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Monday, June 24, 2024

Croazia, Modrić e mia nonna




















Il campione è dalmata come era lei, che proprio cent'anni fa lasciò Sebenico e poi riuscì a diventare profuga due volte nella stessa vita

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 giugno 2024
  
Bellissima l'immagine tv del campione Luka Modrić da Zara - mio eroe, perché intelligente e quindi apparentemente svogliato e trotterellante come Gianni Rivera, celando letali accelerazioni fulminee - il quale per la tensione si mangia la maglietta in panchina, trenta secondi prima che l'Italia con un gol al 97° minuto elimini la sua Croazia dall'Europeo di calcio.

Modrić è dalmata come mia nonna Laura Matcovich, la quale proprio cent'anni fa lasciò la sua Sebenico perché era arrivata la Jugoslavia. Che poi giunse, comunista e non solo slava, pure nell'isola di Lussino, dove mia nonna si era rifugiata e sposata con il comandante di nave Roberto Suttora, orgogliosamente capohornista (i capitani doppiatori di capo Horn non erano tantissimi, sulle rotte Fiume-Liverpool-Perth).

Così 80 anni fa mia nonna riuscì a diventare profuga due volte nella stessa vita: record condiviso solo con certi sfortunati bisprofughi palestinesi (1948 e 1967). La prima volta era fuggita troppo vicino, perciò la seconda evitò Trieste e scappò con mio padre e mio zio bambini più lontano, nelle repubbliche marinare: prima a Venezia e poi a Genova, da dove partiva mio nonno.

Negli anni Ottanta del Novecento, verso la fine della sua vita che andava col secolo, la mia nonna Matcovich, a vent'anni irredentista anti-austriaca che aspettò entusiasta avvolta nel tricolore sulla banchina del porto di Sebenico le navi italiane arrivate per liberare la Dalmazia, maturò un'irresistibile nostalgia per l'impero asburgico: era fiera che sulla sua carta d'identità fosse scritto che era nata in Austria-Ungheria, e non in Italia o Jugoslavia, come indicato sui documenti degli altri 350mila profughi dalmati e istriani del 1944-48.

Infatti, dopo aver sperimentato l'Italia fascista e la Jugoslavia comunista, giunse alla conclusione che tutto sommato fosse meglio, o meno peggio, l'impero multinazionale, interetnico e cosmopolita in cui era cresciuta.

Quando volevo far arrabbiare mia nonna, per scherzo le mandavo cartoline indirizzate a Laura Matković: con la kappa e la 'pipa' sulla c, come nella grafia croata di Luka Modrić. Il quale fu profugo pure lui: da bambino, durante la nuova guerra civile jugoslava negli anni '90. La sua famiglia scappò a Zara dal villaggio dell'entroterra in cui viveva. I serbi ammazzarono suo nonno Luka.

Sunday, February 25, 2024

Cancellate piazze o medaglie per Tito, ma non la storia
















La destra italiana vuole togliere al maresciallo Tito l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. La disputa appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 febbraio 2024

A Lubiana la via principale era dedicata al maresciallo Tito. Ma subito dopo l'indipendenza della Slovenia, nel 1991, il nome dell'ex presidente jugoslavo fu cancellato e la strada ribattezzata "via Slovenia". Nella capitale croata Zagabria, invece, la centrale piazza Tito è sopravvissuta fino al 2017. E quando cambiò di nome, con soli 26 voti contro 20, l'ex presidente croato di sinistra Ivo Josipović plaudì la decisione di conservarne le vecchie targhe in un museo: "Così potremo rimetterle dopo che vinceremo le prossime elezioni".

