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Thursday, September 12, 2024

Cinquanta anni fa, l'Etiopia: uno dei peggiori genocidi del Novecento














Quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato contro gli oppositori, per l'Auhrm 700mila morti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 settembre 2024

Mezzo milione di morti: esattamente cinquant'anni fa iniziò in Etiopia uno dei peggiori genocidi del '900. Il 12 settembre 1974, un anno dopo il golpe cileno contro Salvador Allende del generale Augusto Pinochet, un altro militare cacciò il sovrano della dinastia più antica del pianeta: Hailé Selassié, negus negesti (re dei re) etiope.

Il giovane ufficiale Menghistu Hailé Mariam era uno dei golpisti del Derg, movimento comunista nazionalista che poi governò l'Etiopia fino al 1991, dopo il crollo del Muro. Ma, differentemente dal Cile, il colpo di stato di Addis Abeba è quasi dimenticato. Già allora, nessun complesso Inti Etiopiani si esibì nelle nostre piazze.

Eppure, quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato da Menghistu contro gli oppositori. L'Auhrm (African union human rights memorial) aumenta il bilancio a 700mila morti. Cifre che fanno impallidire perfino quelle degli efferati massacri compiuti dagli italiani durante il breve dominio coloniale sull'Etiopia (1936-41): dopo il fallito attentato contro il viceré Rodolfo Graziani la nostra rappresaglia fece tremila vittime secondo Angelo Del Boca, 19mila per uno storico inglese. 

Come Muammar Gheddafi cinque anni prima, anche Menghistu all'inizio era soltanto un primus inter pares fra gli ufficiali golpisti appoggiati da Mosca. Ma nel giro di pochi mesi fece fuori quasi tutti i compagni. Micidiale la sparatoria durante una riunione dei dirigenti del Derg, con decine di ammazzati. 

Il mite imperatore 82enne Hailé Selassié, che la leggenda voleva discendente dopo 225 generazioni dal re ebraico Salomone e dalla regina di Saba, venne imprigionato nel suo palazzo. Ma dopo un anno Menghistu lo fece soffocare con un cuscino e seppellire di nascosto tre metri sotto il pavimento di un bagno adiacente al proprio ufficio. Solo nel 2000 i resti del negus furono trasferiti nella cattedrale di Addis Abeba. E pensare che Menghistu, come tanti ufficiali etiopi, aveva trascorso anni di addestramento nelle accademie militari Usa. Ma dell'America assorbì soprattutto il Black power, cosicché tornato a casa virò a sinistra. Sovietici e cubani lo armarono nella guerra dell'Ogaden contro la Somalia. Negli anni '80 pure l'Italia lo aiutò, per lenire la tremenda carestia del Tana Beles.

Durante i 17 anni del regime di Menghistu il centro del terrore era il carcere di Alem Bekagn, dove furono torturati e uccisi migliaia di dissidenti. Anche comunisti: particolare acribia il dittatore utilizzò nello sterminare gli aderenti ai partiti marxisti non fedeli alla sua linea. Il patriarca della chiesa etiope Teofilo fu segretamente strangolato in carcere tre anni dopo il suo arresto.

Era la stessa prigione di Addis Abeba dove i ribelli etiopi erano stati internati dagli italiani, e poi i nazionalisti eritrei dagli etiopi. Nel 2007 l'edificio è stato rasa al suolo per far posto al nuovo palazzo dell'Ua (Unione africana).

Soltanto nel 2008 l'Etiopia ha condannato a morte Menghistu per genocidio, dopo un processo durato ben dodici anni. Ma il dittatore giá nel 1991 era fuggito nello Zimbabwe, protetto dal suo amico Robert Mugabe. E si trova ancora lì, a 87 anni. Neanche il nuovo governo di Harare lo vuole estradare in Etiopia, dopo la morte di Mugabe. Così probabilmente Menghistu morirà tranquillo nel proprio letto, come il satrapo ugandese Idi Amin Dada o il cannibale centrafricano Jean-Bedel Bokassa. Almeno Pinochet finì i suoi giorni agli arresti domiciliari. 

