi quattro comuni (con annesse fogne e depuratori) affluiscono nei fiumi Inn e Drava, e da lì nel Danubio fino alla Romania.
Non sono l'unica eccezione al crinale delle Alpi come frontiera. Ben più grande è il canton Ticino: italiano per geografia e lingua, ma svizzero da mezzo millennio.
Tarvisio e San Candido invece sono italiani da un secolo. Facemmo un po' i gradassi dopo la vittoria del 1918: ai generali piace controllare le valli dall'alto, così li strappammo all'Austria. Anche se a Tarvisio gli abitanti italiani erano solo 10, contro 6400 austriaci e 1680 sloveni. Uguale destino per il Sud Tirolo, ma almeno lì la geografia sta con noi.
Fummo puniti nel 1947: la Francia pigliò la parte italiana dei passi Monginevro e Moncenisio.
2) SE SAN COLOMBANO ODIA LODI
Un mese fa Sappada (Belluno) è passata dal Veneto al Friuli, con annessi finanziamenti di regione a statuto speciale. Direte: ma sono confini interni, quisquilie.
Invece no. Le diatribe fra regioni, province e anche comuni confinanti possono raggiungere accanimenti a livelli jugoslavi (guerra esclusa). Infatti c'è voluto un voto del Parlamento per spostare Sappada.
Un caso sconosciuto ma clamoroso è quello di San Colombano al Lambro. Quando nel 1992 nacque la provincia di Lodi, i suoi 7.400 abitanti votarono all'80% per rimanere con quella di Milano. Che però dista 40 km, quindi San Colombano è ora una enclave fra le province di Lodi e Pavia.
I fieri 'banini' (fra i quali il cantautore Gianluca Grignani) non potevano accettare di stare sotto i lodigiani.
Uguale destino per l'Alta Valmarecchia: sette comuni (fra cui San Leo di Cagliostro, Pennabilli di Tonino Guerra e Novafeltria) con 18mila abitanti passarono dalle Marche (Pesaro-Urbino) alla Romagna (Rimini) nel 2009. Ma sopravvive dentro di essa l'enclave toscana di Ca' Raffaello (280 abitanti) appartenente al comune di Badia Tedalda (Arezzo): un lascito medievale.
Non è vero che tutti gli attuali confini mediorientali furono inventati da Francia e Regno Unito con l'accordo segreto Sykes-Picot del 1916, come accusano gli islamisti.
La frontiera Turchia-Siria, che i curdi hanno recentemente liberato dall'Isis, fu in realtà decisa dal Kaiser tedesco. La Germania infatti all'inizio del 900 costruì la ferrovia Berlino-Baghdad, che da Istanbul correva in territorio ottomano. E prima di scendere nell'attuale Iraq, collegava Aleppo a Mosul.
Ebbene, proprio quel tracciato fu scelto dagli anglofrancesi per separare l'attuale Turchia dalla Siria: il confine corre tuttora per 350 km in parallelo subito a sud dei binari, rimasti sotto controllo turco da Çobanbey a Nusaybin.
Nel 2010 la ferrovia è stata riaperta dopo decenni di abbandono: i treni unirono di nuovo Gaziantep (Turchia) a Mosul (Iraq). Ma dopo due anni il sogno si è infranto con lo scoppio della rivolta contro Assad di Siria. E poi con l'arrivo dell'Isis.
In mezzo al deserto degli Emirati Arabi Uniti, dietro a Dubai e Abu Dhabi, c'è un polveroso paesone di 3mila abitanti: Madha. È un'enclave dell'Oman sulla strada costiera che porta al Musandam, regione anch'essa controllata dal sultanato di Mascate a nord degli Emirati, proprio sulla punta della penisola araba di fronte all'Iran, sullo stretto di Hormuz.
Di enclaves nel mondo ce ne sono tante. L'Italia ha Campione (Como), circondata dalla Svizzera sul lago di Lugano.
La particolarità di Madha è che dentro di sé contiene una doppia enclave: un quartiere di 40 case, Nahwa, che appartiene agli Emirati.
Altre doppie enclaves si trovano in Olanda (la belga Baarle-Hertog, con dentro le sette mini exclaves olandesi di Baarle-Nassau).
