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Saturday, August 21, 2021

E io sposto i confini




















di Mauro Suttora


Io Donna (Corriere della Sera), 21 agosto 2021


Portano in dote intere regioni. Governano i regni d’Italia e ne ridisegnano la geografia. O lottano per preservarne l’eredità culturale. Sono personalità femminili forti, ma a noi spesso ignote, quelle che un libro ci fa riscoprire


Mai due donne hanno avuto tanto potere assieme, nella storia d'Italia. Nel 1077 la duchessa Matilde di Canossa, che governa su Toscana, Emilia e Lombardia, costringe l'imperatore Enrico IV alla famosa umiliazione prima di poter incontrare il papa nel suo castello.


Quel che pochi sanno, è che assieme a Matilde c'è Adelaide di Susa, contessa di Savoia. Suocera dell'imperatore, è lei ad aver architettato la trappola. Ed è lei che ha portato in dote il Piemonte alla dinastia sabauda sposando Oddone di Savoia. Grazie ad Adelaide, figlia del marchese di Susa e Torino, i Savoia debordano al di qua delle Alpi e diventano italiani.


Sono tante le donne che hanno determinato i limiti dell'Italia. Le ho incontrate scrivendo Confini, storia e segreti delle nostre frontiere (ed.Neri Pozza, 2021). Alcune di loro, come Adelaide o Elisabetta del Tirolo, con le loro nozze hanno spostato intere regioni. Altre, come Eudossia Lascaris a Ventimiglia, Teresina Bontempi in Canton Ticino o Ariella Rea in Venezia Giulia, hanno testimoniato con le loro vite (e morti) le vicissitudini delle zone di frontiera.


Adelaide, la suocera dell'imperatore


Adelaide di Susa diventa contessa di Savoia quando nel 1046 sposa Oddone, e si ritrova sovrana di un territorio che va dal lago di Ginevra fino ad Asti e Albenga. Promette in sposa la figlia Berta di soli tre anni all'imperatore Enrico IV. Il quale però, dopo averla impalmata 14enne, vuole ripudiarla. Ma il papa non gli concede il divorzio.


La suocera Adelaide è furibonda, anche perché Enrico maltratta Berta. Ottiene la sua vendetta pochi anni dopo, quando fra l'imperatore e il papa scoppia la guerra delle investiture per le nomine dei vescovi: entrambi pretendono questo diritto.


Papa Gregorio VII scomunica Enrico, che deve scendere in Italia per ottenere la revoca della sanzione. Passa per il Piemonte, Adelaide vede la figlia deperita e s'infuria. Accompagna il genero degenere a Canossa (Reggio Emilia) e prepara con Matilde la sua umiliazione: prima di incontrare il papa, Enrico deve aspettare tre giorni fuori dal portone del castello di Matilde sotto una bufera di neve, scalzo, in ginocchio, col saio e il capo coperto di cenere.


Eudossia Lascaris e la contea di Ventimiglia


È un matrimonio orrendo, quello celebrato a Costantinopoli il 28 luglio 1261. La tredicenne Eudossia Lascaris, figlia dell’imperatore bizantino Teodoro II, è promessa sposa al futuro Pietro III d’Aragona. Ma l’usurpatore Michele VIII Paleologo la costringe a sposare il trentunenne Guglielmo Pietro, conte di Ventimiglia.


Finisce così la dinastia Lascaris, che ha regnato per mezzo secolo sull’impero bizantino. E inizia il casato dei conti Lascaris di Ventimiglia e Tenda, che si ramificherà in tutta Europa lasciando splendidi palazzi come quello che oggi a Torino ospita il consiglio regionale.


Il conte Ventimiglia era andato a Bisanzio per conquistare ricchi bottini. E invece torna a casa con una principessa di sangue imperiale, seppure spodestata. Il matrimonio non finisce bene. I conti di Ventimiglia, vinti dai genovesi, devono lasciare il loro castello in riva al mare ai confini dell'Italia e trasferirsi a Tenda, villaggio alpino in mezzo al nulla: certo non degno di una “porfirogenita”, nata nella porpora, come sono chiamati i successori di Costantino.