Wednesday, August 02, 2023

Basta fake news. Sarkozy non "attaccò" la Libia

Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Notizia falsa

di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it , 2 agosto 2023

Mi arrendo, hanno vinto i grillini. Oggi perfino il Corriere della Sera, con un editoriale in prima pagina dell'ottimo Federico Rampini, sostiene che l'Italia fu "vittima di una scellerata decisione francese, quella di Nicholas Sarkozy che nel 2011 ebbe un ruolo determinante per l'attacco militare contro Gheddafi".
Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Fake non solo infondata, ma probabilmente inventata e sicuramente amplificata dai canali Telegram putiniani.
Sarkozy non "attaccò" la Libia. Semplicemente, il 17 marzo di dodici anni fa promosse la risoluzione numero 1973 dell'Onu, assieme a Usa, Regno Unito e Lega Araba, per proteggere i civili di Bengasi che si erano sollevati contro il dittatore nel quadro delle Primavere arabe. Risoluzione accettata anche da Russia e Cina, che si astennero e non misero il veto.
Dopo le cacciate del presidente tunisino Ben Ali e dell'egiziano Hosni Mubarak era arrivato il turno di Gheddafi. Il quale però, più coriaceo, non esitò a inviare i suoi tank contro la folla della capitale cirenaica. Era questione di ore.
Per evitare una strage tipo Srebrenica o Ruanda fu lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy a pressare il riluttante Sarkozy affinché facesse dichiarare dall'Onu una No fly zone sulla Libia. E il presidente francese a sua volta dovette faticare per convincere quello Usa Barack Obama, il quale dopo i fiaschi di George Bush jr in Afghanistan e Iraq non voleva altri coinvolgimenti esteri.
Ma gli Stati Uniti erano gli unici con la capacità tecnica di far rispettare con i suoi aerei la No fly zone sulla Libia. Quindi Obama accettò malvolentieri, con l'assicurazione che non ci sarebbero stati "boots on the ground" per i soldati Usa, niente interventi terrestri.
Perciò è falsa la vulgata grilloputiniansovranista di un Sarkozy giustiziere di Gheddafi. All'implementazione della risoluzione Onu sulla Libia partecipò un'ampia coalizione di Paesi, comprese le pacifiste Svezia e Norvegia.
La prova che la Francia non ha approfittato della cacciata di Gheddafi a scapito dell'Italia, d'altronde, è arrivata negli anni successivi. La francese Total non ha mai spodestato la nostra Eni come maggior estrattore di petrolio e gas in Libia. E oggi a Tripoli e Bengasi spadroneggiano milizie libiche, turchi, i russi di Wagner: chiunque, tranne i francesi.
Detto questo, fu un errore far cadere Gheddafi? Col senno di poi, forse sì. Però in quei giorni concitati fu non solo legittimo, ma doveroso proteggere i civili libici insorti spontaneamente contro un satrapo sanguinario che li opprimeva da 42 anni.
Ero lì in quei giorni, come giornalista. Sembrava che la Libia potesse autogovernarsi. Professionisti, ingegneri, medici, avvocati, molti tornati dall'esilio, si impegnarono nell'amministrazione provvisoria. Che però dopo qualche mese fu spazzata via da islamisti, militari e cosche tribali.
Si dice: almeno Gheddafi manteneva l'ordine e impediva il traffico dei clandestini verso l'Italia. Ma condannare un intero popolo a subire la dittatura pluridecennale di uno squilibrato non era possibile. Il tirannicidio è giustificato perfino dalla Chiesa cattolica. E sarebbe stato razzista bollare un Paese come non abbastanza maturo per la democrazia.
Neanche in Tunisia ed Egitto d'altronde è finita benissimo, dopo le primavere speranzose del 2011. La democrazia tunisina oggi è minacciata da un presidente autoritario e dalla crisi economica. E il Cairo si è rassegnato ai muscoli di Abdel Al Sisi dopo qualche anno di leggiadra follia dei Fratelli musulmani, così simili ai grillini quanto a incompetenza nel governare.