Fortunatamente per gli abitanti della piazza questo non è accaduto. Immaginate il fastidio di dover cambiare il proprio indirizzo a ogni cambio di governo. Notevole comunque il ritardo della Croazia rispetto alla Slovenia nell'applicare la 'cancel culture', nuovo nome à la page per il revisionismo storico. Zagabria infatti riuscì a emanciparsi dalla Jugoslavia serbofasciocomunista di Slobodan Milosevic solo dopo una guerra sanguinosa (100mila morti) e lunga (tre anni, 1992-95); Lubiana invece se la cavò con un conflitto di nove giorni e 62 vittime.

L'ottimo Ugo Magri critica  la destra italiana che vuole togliere a Tito non il nome delle poche vie italiane che gli sono dedicate (in tre capoluoghi di provincia - Parma, Reggio Emilia, Nuoro - e una decina di paesi), ma l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. Tutto il mondo libero anticomunista in realtà rispettò il dittatore comunista fino alla sua morte nel 1980. Al suo funerale partecipò perfino Maggie Thatcher. Ci faceva infatti comodo avere uno stato cuscinetto che ci separasse dal blocco sovietico, cui Tito si era ribellato nel 1948.

Se le damnatio memoriae toponomastiche spiacciono solo a chi deve mutare domicilio, c'è da scommettere invece che il dibattito sul cavalierato a Josip Broz detto Tito scatenerà i nostri nostalgici fascisti e comunisti. Quanti anni devono passare per sottrarre la storia alla polemica politica contingente? Perché la revoca dell'onorificenza al fondatore della Jugoslavia comunista può apparire oziosa o balzana.

Tuttavia il giudizio storico su Tito non può essere assolutorio, in nome di una realpolitik che valeva finché il satrapo ci era utile, ma non deve proseguire nei decenni. Innanzitutto per rispetto verso gli jugoslavi stessi: la guerra civile jugoslava 1941-45 fu, con i suoi due milioni di morti, la più sanguinosa d'Europa. E la responsabilità di tanta ferocia non fu solo degli occupanti tedeschi e italiani, ma anche dei due capi jugoslavi: il fascista croato Ante Pavelić e il comunista Tito. 

Gli italiani lamentano 15mila fra infoibati, fucilati e desaparecidos. Ma le foibe furono arma usuale dei titini, con 100mila sloveni e croati, anche civili, inghiottiti vivi nei burroni carsici.

Sempre in tema di percentuali, è bene precisare che l'occupazione italiana fece 20mila vittime: solo l'1% del totale. Con 16mila morti e dispersi fra i soldati italiani. Perché in guerra le si prende e le si dà. 

Insomma, senza assolvere Mussolini che attaccò la Jugoslavia, non scambiamo Tito per uno statista. Ruppe con Mosca? Anche la Cina di Mao lo fece. Non allineato? Anche Nicolae Ceausescu in politica estera si distingueva per la fronda contro l'Urss. Ma all'interno opprimeva la sua Romania come Stalin la sua Urss e Tito la Jugoslavia. Stesse purghe contro i capi comunisti 'devianti': il maresciallo incarcerò il delfino Milovan Gilas, e sgominò la Primavera croata di Savka Dabcević nel 1971 come quella cecoslovacca.

Si dice infine: gran merito di Tito l'aver mantenuto la Jugoslavia in pace per 40 anni. Morto lui, sono riesplosi i nazionalismi balcanici. Bella forza: tutte le dittature mantengono la pace. Quella dei cimiteri. È vero il contrario: come una pentola a pressione, la repressione titina ha aggravato le tensioni fino allo scoppio della seconda guerra civile degli anni 90. 

Insomma: la disputa sulla medaglia italiana a Tito appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa. Slovenia e Croazia ci sono già arrivate da tempo.


Monday, October 16, 2023

Istriani e palestinesi. Le sliding doors di due popoli senza terra

Nel ’47-’48 due guerre perse provocarono un milione di profughi. Quelli dell’Istria hanno preso una strada, quelli di Palestina un’altra. Perché i secondi sono stati sfruttati anche dagli amici, e amici di un mondo bellicoso

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 17 ottobre 2023 

Quasi contemporaneamente, nel 1947-48, due guerre perse provocarono un milione di profughi: 300mila istriani rifugiati in Italia, e 700mila palestinesi scappati da quello che per l’Onu avrebbe dovuto essere il loro nuovo stato, accanto a Israele.