Il record mondiale fino a due anni fa era un'enclave di terzo livello a Cooch Behar, in India: gli indiani avevano un appezzamento dentro una zona bengalese, circondata a sua volta da un'enclave indiana all'interno del Bangla Desh. Ora il puzzle è stato risolto con traslochi pacifici.
5) USA-CANADA: GUERRA DEL MAIALE
La guerra più assurda della storia scoppiò nel 1859 fra Stati Uniti e Canada, allora colonia inglese. Un contadino americano dell'isola di San Juan (fra Vancouver e Seattle, sul Pacifico), contesa dai due Paesi, uccise il maiale di un britannico che gli mangiava i tuberi.
Gli inglesi spedirono ben 2mila soldati su cinque navi da guerra per vendicare l'affronto. Gli americani risposero con 400 militari. Alla fine la disputa fu demandata al Kaiser tedesco, che assegnò l'isola agli Usa.
Insomma, fu solo una scaramuccia senza spargimento di sangue, anche se è pomposamente passata alla storia come Pig War.
In realtà il confine fra Usa e Canada è il più calmo, incustodito, lungo e dritto del mondo. Misura 8.891 km, di cui 2.475 con l'Alaska. Gli altri coincidono col 49esimo parallelo, tranne la parte orientale fra i Grandi laghi e il New England, decisa dalle guerre coloniali anglofrancesi prima dell'indipendenza americana nel 1776.
Quest'anno il premier canadese Justin Trudeau ha invitato i profughi rifiutati da Donald Trump a rifugiarsi in Canada, e allora gli Usa hanno intensificato i controlli alla frontiera, già rafforzati dopo l'11 settembre 2001.
6) LIBIA INGRANDITA DAGLI ITALIANI
Il confine sud della Libia, che oggi è quello che interessa di più l'Italia per il controllo dei migranti, non esisteva nel 1912, quando strappammo la colonia all'impero ottomano. Occupammo solo le coste di Tripolitania e Cirenaica, disinteressandoci dello "scatolone di sabbia" all'interno.
Fu solo nel 1919, alle trattative per la pace di Versailles, che la Francia (allora padrona di tutto il Sahara occidentale) ci cedette la pista che collegava le oasi di Gadames, Ghat e Tummo. Così nacquero gli attuali delicatissimi confini libici con Algeria e Niger.
Nel 1935 il premier francese Pierre Laval, per rabbonire Mussolini, concesse all'Italia anche la striscia di Aozou al confine con l'attuale Ciad. Per la quale negli anni 80, scoperti i giacimenti di uranio, Gheddafi scatenò una lunga guerra al Ciad che se l'era ripresa, fino alla ritirata libica nel 1994.
Altri ampliamenti i fascisti li ottennero da Egitto e Sudan inglese a Giarabub (roccaforte della confraternita cirenaica dei senussiti dove nacque Idris, re prima di Gheddafi) e nel sudest.
7) PAPA BORGIA INVENTÒ IL BRASILE
Appena sette mesi dopo la scoperta dell'America il papa Alessandro VI Borgia, spagnolo, si preoccupò di spartire le nuove terre fra i regni cattolici di Spagna e Portogallo: nel maggio 1493 stabilì che tutte le scoperte al di là di cento leghe da Capo Verde (36esimo meridiano) spettavano alla sua Spagna, e al di qua al Portogallo.
Un anno dopo l'incredibile trattato di Tordesillas spostò più a ovest l'immaginario confine, assegnando ai portoghesi le terre fino al 46esimo meridiano (1.770 km dall'Africa). Nacque così il Brasile, cinque anni prima che venisse scoperto da Amerigo Vespucci, che arrivò solo nel 1499 alla foce del Rio delle Amazzoni. E tutto il resto del Sud America andò alla Spagna.
In seguito i portoghesi si spinsero ben oltre il confine papale, perché l'Amazzonia era facilmente raggiungibile risalendo il fiume. Gli spagnoli in Perù invece erano troppo occupati a razziare gli ori degli Incas per occuparsi di inutili foreste.
Così un nuovo trattato del 1750 definì l'attuale confine occidentale del Brasile con Perù e Bolivia, quand'erano ancora colonie.