Insomma, Sarkozy ha tante colpe e le sta pure pagando. Ma basta, per favore, con la frottola di un suo complotto anti-italiano in Libia. 

Monday, September 12, 2022

La guerra lunga può diventare una trappola per Zelensky

Non è mai positivo quando i conflitti si trascinano a lungo. C'è una costante che li accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. Colpisce indiscriminatamente, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 Settembre 2022 

Nella primavera 2011 guardavo i ragazzi sul lungomare di Bengasi. Tornavano dai combattimenti contro i soldati di Gheddafi a Sirte, trasportati su pickup con mitragliatrice. Da qualche settimana i libici si erano ribellati al loro dittatore, e quei giovani con divise raffazzonate erano corsi volontari a sfidare la morte, coraggiosi. Al loro rientro in città erano giustamente accolti da eroi: esibivano orgogliosi i kalashnikov recuperati nelle caserme abbandonate dai militari regolari. Come capita a tutti i ventenni, piaceva loro far colpo soprattutto sulle ragazze. 

Sappiamo com'è andata a finire: da dieci anni la Libia è in preda all'anarchia. Molti di quei ragazzi sono rimasti arruolati nelle milizie che perpetuano la guerra civile. Affascinati dallo status garantito dalla divisa, esaltati dal machismo, riluttanti a tornare nel triste trantran della vita precedente: studio, lavoro? Che fatica, che noia.

Per questo non è mai positivo quando le guerre si trascinano a lungo. Neanche in Ucraina. C'è infatti una costante che le accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. La quale non cambia molto fra vincitori e vinti, aggrediti e aggressori. Perché le conseguenze negative di una guerra prolungata colpiscono entrambi i fronti. Col tempo, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile.


Sono state scritte biblioteche sulle esiziali conseguenze della prima guerra mondiale nella psiche delle masse smobilitate nel 1919, dopo cinque lunghi anni. I reduci italiani furono fra le principali cause del fascismo, le insoddisfazioni tedesche ci regalarono Hitler. Le vittorie sono sempre mutilate, le sconfitte sempre umilianti. La via d'uscita è facilmente la mistica dell'uomo forte. Gli ex combattenti diventano disadattati, disabituati alla pace. 

I mujaheddin afghani plasmati dalla resistenza antisovietica negli anni 80 hanno prodotto Osama Bin Laden e i talebani. Quando la guerra s'incancrenisce, l'unica stabilizzazione che si ottiene è quella del nemico. I tre quarti di secolo dei campi profughi palestinesi, con quattro generazioni cresciute nel mito della violenza, oggi promettono solo ulteriori decenni di odio. Che ha contagiato anche la controparte israeliana.

Egualmente, il Kosovo liberato 23 anni fa ha ancora bisogno del peacekeeping Nato, e si scopre ai bordi della legge quasi quanto la Serbia di Milosevic. Dal 2020 il suo eroe nazionale Hashim Thaci, che l'ha governato prima come capo militare, poi da premier e presidente, langue in una cella dell'Aja a poche centinaia di metri da quella dove si suicidò Milosevic nel 2006: entrambi accusati di crimini di guerra. 

Ma anche le più avanzate Croazia e Slovenia, accolte nella Ue e nell'euro (Zagabria fra quattro mesi), conservano piccole incrostazioni nazionaliste che impediscono loro di sciogliere una comica disputa sulle reciproche acque territoriali davanti a Trieste.

Insomma, le scorie del militarismo sono sempre difficili da smaltire. Anche nelle nostre democrazie. Nel 1960 fu proprio un ex generale, il presidente Usa Eisenhower, ad ammonirci contro il pericolo del 'complesso militare industriale': la perversa alleanza fra industria bellica e alte gerarchie delle forze armate, che per forza d'inerzia spinge ad aumentare le spese per armamenti. 