Attenzione: in entrambi i casi non fu pulizia etnica. Nessuno, né il maresciallo Tito né David Ben Gurion, obbligò italiani e palestinesi ad andarsene. Fu una fuga spontanea. Certo provocata anche dal terrore per foibe e per massacri tipo Deir Yassin (commesso dal futuro Nobel per la pace Menachem Begin, pensate un po’). 

Ma le stragi fra israeliani e palestinesi nei trent’anni precedenti erano state reciproche, e nel 1948 non furono certo gli israeliani a invadere la “Grande Palestina” araba prevista dall’Onu. Al contrario, vennero loro attaccati da tutti i Paesi arabi. Non solo quelli confinanti, Egitto, Giordania, Siria, Libano: anche da Iraq, Arabia Saudita, perfino Yemen.

Miracolosamente il neonato Israele sopravvisse al tentativo di sopprimerlo in culla, feroce quanto il 7 ottobre di Hamas: vinse la guerra e molti palestinesi preferirono andarsene. Non tutti: rimasero in 160mila, il primo nucleo degli attuali due milioni di palestinesi cittadini israeliani (su dieci milioni di abitanti d’Israele), che godono degli stessi diritti politici e civili degli ebrei, tranne il dovere della leva militare. Probabilmente sono gli arabi più liberi del pianeta.

Insomma, le guerre si vincono, si pareggiano, si perdono. In quest’ultimo caso, da sempre esse producono profughi. “Esuli”, preferivano chissà perché essere chiamati gli istriani e dalmati fuggiti in Italia dalle meraviglie del comunismo jugoslavo. Forse suonava più nobile di “profughi”. O poetico, e in effetti da Dante a Foscolo, da Mazzini a Garibaldi, quanti eroi sradicati e raminghi.

Fatto sta che molti dei rifugiati nostrani dopo aver perso tutto finirono anch’essi nei campi profughi. Ma nel giro di pochi anni si rifecero una vita trovando nuove case e lavori. Nessuno ha rivendicato mai nulla, in tre quarti di secolo neanche al più fanatico è passato per la testa di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. L’Italia aveva attaccato la Jugoslavia, aveva perso, e amen.

Non così i palestinesi. Che sono stati sempre usati dai “fratelli arabi” come mezzo di pressione contro Israele. Ammassati in condizioni miserevoli nei campi profughi ai suoi confini, e peggio stanno meglio è, perché così aumenta l’odio verso Israele.

Gaza e Cisgiordania rimasero la prima egiziana fino al 1979, e la seconda giordana fino al 1994, quando furono firmati i trattati di pace con Israele. Perché in tutti quei decenni l’Egitto non diede Gaza ai palestinesi, né la Giordania Gerusalemme Est e la Cisgiordania, affinché lì nascesse il loro stato promesso dall'Onu?

In realtà quanto questi cari “fratelli arabi” amino i palestinesi lo hanno dimostrato re Hussein di Giordania col massacro del Settembre Nero nel 1970, e l’Egitto ancora in queste ore bloccando il valico di Rafah con Gaza.

Ora i profughi palestinesi sono aumentati da 700mila a cinque milioni. Gli unici rifugiati al mondo che hanno diritto a ereditare il titolo, si fanno mantenere in eterno da Onu e Ue e continuano a premere su Israele. Ormai sono passate quattro generazioni.

Nel frattempo le guerre non smettono di provocare esodi. I croati nel 1995 hanno cacciato dalla Krajna di Knin i terribili serbi, che però inopinatamente si sono rassegnati.

