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Thursday, September 12, 2024

Cinquanta anni fa, l'Etiopia: uno dei peggiori genocidi del Novecento














Quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato contro gli oppositori, per l'Auhrm 700mila morti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 settembre 2024

Mezzo milione di morti: esattamente cinquant'anni fa iniziò in Etiopia uno dei peggiori genocidi del '900. Il 12 settembre 1974, un anno dopo il golpe cileno contro Salvador Allende del generale Augusto Pinochet, un altro militare cacciò il sovrano della dinastia più antica del pianeta: Hailé Selassié, negus negesti (re dei re) etiope.

Il giovane ufficiale Menghistu Hailé Mariam era uno dei golpisti del Derg, movimento comunista nazionalista che poi governò l'Etiopia fino al 1991, dopo il crollo del Muro. Ma, differentemente dal Cile, il colpo di stato di Addis Abeba è quasi dimenticato. Già allora, nessun complesso Inti Etiopiani si esibì nelle nostre piazze.

Eppure, quanto a ferocia, Menghistu non è stato secondo a nessuno. Forse solo Pol Pot in Cambogia ha fatto più morti di lui. Amnesty International stima in 500mila le vittime del 'terrore rosso' scatenato da Menghistu contro gli oppositori. L'Auhrm (African union human rights memorial) aumenta il bilancio a 700mila morti. Cifre che fanno impallidire perfino quelle degli efferati massacri compiuti dagli italiani durante il breve dominio coloniale sull'Etiopia (1936-41): dopo il fallito attentato contro il viceré Rodolfo Graziani la nostra rappresaglia fece tremila vittime secondo Angelo Del Boca, 19mila per uno storico inglese. 

Come Muammar Gheddafi cinque anni prima, anche Menghistu all'inizio era soltanto un primus inter pares fra gli ufficiali golpisti appoggiati da Mosca. Ma nel giro di pochi mesi fece fuori quasi tutti i compagni. Micidiale la sparatoria durante una riunione dei dirigenti del Derg, con decine di ammazzati. 

Il mite imperatore 82enne Hailé Selassié, che la leggenda voleva discendente dopo 225 generazioni dal re ebraico Salomone e dalla regina di Saba, venne imprigionato nel suo palazzo. Ma dopo un anno Menghistu lo fece soffocare con un cuscino e seppellire di nascosto tre metri sotto il pavimento di un bagno adiacente al proprio ufficio. Solo nel 2000 i resti del negus furono trasferiti nella cattedrale di Addis Abeba. E pensare che Menghistu, come tanti ufficiali etiopi, aveva trascorso anni di addestramento nelle accademie militari Usa. Ma dell'America assorbì soprattutto il Black power, cosicché tornato a casa virò a sinistra. Sovietici e cubani lo armarono nella guerra dell'Ogaden contro la Somalia. Negli anni '80 pure l'Italia lo aiutò, per lenire la tremenda carestia del Tana Beles.

Durante i 17 anni del regime di Menghistu il centro del terrore era il carcere di Alem Bekagn, dove furono torturati e uccisi migliaia di dissidenti. Anche comunisti: particolare acribia il dittatore utilizzò nello sterminare gli aderenti ai partiti marxisti non fedeli alla sua linea. Il patriarca della chiesa etiope Teofilo fu segretamente strangolato in carcere tre anni dopo il suo arresto.

Era la stessa prigione di Addis Abeba dove i ribelli etiopi erano stati internati dagli italiani, e poi i nazionalisti eritrei dagli etiopi. Nel 2007 l'edificio è stato rasa al suolo per far posto al nuovo palazzo dell'Ua (Unione africana).

Soltanto nel 2008 l'Etiopia ha condannato a morte Menghistu per genocidio, dopo un processo durato ben dodici anni. Ma il dittatore giá nel 1991 era fuggito nello Zimbabwe, protetto dal suo amico Robert Mugabe. E si trova ancora lì, a 87 anni. Neanche il nuovo governo di Harare lo vuole estradare in Etiopia, dopo la morte di Mugabe. Così probabilmente Menghistu morirà tranquillo nel proprio letto, come il satrapo ugandese Idi Amin Dada o il cannibale centrafricano Jean-Bedel Bokassa. Almeno Pinochet finì i suoi giorni agli arresti domiciliari. 

Friday, August 13, 2021

Good morning, Afghanistan!






Gli americani se ne vanno lasciandosi dietro una scia di disastri, come in Vietnam, per chi lo ricorda. Vent’anni di guerra e occupazione inutili


di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021


Good morning, Afghanistan!

Chi ha più di 60 anni ricorda il disastro Vietnam: nel 1975, quando gli Usa se ne andarono, arrivò una dittatura comunista che dura tuttora e produsse milioni di profughi (fra cui i boat-people, con 250mila annegati) più una guerra contro la Cina.

In Cambogia, peggio: ecco Pol Pot e il più grosso genocidio della storia umana, in proporzione agli abitanti: tre milioni di cambogiani ‘borghesi’ sterminati su 7,5 milioni di abitanti in soli tre anni e mezzo.

Ora i talebani stanno per prendere Kabul. Non in sei mesi, come prevedevano gli americani, ma in pochi giorni. Sempre attendibile, la Cia.

L’Afghanistan diventerà un altro stato islamista da incubo come quello Isis in Siria e Iraq fino al 2017? O una nuova base mondiale per i terroristi, come ai tempi di Al Qaeda?

Non ci resta che auspicare un incubo minore: la solita teocrazia islamica già al potere negli anni 90 fino al 2001, donne schiavizzate in casa, monumenti non musulmani distrutti, un simpatico medioevo solo un po’ peggiore di Iran e Arabia Saudita.

Ma almeno senza ambizioni di esportare la loro ‘guerra santa’ nel mondo. E se proprio i talebani dovessero debordare (chi li arma?), speriamo che la prossimità geografica li indirizzi più contro Russia (remember Beslan?) e Cina (poveri uiguri) che verso l’Occidente.

Ah, grazie presidente Bush junior per questi vent’anni di guerra e occupazione inutili, cui ha contribuito anche l’Italia (con otto miliardi di euro e 55 morti, il doppio della strage irachena di Nassiriya). Tutti lo avvertivano che l’Afghanistan è da sempre indomabile, come dimostrato dalle sconfitte inglese e sovietica. 

Niente da fare: il complesso militare industriale Usa non poteva lasciarsi scappare un’occasione così ghiotta di spesa militare (mille miliardi di dollari) e profitti immensi, dopo la fine della guerra fredda.

Ci dispiace per le giovani afghane delle splendide foto di McCurry, che erano uscite felici di casa e avevano cominciato a studiare.

Ricorderemo con ammirazione almeno estetica, se non politica, il primo presidente dell’Afghanistan (per troppo poco) democratico, Karzai: elegantissimo, un vero signore.

Purtroppo naufragano le velleità degli ‘esportatori di democrazia’, in buona (con Emma Bonino ci avevo creduto anch’io) e cattiva fede (i neocon Usa). Hanno vinto i burka. E Massimo Fini, solitario fan italiano del mullah Omar.

Unici indifferenti, i coltivatori di papaveri. Quelli hanno continuato tranquilli a produrre oppio sotto qualsiasi regime: sovietici, talebani, americani.

Mauro Suttora


Wednesday, June 04, 2008

I dittatori più longevi

Nella gara dei tiranni Mugabe batte Mao e Pol Pot

Libero, 4 giugno 2008

di Mauro Suttora

Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.

Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.

Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».

Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.

Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).

Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.

Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.

Mauro Suttora