Eudossia si trasferisce nella più cosmopolita Nizza e poi scappa in Sicilia. Infine si trasferisce in Aragona sotto la protezione di re Giacomo, figlio del suo primo promesso sposo. Ha comunque dato a Guglielmo Pietro ben sette figli prima di eclissarsi (o di essere ripudiata, secondo altre fonti un po’ maschiliste). Si spegne nel 1311, dopo avere fondato un santuario di clarisse in Catalogna dove si ritira. Ma il suo ricordo è legato alla contea di Ventimiglia, già mille anni fa baluardo dell'italianità alla frontiera con la Francia provenzale.


Elisabetta e il destino del Tirolo


Sorpresa: la culla del Tirolo non si trova in Austria, ma alla periferia di Merano. Qui nel XII secolo sorge il castello di Tirolo. E questa famiglia nel 1238 espande i propri domini su Innsbruck, oltre il Brennero, nella valle dell’Inn. Non con una guerra, ma grazie al matrimonio di Elisabetta, figlia del conte Alberto III del Tirolo, con l’ultimo esponente della casata di Andechs, che possiede Innsbruck: Ottone II. Costui è un personaggio notevole. Cugino dell'imperatore Federico II, dal suo castello bavarese regna non solo sull'attuale Tirolo austriaco, ma anche su Borgogna, Istria, Carniola (Slovenia) e Merania, un ducato dalmata.


La tirolese Elisabetta diventa così una delle donne più importanti della sua epoca, con stati al di qua e al di là delle Alpi. Ma nel 1248 suo marito muore a soli trent'anni, avvelenato. A Elisabetta rimane soltanto il Tirolo austriaco, perché quello italiano fino al Brennero va a sua sorella Adelaide: ecco che si prefigura l'attuale confine italo-austriaco. 

Ma pochi anni dopo Elisabetta muore senza figli, e si ricostituisce il Tirolo 'allargato' che durerà fino al 1918, sotto gli Asburgo: suo nipote Mainardo di Gorizia, figlio di Adelaide, lo eredita tutto intero. Nel 1420, infine, la capitale del Tirolo viene spostata da Merano a Innsbruck.


Teresina Bontempi e l’italianità del Canton Ticino


La svizzera Teresina Bontempi (1883-1968), figlia del segretario generale dell’Istruzione del Canton Ticino, è ispettrice delle scuole elementari, in cui introduce i metodi di Maria Montessori. Nel 1912 fonda la rivista L’Adula, dal nome della montagna che divide il Ticino dalla Svizzera tedesca, per denunciare la germanizzazione del cantone. Ci scrivono Prezzolini, Papini, Stuparich, Slataper.

Molti ticinesi risentono la crescente influenza e ricchezza degli svizzero-tedeschi, che dominano l’economia cantonale senza integrarsi. Non parlano italiano, e frequentano soltanto i propri locali e circoli.


Le autorità sospendono più volte il giornale, la allontanano dall’insegnamento. Negli anni ’30 la rivista assume toni fascisti. La Bontempi viene condannata per irredentismo ad alcuni mesi di prigione, finché nel 1936 chiede asilo politico in Italia.


Torna a Locarno nel dopoguerra, dimenticata da tutti. In realtà Teresina non voleva annettere il Ticino all’Italia, ma soltanto valorizzare l’italianità del cantone. Nel 1996 si è infine realizzato un suo sogno: la nascita dell’università della Svizzera italiana. Vittoria postuma di una donna energica.


Ariella Rea e i sogni imperialisti di Mussolini


Tanto il confine italo-svizzero è pacifico (record mondiale: mezzo millennio senza conflitti), tanto quello orientale è stato sanguinoso: lo scorso secolo le due guerre mondiali ci sono costate quasi un milione di morti nella Venezia Giulia.