L’ultima fuga, quella dei centomila armeni espulsi dal Nagorno Karabach. Per fortuna non tutti hanno sempre voglia di rivincita, di tornare, di ricorrere al terrorismo per vendicarsi. Sarà vigliaccheria, sarà pigrizia, sarà quieto vivere, sarà dolente saggezza. Oppure i Rokes: “Bisogna saper perdere”. Come mi dicevano sorridenti mio padre e mio nonno, esuli nel 1944 dalla loro isola oggi croata di Lussino: “Cos te vol, mulo. G’avemo perso”. Non ditelo ai palestinesi. E neanche agli altrettanto bellicosi israeliani e iraniani, russi e ucraini.

Friday, February 10, 2023

Foibe ed esodo: colpa di una spia inglese

Venerdì 10 febbraio si celebra il Giorno del Ricordo, ma pochi ricordano il nome di James Klugmann, al soldo di Stalin, che nel 1942 convinse Winston Churchill ad aiutare i partigiani comunisti di Tito in Jugoslavia invece di quelli monarchici del generale Draza Mihailović

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 febbraio 2023

I 350mila profughi di Istria e Dalmazia possono ringraziare un certo James Klugmann, per il loro esodo e le foibe. Oggi si celebra il Giorno del Ricordo, ma pochi ricordano il nome della spia inglese al soldo di Stalin che nel 1942 convinse Winston Churchill ad aiutare i partigiani comunisti di Tito in Jugoslavia, invece di quelli monarchici del generale Draza Mihailović.

Soltanto grazie all'appoggio inglese Tito conquistò il proprio Paese, sbaragliando non solo gli occupanti tedeschi e italiani, ma anche tutti i suoi nemici interni: fascisti ustascia croati, cetnici serbi, musulmani bosniaci, cattolici sloveni, democratici e liberali di ogni nazionalità.

La Jugoslavia nell'aprile 1941 era stata invasa dai nazifascisti, dopo il golpe filoinglese che l'aveva spostata dall'orbita dall'Asse a quella degli angloamericani. Ma fino all'estate l'unica resistenza fu quella dei partigiani dell'ex re Pietro, perché i comunisti jugoslavi rispettavano il patto Molotov-Ribbentrop fra Urss e Germania. Tito cominciò la sua guerriglia solo dopo l'attacco di Hitler a Stalin.

Nel febbraio 1942 il trentenne James Klugmann fu incredibilmente messo alla guida dell'ufficio jugoslavo del nuovo spionaggio militare inglese, il Soe (Special operations executive). Come fu possibile che un notorio comunista raggiungesse quella carica? Qualcuno incolpa un bombardamento aereo tedesco che aveva distrutto gli archivi del MI5, l'intelligence britannica. 

In ogni caso la talpa si mise subito all'opera. Gli inglesi monitoravano Balcani e Medio Oriente dal Cairo, e da lì Klugmann faceva partire per Londra rapporti che screditavano i partigiani jugoslavi democratici, lodando invece la pugnacia dei comunisti titini. Così i notevoli aiuti che gli alleati paracadutavano sulla Jugoslavia furono pian piano dirottati dai guerriglieri di Mihailović a quelli di Tito. 

L'unico a obiettare fu il Foreign office. Con lungimiranza, il ministero degli Esteri britannico si preoccupava per gli effetti a lungo termine del massiccio aiuto a quello che già sapevano sarebbe tornato ad essere il nemico, dopo la caduta di Hitler: il comunismo internazionale. Ma le perplessità furono superate da due argomenti. Primo, i partigiani titini erano in effetti più feroci e determinati dei monarchici, perché appartenevano a tutte le etnie jugoslave (serbi, croati, sloveni), mentre i cetnici erano solo serbi. Secondo: gli angloamericani stavano aiutando anche Stalin, superando le differenze ideologiche.

Ma l'opera di disinformazione di Klugmann riuscì a convincere Churchill che Tito potesse essere più efficace per l'unico scopo che interessava allora gli inglesi: ammazzava più tedeschi di Mihailović, teneva maggiormente impegnate le divisioni della Wehrmacht, distogliendole così dagli altri fronti.