Wednesday, November 02, 2011
Come finirà la Libia?
di Mauro Suttora
Tripoli, 23 ottobre 2011
«La morte di Gheddafi non è stata un bello spettacolo. Nessuna morte lo è. Ma non cancella la gioia dei libici per la libertà ritrovata dopo 42 anni di oppressione e otto mesi di guerra eroica».
Il principe Idris al Senussi, nipote ed erede del re deposto da Muammar Gheddafi nel 1969, stava tenendo un discorso in Confindustria a Roma quando è arrivata la notizia della cattura del tiranno: «Non riuscivo a crederci. Ho cominciato a telefonare ai miei parenti a Bengasi, non potete capire la felicità di tutti per la fine della guerra. Poi, certo, sono arrivati i crudi video sulla fine del rais. Ma anche gli italiani festeggiano la fine della dittatura il 25 aprile ‘45 nonostante l’atrocità delle immagini di piazzale Loreto. A Gheddafi abbiamo sempre offerto la via dell’esilio. È stato lui a rifiutarla, a continuare a massacrare il proprio popolo, e a cacciarsi nella trappola di Sirte».
Nessun dittatore aveva mai subìto una fine così ignominiosa. Benito Mussolini venne fucilato, e solo in seguito il suo cadavere fu calpestato dalla folla. L’unico altro tiranno moderno ucciso durante una rivoluzione, il rumeno Nicolae Ceausescu nell’89, fu anch’egli freddato con la moglie. L’irakeno Saddam Hussein è stato impiccato dopo regolare processo. Gheddafi, invece, è stato linciato dai ribelli che lo hanno tirato fuori da un canale di scolo. «Si era nascosto lì come un topo», dicono i libici, ricordando il tremendo discorso di febbraio in cui il colonnello li aveva definiti «ratti, che schiaccerò casa per casa».
Anche Saddam fu scovato dentro a un buco. Ma dagli americani, per sua fortuna. I ragazzotti eccitati che hanno massacrato Gheddafi, invece, nulla sanno delle convenzioni internazionali che vietano di uccidere i prigionieri. Ha 19 anni il miliziano che si fa fotografare orgoglioso brandendo il pistolone d’oro del dittatore. Il quale viene finito alla tempia sinistra dopo mezz’ora di torture, urla, spintoni e sberleffi.
«Cosa fate? Lasciatemi andare, vi posso dare tanto oro, molti soldi», implora il 69enne Gheddafi trascinato sanguinante sul cofano di una camionetta. Gli occhi smarriti di un vitello avviato al macello, non capisce dove siano finite le sue guardie del corpo. Improvvisamente, dopo quattro decenni di dominio assoluto, si trova in mezzo a nemici assetati di sangue. Il suo.
Tutto è successo in pochi secondi. Dopo due mesi d’assedio, Sirte è allo stremo. «Mangiavamo solo pasta e riso, ci nascondevamo elle case abbandonate, avevamo paura della Nato», ha raccontato il capo della scorta di Gheddafi. Che lì, nella sua regione natale, è scappato da agosto, quando Tripoli è caduta. Tutte le favole sul dittatore che scorrazzava qua e là per il deserto erano solo frutto della fantasia impaurita di alcuni suoi sudditi. In realtà i servizi segreti occidentali lo localizzano a Sirte grazie al telefono satellitare Turaya che il colonnello usa per chiamare la tv Rai (!) a Damasco e trasmettere i suoi proclami.
L’ultimo bastione, Bani Walid, è caduto tre giorni prima. Poche centinaia di fedelissimi rimangono asserragliati nel Village 2, sul mare. Mutassim Gheddafi, estremo pretoriano del padre, decide: «Scappiamo verso il deserto». Così, all’alba di giovedì 20 ottobre un convoglio di auto e mezzi militari con mitragliatrici pesanti, antiaeree e lanciarazzi parte sulla strada costiera verso ovest. Nonostante l’assedio, nessun posto di blocco lo intercetta. Ma appena fuori dalla città lo individua un aereo Usa Predator senza pilota, lanciato da Sigonella (Catania) e telecomandato da una base a Las Vegas. Il drone dà le coordinate a due caccia francesi Rafale che si abbassano a mitragliare il convoglio.