Pochi anni dopo il dramma del Vietnam gli diede ragione. Ma allora la reazione dei giovani statunitensi spinse alla pace e all'abolizione della leva. Paradossalmente invece, tanto più una guerra è di popolo, popolare, percepita come giusta (e la resistenza ucraina lo è), tanto più alti sono i rischi di un'escalation delle rivendicazioni. 

Perciò Zelensky è sicuramente un eroe, ma gli auguriamo di smettere al più presto la sua maglietta mimetica. Altrimenti diventerà lui stesso prigioniero di un revanscismo illimitato che impedirà la pace. Se oserà dire l'ovvio, e cioè che la Crimea e quel quarto di Donbass invasi dalla Russia nell'ormai lontano 2014 sono trattabili, verrà accusato di tradimento dai militaristi ucraini. Rischierà la fine di Rabin o Gandhi: assassinati non da nemici, ma da fanatici della propria parte. Induriti e impazziti a causa di guerre troppo lunghe. 

Sunday, April 07, 2019

La bufala del franco cfa

Da più di un anno i fascisti francesi della Le Pen fanno circolare una maxibufala sul franco cfa che affamerebbe l'Africa e causerebbe emigrazione clandestina verso l'Italia.

Naturalmente la ghiotta balla antiMacron è stata subito ingoiata dai vari fessi neonazi/onalisti di destra e sinistra (in Francia Melenchon, in Italia grillini e leghisti).

Ecco una mia replica che mi è stata censurata dal Fatto Quotidiano: 

In un'intervista al Fatto dell'8 febbraio 2019 Otto Bitjoka afferma che la causa del golpe subìto nel 1968 dal presidente del Mali Modibo Keita sarebbe stata il suo annuncio di uscita dal franco Cfa.
In realtà il Mali aveva già lasciato il franco Cfa nel 1962, per poi rientrarvi nel 1984. Quindi non fu questa la causa del golpe.

Non è poi esatto dire che le ex colonie francesi in Africa siano obbligate a stare nel franco Cfa, pena la cacciata o uccisione dei loro presidenti.
Oltre al Mali, anche Guinea, Madagascar e Mauritania l'hanno lasciato senza problemi.

Le cause dei golpe contro gli altri 4 presidenti citati furono varie, e il franco Cfa c'entrava poco o nulla.

Il togolese Sylvanus Olympio era odiato dai militari locali che non aveva integrato nel proprio esercito dopo il loro servizio coloniale con la Francia.

L'ottimo Thomas Sankara del Burkina Faso aveva decine di fronti aperti con l'Occidente intero, e nel 1987 era più detestato dagli Usa di Reagan che non dalla Francia di Mitterrand.

L'ivoriano Laurent Gbagbo fu cacciato nel 2010 perché aveva truccato le elezioni.

Fantasioso, infine, il legame con la caduta di Gheddafi: egli non godeva di alcuna stima da parte dei presidenti africani, che non avrebbero mai messo le loro valute in comune con la Libia.

Lungi da me difendere le porcate commesse dalla Francia in Africa, da Bokassa in giù. Ma i francesi non sono peggio di Cina, Usa, Russia o Gran Bretagna. 
Quindi non c'è bisogno di accusarli con gli argomenti complottisti dei gruppi di estrema destra sovranisti e antisignoraggio.

Il franco Cfa ha i suoi pro e contro, ma è assurdo dire che "se la Costa d’Avorio vende cacao per un miliardo di euro, mezzo miliardo deve restare come riserva valutaria al Tesoro francese".

Tutti i Paesi hanno riserve monetarie a garanzia dei tassi di cambio, e le imprese esportatrici non devono certo versare il 50% dei propri incassi ad alcuna Banca centrale.

Molti Paesi, infine, fanno stampare le proprie banconote da società specializzate in antifalsificazione, a Londra o a Lione.
Mauro Suttora

Wednesday, November 02, 2011

Come finirà la Libia?