Naturalmente la storia non si riscrive con i 'se'. Tuttavia il destino della Jugoslavia, e degli italiani di Istria e Dalmazia, sarebbe stato sicuramente diverso se, come in Italia, anche lì i partigiani vittoriosi nel 1945 fossero risultati di diverse estrazioni, senza un monopolio comunista.

Nel dopoguerra Klugmann, promosso maggiore, riprese tranquillamente la sua militanza nel partito comunista inglese, del quale scrisse la storia ufficiale. Fu sospettato di far parte dei 'Cambridge five', le famose cinque spie che facevano il doppio gioco per i sovietici. La realtà era ancora peggiore: fu proprio lui a reclutare Burgess, Philby, Maclean, Blunt e Cairncross. 

Ma la clamorosa verità è emersa solo con l'apertura degli archivi Kgb nel 1990 e di quelli inglesi nel 1997. Nel frattempo Klugmann era morto tranquillo nel suo letto, a 65 anni nel 1977. Dopo aver regalato a istriani e dalmati esilio e foibe, e agli jugoslavi mezzo secolo di dittatura, sfociata nella seconda guerra civile degli anni '90.

Friday, December 16, 2022

L'incredibile vita di Sinisa Mihajlovic da Vukovar, figlio orgoglioso dell'illusorio melting pot jugoslavo



Sport e politica, guerra e pace, trofei e turbolenze. Padre serbo, mamma croata, misto proprio come Tito. Si è occupato poco di politica, ma non ha rinnegato le sue origini: "Rimango serbo, con qualunque governo"

di Mauro Suttora

Huffpost.it, 16 dicembre 2022

L'incredibile vita di Sinisa Mihajlovic si dipana fra sport e politica, guerra e pace, trofei e turbolenze. I suoi trionfi sul campo li conosciamo tutti: nove fra scudetti, coppe Italia e supercoppe con Lazio e Inter, la coppa delle Coppe laziale del 1999 (compagno di Mancini, Nedved, Vieri, Nesta), e soprattutto la Champions League vinta da una squadra dell'est (l'unica oltre allo Steaua Bucarest), la mitica Stella Rossa di Belgrado nel 1991, aggiudicata ai rigori in finale a Bari contro l'Olympique di Marsiglia. 

Quello era uno squadrone con dentro anche Dejan Savicevic e Stevan Stojanovic, ma purtroppo fu anche un veicolo della propaganda serba, responsabile in quello stesso periodo della guerra civile che insanguinò per dieci anni l'ex Jugoslavia (con 100mila morti). Mihajlovic c'entrava poco. Anzi, era il tipico prodotto dell'illusorio melting pot, il miscuglio di nazionalità con cui il dittatore comunista Tito cercò invano di superare l'odio secolare fra serbi, croati, sloveni, kosovari, bosniaci. 

Padre serbo, mamma croata (misto proprio come Tito, croato-sloveno), Sinisa nacque a Vukovar, città sul Danubio al confine fra Serbia e Croazia. Portava lo stesso cognome del capo partigiano monarchico, leader durante la Seconda guerra mondiale dei cetnici serbi distrutti da Tito: nessuna parentela. 

La guerra civile degli anni 90 iniziò proprio a Vukovar, che subì stragi e la pulizia etnica serba. Ma il ventenne Sinisa se n'era già andato a giocare per il Voivodina, squadra della regione autonoma ungherese jugoslava. Poi l'approdo nella incandescente Belgrado. Da sempre i tifosi dello Stella Rossa trasformavano le partite con la Dinamo Zagabria croata in una similguerra (e viceversa). Ma quando scoppiò la guerra vera i capi degli ultras nazionalisti si arruolarono, e alcuni furono in seguito processati per crimini di guerra come il loro presidente Slobodan Milosevic. 