Le auto vanno in direzioni differenti. Mutassim viene catturato, filmato mentre fuma tranquillo l’ultima sigaretta in una cella, e poi sgozzato. Suo padre trova riparo sotto il terrapieno della strada, in una di quelle condutture dove l’acqua degli «uadi» defluisce dopo le piogge torrenziali. Presto sopraggiunge una pattuglia di ribelli di Misurata, quelli incattiviti dal lungo assedio subìto in primavera. C’è una violentissima sparatoria. Alla fine Gheddafi viene catturato.
«Cosa vi ho fatto?», biascica il colonnello ormai intontito. «Allahu akbar!», Dio è grande, urlano i ribelli assatanati. Diversi filmano col telefonino, ci sono cinque video in circolazione (per ora). In uno si intravvede un bastone appuntito che viene conficcato nel posteriore di Gheddafi. «Portiamolo a Misurata!», grida qualcuno. E un altro: «Non uccidetelo». Inutile. Arrivano i colpi a bruciapelo, in fronte e allo stomaco.
E adesso, che succederà? La Libia diventerà una tranquilla democrazia come il Sud Africa, o un inferno come la Somalia?
«Io sono ottimista», ci dice il principe Idris, «resteremo uniti e torneremo ai principi democratici della Costituzione del 1951».
Intanto però Mustafa Jalil, ex ministro di Gheddafi e capo del governo provvisorio (il quale esibisce sulla fronte una «zebiba», il callo dei musulmani ferventi che sbattono la testa per terra pregando) dice che verrà applicata la «sharia», la legge islamica.
«In Libia siamo tutti religiosi», tranquillizza il principe, «ma moderati. Non c’è tradizione di fanatismo. Rispetteremo le minoranze e tutte le differenze di genere e di razza. Avremo libertà, tolleranza e democrazia».
«Elezioni per la Costituente entro giugno 2012», promette il premier Mahmud Jibril, «e presidenziali entro giugno 2013».
Intanto, però, non c’è esercito né polizia. Per la Libia scorrazzano varie bande armate: quelli di Misurata e Zlitan, che si considerano città martiri, i berberi orgogliosi di avere liberato Tripoli, i cirenaici che hanno liberato Bengasi, i tripolini che hanno come comandante militare Hakim Belhaj, arrestato in Afghanistan nel 2001… Poco incoraggiante.
I reduci consegneranno le armi e riusciranno a perdonare i 7 mila gheddafiani incarcerati? I giovani esaltati da otto mesi di guerra accetteranno di tornare a una vita normale, noiosa e magari frustrante, o prevarrà la mistica del martire?
Per ora, Tripoli e Bengasi sembrano città tranquille: niente criminalità, e tanto entusiasmo per la ricostruzione. Presto torneranno gli immigrati filippini, egiziani e cingalesi, che lavoravano al posto di molti libici viziati dal petrolio (scuola e sanità gratis, sotto Gheddafi). La speranza di tutti è che i capi della nuova Libia ora non litighino troppo. E, se lo faranno, che almeno dimentichino i mitra.
Mauro Suttora
Wednesday, June 29, 2011
Basta spedizioni all'estero
di Mauro Suttora
Oggi, 22 giugno 2011
Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.
Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».
Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.
In Kosovo da 12 anni: un'eternità
«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».
Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».
Inutile Libano
Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.
Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora
Saturday, May 21, 2011
parla l'unica ministra libica
di Mauro Suttora
per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera
Bengasi, 21 maggio 2011
Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».
Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.
«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.
La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».
Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».
Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».
Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».
A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.
Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».
«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»
Mauro Suttora
Monday, April 25, 2011
Wednesday, April 20, 2011
parla il Mandela libico
dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora
Oggi, 13 aprile 2011
«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».
L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».
È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.
«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».
Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.
Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».
Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».
L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».
Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».
«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».
Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.
«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».
Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».
Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.
Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».
E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».
Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».
Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».
Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».
Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».
Mauro Suttora
Thursday, April 14, 2011
Wednesday, April 13, 2011
Viaggio nella Libia libera
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2011
Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.
«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.
In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.
Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».
Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.
Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.
La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?
Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.
Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.
Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.
Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.
La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?