DOPO L'ATROCE FINE DI GHEDDAFI IL PRINCIPE IDRIS SENUSSI E' OTTIMISTA. MA C'E' CHI VUOLE APPLICARE LA SHARIA

di Mauro Suttora

Tripoli, 23 ottobre 2011

«La morte di Gheddafi non è stata un bello spettacolo. Nessuna morte lo è. Ma non cancella la gioia dei libici per la libertà ritrovata dopo 42 anni di oppressione e otto mesi di guerra eroica».

Il principe Idris al Senussi, nipote ed erede del re deposto da Muammar Gheddafi nel 1969, stava tenendo un discorso in Confindustria a Roma quando è arrivata la notizia della cattura del tiranno: «Non riuscivo a crederci. Ho cominciato a telefonare ai miei parenti a Bengasi, non potete capire la felicità di tutti per la fine della guerra. Poi, certo, sono arrivati i crudi video sulla fine del rais. Ma anche gli italiani festeggiano la fine della dittatura il 25 aprile ‘45 nonostante l’atrocità delle immagini di piazzale Loreto. A Gheddafi abbiamo sempre offerto la via dell’esilio. È stato lui a rifiutarla, a continuare a massacrare il proprio popolo, e a cacciarsi nella trappola di Sirte».

Nessun dittatore aveva mai subìto una fine così ignominiosa. Benito Mussolini venne fucilato, e solo in seguito il suo cadavere fu calpestato dalla folla. L’unico altro tiranno moderno ucciso durante una rivoluzione, il rumeno Nicolae Ceausescu nell’89, fu anch’egli freddato con la moglie. L’irakeno Saddam Hussein è stato impiccato dopo regolare processo. Gheddafi, invece, è stato linciato dai ribelli che lo hanno tirato fuori da un canale di scolo. «Si era nascosto lì come un topo», dicono i libici, ricordando il tremendo discorso di febbraio in cui il colonnello li aveva definiti «ratti, che schiaccerò casa per casa».

Anche Saddam fu scovato dentro a un buco. Ma dagli americani, per sua fortuna. I ragazzotti eccitati che hanno massacrato Gheddafi, invece, nulla sanno delle convenzioni internazionali che vietano di uccidere i prigionieri. Ha 19 anni il miliziano che si fa fotografare orgoglioso brandendo il pistolone d’oro del dittatore. Il quale viene finito alla tempia sinistra dopo mezz’ora di torture, urla, spintoni e sberleffi.

«Cosa fate? Lasciatemi andare, vi posso dare tanto oro, molti soldi», implora il 69enne Gheddafi trascinato sanguinante sul cofano di una camionetta. Gli occhi smarriti di un vitello avviato al macello, non capisce dove siano finite le sue guardie del corpo. Improvvisamente, dopo quattro decenni di dominio assoluto, si trova in mezzo a nemici assetati di sangue. Il suo.

Tutto è successo in pochi secondi. Dopo due mesi d’assedio, Sirte è allo stremo. «Mangiavamo solo pasta e riso, ci nascondevamo elle case abbandonate, avevamo paura della Nato», ha raccontato il capo della scorta di Gheddafi. Che lì, nella sua regione natale, è scappato da agosto, quando Tripoli è caduta. Tutte le favole sul dittatore che scorrazzava qua e là per il deserto erano solo frutto della fantasia impaurita di alcuni suoi sudditi. In realtà i servizi segreti occidentali lo localizzano a Sirte grazie al telefono satellitare Turaya che il colonnello usa per chiamare la tv Rai (!) a Damasco e trasmettere i suoi proclami.