Ariella Rea è una maestra che nel 1941, tutta presa dal suo entusiasmo di giovane fascista, si trasferisce a insegnare nella Lubiana appena occupata dalle truppe italiane. Invasione scellerata, voluta da Mussolini per spartirsi pezzi di Jugoslavia con Hitler. In Slovenia si scatena la resistenza, e nel giugno 1942 la ventiseienne triestina viene uccisa in un attentato dinamitardo dei partigiani comunisti del maresciallo Tito. Lubiana, circondata di filo spinato, viene rastrellata, e 878 sloveni inviati in campi di concentramento. Alla fine dell'occupazione, l'8 settembre 1943, le vittime slovene saranno varie migliaia. Fra i deportati nel lager dell'isola di Arbe più di mille sloveni, comprese donne e bambini, muoiono di inedia, fame e malattie. Nel 1945 arriva la vendetta: gli italiani infoibati, annegati e desaparecidos saranno 15mila, e 300mila gli esuli da Istria e Dalmazia.



LE ALTRE DONNE ITALIANE ‘DI FRONTIERA’


La prima donna a decidere un confine italiano è stata Teodolinda. Nel 589 suo padre Garibaldo, re di Baviera, la dà 18enne in sposa al re longobardo Autari in segno di pace. E la frontiera tra i due regni viene fissata a Salorno, fra Trento e Bolzano, che ancora oggi è il limite fra chi parla italiano e tedesco.


Anna, ultima contessa di Tenda (cittadina delle Alpi Marittime ceduta alla Francia nel 1947) sposa a 11 anni un nobile francese, rimane vedova a 13, e nel 1501 unisce la sua contea al Piemonte sposando Renato di Savoia il Bastardo. Potente e rispettata in tutta Europa, soprannominata 'La grande maitresse', nel suo castello fra Nizza e Cannes il papa, Francesco I e Carlo IV decidono nel 1538 il passaggio di Milano dalla Francia alla Spagna.


Nel 1515 è Luisa Borgia, figlia di Cesare, a fissare il confine italo-svizzero a Chiasso (frontiera assurda, completamente artificiale, senza alcun limite naturale - fiume, lago, monte): rifiutandola come moglie, Massimiliano Sforza perde Milano dopo la sconfitta di Marignano contro i francesi, che si accordano con gli svizzeri sul confine di Chiasso.


Elda Simonett-Giovanoli, scomparsa nel 2018 a 94 anni, era una maestra elementare che ha preservato l'italiano nel suo paese di Blivio (Grigioni), unico comune svizzero oltre lo spartiacque alpino dove la nostra era la lingua ufficiale fino a pochi anni fa.


Anche la cantante Marisa Sannia ha a che fare con i nostri confini: viene immortalata nel 1967 come milionesima autista che transita nel nuovo tunnel del Monte Bianco sulla sua Alfa Duetto.

Mauro Suttora

Saturday, May 21, 2011

parla l'unica ministra libica

INTERVISTA A SALWA DAGHILI

di Mauro Suttora

per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera

Bengasi, 21 maggio 2011



Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».

Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.

«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.

La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».

Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».

Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».

Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».

A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.

Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».

«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»

Mauro Suttora

Saturday, May 03, 1997

Futuro: parlano Negroponte e Vacca


AIUTO, È IN ARRIVO IL FUTURO

di Mauro Suttora

3 maggio 1997

Io Donna (Corriere della Sera)
 
«Volate in faccia al modo di pensare tradizionale. Rinnovatevi in continuazione. Coltivate un sano disprezzo per l’autorità». Ormai Nicholas Negroponte, fondatore e direttore del Medialab al Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, parla come un guru: non argomenta più, si limita a inviare messaggi. E la principale preoccupazione del massimo futurologo mondiale, oggi, sembra essere quella di propagandare l’anarchia: «La sfida più importante che abbiamo davanti è quella di non diventare noi stessi l’establishment», ci fa sapere, ermetico, nell’intervista (rigorosamente in e-mail) che gli facciamo.

L’autore di 'Essere digitali' (insuperata Bibbia del cyberpensiero) è polemico contro «i burocrati di ogni governo che vorrebbero controllare tutto e imbrigliare il futuro». Sullo sfondo, le roventi polemiche su Internet: come punire i siti pedofili e la pornografia on-line? Ma, più concretamente: come faranno gli Stati a riscuotere le tasse sugli scambi - di merci, di capitali - via computer?