Mauro Suttora
Wednesday, March 16, 2011
A volte le monarchie sono preziose
di Mauro Suttora
Oggi, 16 marzo 2011
Nella storia recente ci sono casi di monarchie felicemente restaurate dopo le dittature. La più famosa è quella spagnola. Il dittatore fascista Francisco Franco, che governò dal 1937 fino alla morte al 1975, decise di preparare con molto anticipo una transizione morbida dal suo regime a quello della monarchia parlamentare. Per questo volle accanto a sè il giovane Juan Carlos di Borbone, che allevò come successore. Tutto filò liscio, tranne il farsesco tentativo di golpe del tenente colonnello Antonio Tejero nel 1981, che irruppe nell’aula del Parlamento. Fu ripristinata la democrazia con tutte le libertà fonamentali, e la figura del re servì per placare le paure dei franchisti anche dopo l’arrivo dei socialisti al potere.
C’è poi il caso di re rientrati in patria dopo un lungo esilio vincendo elezioni col proprio partito. È accaduto a Simeone di Bulgaria, sovrano dal 1943 al ‘46, e poi premier dal 2001 al 2005.
Nel caso della Libia, un re senussita servirebbe da figura unificante non solo dal punto di vista politico, per conciliare Tripolitania e Cirenaica, ma anche per ragioni religiose.
Thursday, March 10, 2011
Libia: che può fare l'Italia?
Cosa sta succedendo?
1) GUERRA CIVILE
Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.
Cosa può fare l’Italia?
2) NO FLY ZONE
«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.
La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.
C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.
Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).
3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO
I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.
Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.
Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.
4) RIFUGIATI
Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.
Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.
Mauro Suttora
Wednesday, March 02, 2011
Quanti rischi in Libia
Oggi, 2 marzo 2011
Nel Nordafrica è arrivata la libertà. E forse (speriamo) la democrazia. Ma i pericoli sono ancora tanti. Anche per noi
di Mauro Suttora
Evviva: dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia sembra quasi liberatada un regime e avviata verso la democrazia. Ma per noi italiani si aprono molti interrogativi. Ci sarà un'invasione di profughi? Un pericolo terrorismo? Il prezzo della benzina salirà? E le nostre commesse? «L'Unione Europea deve capire che il problema non è italiano, ma continentale», dice l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu. «E questo per due motivi. Primo: l'Italia è il confine sud di tutta l'Europa, una volta entrati da qui c'è libertà di circolazione senza più barriere alle frontiere. Secondo: la stragrande maggioranza degli immigrati entrati ultimamente dalla Tunisia non vuole fermarsi in Italia, ma proseguire verso altri Paesi».
Le rivolte in Libia, Egitto e Tunisia provocheranno una valanga di arrivi? C'è chi parla addirittura di 300 mila profughi. Ma è un'esagerazione. Per gli africani che entrano nel sud di questi Paesi per imbarcarsi dalle loro coste, basta ripristinare con i nuovi governi i precedenti accordi di sorveglianza. Cosa che è stata già fatta con la Tunisia, e che potrà avvenire anche in Libia una volta che la situazione si sarà chiarita. Se invece si teme che una parte dei sei milioni di libici fugga da una guerra civile prolungata e sanguinosa, basterà che l'apposita agenzia Onu installi campi profughi alle frontiere con Egitto e Tunisia. Ma tutta la Libia tranne Tripoli ormai sembra libera, e la vita sta tornando alla normalità. Certo, la capitale ha tre milioni di abitanti, cioè metà della popolazione. Ma i giacimenti petroliferi sono soprattutto in Cirenaica, e la produzione (con relativi introiti) potrà continuare a sostenere i ricchi libici. I quali non pagano pochissime tasse, e hanno scuola e assitenza sanitaria gratuita: non sono certo poveracci in fuga.
TERRORISTI
Il figlio di Gheddafi, Saif el Islam, quando le cose iniziavano a mettersi male aveva sventolato la minaccia islamica: «A Bengasi Al Qaida ha già proclamato il califfato». Nulla di vero, anche se qualche sprovveduto - perfino ai piani alti delle diplomazie europee - ha abboccato. Il che non significa che il pericolo del fanatismo non esista. «Ma in Libia ha sempre prevalso la tradizione senussita », assicura il principe Idris al Senussi , nipote dell'ultimo re e pretendente al trono, «cioè una corrente islamica moderata e aperta alla modernità».