Il provvidenziale acquisto miliardario della Roma, e poi quello della Sampdoria, tolsero Mihajlovic dall'inferno jugoslavo. Anche se lui quando tirava le sue famose punizioni dimostrava la stessa precisione e potenza di un cecchino di Sarajevo. Sinisa si è occupato poco di politica, ma da orgoglioso campione non ha rinnegato le sue origini: "Rimango serbo, con qualunque governo".  

Qualche intemperanza e insulto di troppo contro un giocatore rumeno e uno africano gli hanno procurato giorni di squalifica. Ma tutti lo hanno sempre lodato come giocatore e allenatore corretto, carismatico, trascinante. Per fortuna gli unici campi di battaglia della sua vita sono stati quelli degli stadi. E anche l'ultima battaglia, persa, l'ha combattuta per tre anni con il suo proverbiale coraggio da leone.

Thursday, August 18, 2022

La tragica attualità della strage di Pola

Era il 18 agosto 1946, è stata la prima strage della Repubblica. Fu un atto di terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina

di Mauro Suttora

Huffpost, 18 agosto 2022


È stata la prima strage della Repubblica. Alle due di pomeriggio del 18 agosto 1946 a Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, 65 persone (per un terzo ragazzi sotto i 18 anni) morirono nello scoppio di una ventina di mine antinave. Come per Piazza Fontana, gli autori della strage sono rimasti sconosciuti.

Era una calda domenica d'estate, sulla spiaggia si divertivano centinaia di famiglie. Le mine giacevano inerti senza detonatore in un angolo dell'arenile, disinnescate dagli artificieri dopo la fine della guerra. Pola era sotto amministrazione britannica, ma molti temevano che sarebbe stata scambiata con Gorizia per finire sotto la Jugoslavia comunista di Tito. Il 90% dei suoi 31mila abitanti erano italiani. 

Improvvisamente, il boato. Una nuvola di fumo fu vista a chilometri di distanza. Decine di corpi rimasero polverizzati. Centinaia i feriti. Chi aveva innescato il tritolo delle mine? Qualcuno parlò di incidente, magari causato dal fornelletto di una grigliata. 

La verità si è saputa solo nel 2008, all'apertura degli archivi di Londra: "Gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persone sconosciute". Con tutta probabilità agenti dell'Ozna, la polizia segreta del dittatore Tito. Che così raggiunse il suo scopo: terrorizzati, 28mila polesani nell'anno seguente scapparono, arrivando esuli in Italia. 

Ecco, il terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina. Sono tante le similitudini fra l'occupazione russa di Mariupol e Kherson, e quella jugoslava di Trieste e Istria 76 anni fa. 

Ora come allora, i dittatori seminano paura in pochi per disfarsi di tanti. Tito infoibò 6mila civili italiani per farne fuggire 300mila. Specifichiamo: infoibare significa gettare persone spesso vive in un buco profondo cento metri. Personalmente, avrei preferito morire gasato in pochi minuti invece di agonizzare per giorni crepando di sete coi vermi nelle ferite.  

A Pola, invece delle foibe, furono le mine a falciare ragazzi che nuotavano. A Bucha sono state le pistole di ragazzi russi,  arruolati alla vigliacca, a finire alla tempia prigionieri ucraini. Il risultato è lo stesso: la pulizia etnica. Il 90% degli italiani lasciarono l'Istria perdendo tutto; decine di migliaia ucraini stanno lasciando Donbass e le altre zone occupate dai soldati di Putin.

Nel 1945-47 la pulizia fu quadrupla. Non solo etnica contro gli italiani, ma anche politica contro i non comunisti, economica contro i borghesi, religiosa contro i cattolici. In Ucraina conosceremo solo fra qualche anno il profilo sociologico dei profughi o deportati in Siberia, ma la comune fede ortodossa non impedisce al patriarca putiniano Cirillo di applaudire i massacri. 