Di questo (e di molto altro) si parlerà al Futurshow di Bologna dal 9 al 12 aprile. Quello che è diventato ormai un appuntamento obbligato per tutti i cybermaniaci italiani (l’anno scorso i visitatori sono stati 350mila) quest’anno festeggia i trent’anni dallo sbarco sulla Luna. Ma, ovviamente, lo sguardo al passato della fiera bolognese servirà soltanto come trampolino verso il futuro. E nei padiglioni verranno esposte tutte le più importanti novità tecnologiche che ci stanno cambiando la vita. Eccone alcune, accompagnate dalle riflessioni di Negroponte e del nostro Roberto Vacca.

1) LA CASA TECNOLOGICA
Ogni stanza avrà almeno uno schermo. O quello di un televisore, o quello di un computer. Fissi e portatili, grandi e piccoli, non importa: saranno le nostre finestre verso il mondo. Questi terminali video potranno collegarsi indifferentemente con tv, Internet, giochi, telefono, programmi di scrittura o di lettura. È questo il significato della parola «multimedia»: vedere la tv sullo schermo di un personal, oppure usare il televisore per collegarsi con Internet, sarà indifferente.

Squilla il telefono? Se ci troviamo in bagno, schiacciamo un bottone e sullo schermo apparirà la nonna che ci vuole parlare. Se non siamo proprio nudi in vasca, potremo attivare una delle tante telecamerine (anch’esse in ogni stanza) e farci vedere anche noi dalla nonna. Le telecamere servono anche per controllare cosa succede a casa quando siamo fuori, con una semplice videotelefonata sul cellulare, o cliccando sul computer dall’ufficio.

Azzardiamo un necrologio? Morirà prima il ventenne videoregistratore del cinquantenne televisore. Spariranno novità relativamente recenti come le videocassette e le catene di negozi che le noleggiano. Questo perché dagli schermi di casa ci collegheremo direttamente a cataloghi, cineteche e banche dati con centinaia di migliaia film, documentari, concerti e archivi tv, che al costo di pochi euro invieranno istantaneamente il programma prescelto. E poiché anche le canzoni si possono trasformare in bit, pure dischi e cassette diventeranno obsoleti.

2) OCCUPAZIONE, SCUOLA, LAVORO
Roberto Vacca, il nostro massimo «futurologo» (è in uscita il suo ultimo libro, 'Consigli a un giovane manager', ed. Einaudi), è però pessimista: «L’Italia sta perdendo la partita della cultura, che è alla base di tutta l’economia. Dovremmo creare valore aggiunto, cioè prodotti sofisticati, e invece che cosa esportiamo? I soliti vestiti, piastrelle, marmo, macchine per il legno. Nell’export di software siamo superati perfino dall’India, che ha venti politecnici contro i nostri due, e dall’Ungheria, che ha scuole migliori delle nostre.

«Le aziende di Modena e Piacenza, che vantavano successi nelle macchine per la meccanica, ora vengono spiazzate dai concorrenti malesi. La merce del futuro è l’intelligenza, ma i due terzi degli italiani hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Gli Stati Uniti, a parità di popolazione, hanno dodici volte più università di noi. I giornali non veicolano più il sapere, sono pieni di stupidaggini, radio e tv ancora peggio. E il nostro primato mondiale in fatto di telefonini significa solo che la merce che gira di più è la chiacchiera».

Un quadro fosco. Quali le vie d’uscita? Scuole professionali di modello tedesco, con apprendistati pratici presso artigiani e aziende; meno materie umanistiche e più scienza nei licei, ma anche laboratori di chimica e fisica che funzionino sul serio (meno formule da imparare a memoria sui libri, e più esperimenti); informatica e inglese già dalle elementari, ribaltando però il metodo di insegnamento delle lingue straniere: molta conversazione, e poca letteratura.

3) TECNOLOGIA, DEMOCRAZIA, EUTANASIA
Nel 1976 Erich Fromm in 'Avere o essere' ipotizzava l’uso della telematica per allargare la democrazia: ad esempio, organizzando referendum via computer ogni anno sui dieci maggiori argomenti di dibattito pubblico. «Ma partecipare senza sapere rischia di essere il grande equivoco del prossimo secolo», avverte Vacca. Già oggi, infatti, grazie alla forza di sondaggi telematici effettuati sull’onda dell’emotività (come i programmi tv che domandano «Siete favorevoli agli immigrati?» subito dopo aver trasmesso documentari raccapriccianti in un senso o nell’altro), si ottengono risultati facilmente manipolabili da qualsiasi demagogo.