Come in tutte le rivoluzioni, non è la prima impressione quella che conta. Il fatto che adesso in Libia - ma anche in Egitto e Tunisia - non si vedano in giro barbette da fanatico e simboli religiosi, non significa che fra qualche mese possa farsi largo e prevalere una fazione estremista. Anche democraticamente: a Gaza le prime elezioni libere del 2006 sono state vinte da Hamas. Negli Anni 80 pure Gheddafi, come i sauditi e gli Stati Uniti, commise l'errore di finanziare e mandare in Afghanistan dei mujaheddin per combattere gli invasori sovietici. Finita la guerra, Osama Bin Laden e i talebani non deposero le armi. Alcuni guerriglieri di origine libica tornarono in patria, ma furono subito incarcerati da Gheddafi. In Libia quindi negli Anni 90 non si ebbe la lotta integralista che insanguinò l'Algeria. Ma ora gli estremisti sono stati scarcerati (apposta?) dal colonnello, e potrebbero ricominciare a fare proseliti.
LO SCENARIO PEGGIORE
Lo scenario peggiore è quello di una resistenza prolungata da parte di Gheddafi a Tripoli, e di una disintegrazione della Libia fra le diverse tribù e fazioni. In mancanza di un forte potere centrale avrebbero la meglio le bande di predoni del deserto nelle zone meno battute, e la Libia si trasformerebbe in una Somalia. Sarebbe il luogo ideale per l'installazione di cellule e basi di Al Qaeda, come avvenne in Afghanistan negli Anni 90.
BENZINA
La Libia produce 1,8 milioni di barili al giorno di petrolio. Sembra tanto, ma è solo il due per cento dell'estrazione mondiale. Quindi gli aumenti di prezzo sia del greggio, sia della benzina alla pompa, sono solo speculazioni, senza rapporto con la realtà. Sulle quotazioni mondiali non possiamo farci nulla, vengono decise nelle borse di Londra e New York. E scontano il clima generale d'incertezza: se le rivolte si propagassero ai Paesi grandi produttori (Arabia, 12 per cento, o Iran, 5), allora potremmo cominciare a preoccuparci. Vero è che un quarto del fabbisogno delle nostre raffinerie proviene dalla Libia. Ma le petroliere possono sostituire i loro punti di rifornimento.
Quanto alla benzina a 1,55 e il gasolio a 1,43, come sempre i petrolieri scaricano immediatamente gli aumenti sul costo finale. Ma il petrolio raffinato per quella benzina l'hanno comprato ai prezzi vecchi. Quindi ne stanno approfittando per ampliare i loro margini. Dovrebbe intervenire il mister Prezzi del ministero Attività produttive. Anche per il gas, niente paura: ci sono varie e valide alternative di approvvigionamento. E poi si va verso la bella stagione, niente più riscaldamento...
COMMESSE
Sono in ballo 12 miliardi di euro all'anno: la somma di import ed export tra Italia e Libia. Siamo il loro principale partner commerciale. Le nostre principali società coinvolte sono Eni, Unicredit, Prismian, Sirti, Ansaldo, Finmeccanica e Impregilo, e hanno tutte perso in Borsa. Il 2 per cento delle azioni Eni sono in mano a Gheddafi. Il quale possiede un'eguale quota in Finmeccanica (produttore di armi), e addirittura il 7 per cento nella Juventus e nella prima banca italiana, Unicredit. L'azienda di costruzioni Impregilo è impegnata in opere colossali, per un un miliardo di euro. Riuscirà a finirle solo se torna la pace.
Mauro Suttora
Thursday, February 17, 2011
Libia, intervista a Idris Al Senussi
Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"
di Mauro Suttora
Libero, 17 febbraio 2011
«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».
Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.
«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».
C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?
«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».
Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.
Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.
Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.
Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.
Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».
Mauro Suttora
intervista Cnn 21.2.11
Wednesday, February 09, 2011
parla il principe Idris Al Senussi
Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"
Oggi, 9 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».
Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».
Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?
«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».
Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?
«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».
La Libia sembra tranquilla.
«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».
Che è usato anche in Egitto.
«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».
In Marocco c’è calma.
«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».
E in Libano?
«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».
Che cosa può fare l’Italia?
«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».
Si candida a tornare in Libia?
«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».
Mauro Suttora