L’ultimo bastione, Bani Walid, è caduto tre giorni prima. Poche centinaia di fedelissimi rimangono asserragliati nel Village 2, sul mare. Mutassim Gheddafi, estremo pretoriano del padre, decide: «Scappiamo verso il deserto». Così, all’alba di giovedì 20 ottobre un convoglio di auto e mezzi militari con mitragliatrici pesanti, antiaeree e lanciarazzi parte sulla strada costiera verso ovest. Nonostante l’assedio, nessun posto di blocco lo intercetta. Ma appena fuori dalla città lo individua un aereo Usa Predator senza pilota, lanciato da Sigonella (Catania) e telecomandato da una base a Las Vegas. Il drone dà le coordinate a due caccia francesi Rafale che si abbassano a mitragliare il convoglio.

Le auto vanno in direzioni differenti. Mutassim viene catturato, filmato mentre fuma tranquillo l’ultima sigaretta in una cella, e poi sgozzato. Suo padre trova riparo sotto il terrapieno della strada, in una di quelle condutture dove l’acqua degli «uadi» defluisce dopo le piogge torrenziali. Presto sopraggiunge una pattuglia di ribelli di Misurata, quelli incattiviti dal lungo assedio subìto in primavera. C’è una violentissima sparatoria. Alla fine Gheddafi viene catturato.

«Cosa vi ho fatto?», biascica il colonnello ormai intontito. «Allahu akbar!», Dio è grande, urlano i ribelli assatanati. Diversi filmano col telefonino, ci sono cinque video in circolazione (per ora). In uno si intravvede un bastone appuntito che viene conficcato nel posteriore di Gheddafi. «Portiamolo a Misurata!», grida qualcuno. E un altro: «Non uccidetelo». Inutile. Arrivano i colpi a bruciapelo, in fronte e allo stomaco.

E adesso, che succederà? La Libia diventerà una tranquilla democrazia come il Sud Africa, o un inferno come la Somalia?
«Io sono ottimista», ci dice il principe Idris, «resteremo uniti e torneremo ai principi democratici della Costituzione del 1951».

Intanto però Mustafa Jalil, ex ministro di Gheddafi e capo del governo provvisorio (il quale esibisce sulla fronte una «zebiba», il callo dei musulmani ferventi che sbattono la testa per terra pregando) dice che verrà applicata la «sharia», la legge islamica.

«In Libia siamo tutti religiosi», tranquillizza il principe, «ma moderati. Non c’è tradizione di fanatismo. Rispetteremo le minoranze e tutte le differenze di genere e di razza. Avremo libertà, tolleranza e democrazia».
«Elezioni per la Costituente entro giugno 2012», promette il premier Mahmud Jibril, «e presidenziali entro giugno 2013».

Intanto, però, non c’è esercito né polizia. Per la Libia scorrazzano varie bande armate: quelli di Misurata e Zlitan, che si considerano città martiri, i berberi orgogliosi di avere liberato Tripoli, i cirenaici che hanno liberato Bengasi, i tripolini che hanno come comandante militare Hakim Belhaj, arrestato in Afghanistan nel 2001… Poco incoraggiante.
I reduci consegneranno le armi e riusciranno a perdonare i 7 mila gheddafiani incarcerati? I giovani esaltati da otto mesi di guerra accetteranno di tornare a una vita normale, noiosa e magari frustrante, o prevarrà la mistica del martire?

Per ora, Tripoli e Bengasi sembrano città tranquille: niente criminalità, e tanto entusiasmo per la ricostruzione. Presto torneranno gli immigrati filippini, egiziani e cingalesi, che lavoravano al posto di molti libici viziati dal petrolio (scuola e sanità gratis, sotto Gheddafi). La speranza di tutti è che i capi della nuova Libia ora non litighino troppo. E, se lo faranno, che almeno dimentichino i mitra.
Mauro Suttora

Thursday, August 09, 2007

Infermiere bulgare di Gheddafi

Cinque donne condannate a morte assieme a un medico a Tripoli. Con un’accusa tremenda:
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda

Oggi, 26 luglio 2007

«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».

È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.

Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.

Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.

Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.

Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.

Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.

Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.

Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.

La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.

L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.

Mauro Suttora