L’eutanasia diventerà uno degli argomenti più scottanti della politica, perché nei Paesi ricchi si vivrà fino a 90-100 anni, ma i lavoratori saranno sempre più riluttanti a finanziare l’assistenza agli anziani. Questo problema assumerà fatalmente toni razzisti in Paesi come l’Italia, dove il crollo demografico degli autoctoni bianchi verrà compensato soltanto dall’afflusso di immigrati.

Infine: sopravviveranno gli Stati? «Neanche per sogno», risponde sicuro Negroponte, «perché non sono né abbastanza grandi per essere globali, né abbastanza piccoli per essere locali. La vita evolutiva dello Stato-nazione così come lo conosciamo oggi risulterà perfino più corta di quella di uno pterodattilo. Si svilupperanno al suo posto governi locali, di comunità. E alla fine si arriverà a un pianeta unito».

4) GIOCHI
Come evolveranno i videogiochi? La battaglia è tutta fra i produttori giapponesi: stiamo assistendo proprio in questi mesi all’incredibile successo della Playstation Sony. Ma la vera scommessa, per l’industria, è quella di coinvolgere anche le femminucce, rimaste finora refrattarie davanti al joystick.

Dice Justine Cassell, docente al Medialab del Mit di Boston: «Alle bambine piace giocare parlando, raccontando storie, e quindi non sono attratte dai videogiochi. Ebbene, stiamo mettendo a punto programmi che assecondino la naturale preferenza delle femminucce per l’esplorazione delle relazioni sociali. Viceversa, spingiamo i maschietti a una maggiore elaborazione sfruttando la loro passione per le nuove tecnologie». Sfuma così il pericolo di sfornare generazioni di alienati cresciuti davanti allo schermo della tv o di un computer?

«Di fronte a reazioni come quella di una bambina che, dopo ore di videogioco, ha detto a un suo amichetto “Non mi piace essere tua amica, voglio solo fare la regina!”, è naturale che i genitori si preoccupino», spiega la Cassell. «Ma ora si sta formando una strana alleanza fra creative femministe e industriali - i quali vogliono vendere anche alle bambine - per “femminilizzare” i videogiochi, attenuandone le caratteristiche distruttrici e misantrope».

5) CITTÀ SENZA ORARI
«Vivremo vite completamente asincroniche, non ci dovremo più alzare tutti assieme per andare al lavoro al mattino, e poi di corsa a fare la spesa alla sera», promette Negroponte, «la sveglia e gli ingorghi stradali saranno solo un ricordo della stupidità del passato. Ci sarà un rinascimento della vita in campagna. E nel giro di qualche decennio non avremo più bisogno neanche delle grandi città».

Ma poiché cibo, vestiti e mobili non sono trasformabili in bit e trasportabili via cavo, rifioriranno i piccoli negozi artigianali specializzati. «Sopravviverà soltanto il minuscolo e il molto grande, ma per le aziende l’unico valore dell’essere enormi sarà la possibità di perdere miliardi di dollari prima di guadagna ».

«Qualsiasi negozio che non rimanga aperto 24 ore su 24 fallirà», profetizza Negroponte. Commercianti suicidatevi, allora? Tranquilli. Anzi, il negozio come luogo fisico potete anche chiuderlo. O tenerlo aperto soltanto nelle ore che preferite. L’importante, è aprire un sito Internet con un catalogo attraente e un efficientissimo servizio di consegne a domicilio.

Per il resto, la bottega servirà soltanto come luogo d’incontro, di socializzazione. Lo shopping per sentirsi meno soli. Verso il 2030 chiuderanno molti super e ipermercati: non sarà più conveniente tenere aperte strutture così mastodontiche, dopo che il commercio elettronico avrà conquistato i due terzi del mercato.
Mauro Suttora