Altra analogia: Putin, come Tito, attua la politica del fatto compiuto. Il dittatore jugoslavo preferì lanciare i suoi partigiani alla conquista dell'italiana Trieste prima ancora di liberare la slovena Lubiana. Pretendeva tutta la Venezia Giulia fino all'Isonzo, inglobando Carso, Gorizia, Monfalcone. 

Anche il despota russo conosce la forza del fait accompli, come dicono i diplomatici. Sa che quasi sempre la linea di armistizio si trasforma in confine definitivo, oppure dà diritto a compensazioni territoriali. Così il 24 febbraio si è scagliato avventatamente contro Kiev e Kharkiv, che niente hanno a che fare con il Donbass rivendicato appena il giorno prima. Lì ha dovuto ritirarsi, come Tito da Trieste. Ma Kherson e tutto il retroterra della Crimea sono ancora suoi: è il fiume Dniepr la nuova esagerata frontiera sperata da Putin, il suo Isonzo. 

Oggi come nel 1947, sono americani e inglesi a difendere i popoli che si battono per la libertà e la democrazia. Allora ci riuscirono solo in parte, perché il nuovo confine fra Italia e Jugoslavia, quello attuale, fu tracciato sulla 'linea francese' per pressione di Stalin; mentre la loro linea Morgan avrebbe salvato la costa orientale dell'Istria (Parenzo, Rovigo, Pirano, Umago), veneziana e italiana da sempre.

In Ucraina, vedremo. Ma quella strage di Pola, vicino alle fantastiche isole Brioni, si affianca a nomi di altri massacri europei diventati tristemente famosi quest'anno, dopo quelli di Sarajevo e Srebrenica trent'anni fa: Bucha, Mariupol, Severodonetsk. 

Wednesday, June 23, 2021

Trent'anni dopo le guerre dell'ex Jugoslavia, Slovenia e Croazia litigano ancora

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 giugno 2021

Trent'anni fa, il 25 giugno 1991, iniziò il decennio delle guerre in Jugoslavia. Slovenia e Croazia si dichiararono indipendenti, ma il presidente fasciocomunista della Serbia Slobodan Milosevic non accettò lo smembramento dell'ex dittatura di Tito, morto dieci anni prima.

Il conflitto con la Slovenia si risolse in dieci giorni con qualche decina di morti. La guerra serbo-croata invece durò quattro anni, coinvolse la Bosnia e fu sanguinosissima: quasi centomila morti.

Nel 1999, infine, l'appendice del Kosovo: per liberare la provincia albanese della Serbia evitando altri genocidi di civili come quello bosniaco di Srebrenica (settemila assassinati sotto gli occhi dell'Onu) dovette scendere in campo la Nato. Che è ancora lì, compreso il contingente italiano.

Oggi è inimmaginabile una guerra civile nel cuore dell'Europa. Slovenia e Croazia sono nella Ue, la frontiera con l'Italia non esiste più. 
Il problema è che anche trent'anni fa nessuno ipotizzava un ritorno alle armi. Anzi, il crollo del comunismo sembrava aprire un'era di pace per il nostro continente (che in effetti è tuttora in corso, a parte il buco nero jugoslavo).

Com'è potuta accadere, allora, una simile tragedia? I nostalgici del maresciallo Tito danno a lui il merito di aver mantenuto la pace per 35 anni fra cinque nazionalità, tre religioni e due alfabeti, seppure al prezzo della mancanza di libertà: "Morto lui, sono rinati gli antichi odi".

Gli storici non comunisti invece addossano proprio al regime titoista la responsabilità della seconda guerra civile jugoslava (la prima, assieme alla guerra di liberazione dai nazisti, costò un milione di morti nel 1941-45): "Gli odi etnici erano stati solo repressi dalla dittatura, ma più le pentole accumulano pressione, maggiore è lo scoppio finale".

In ogni caso, anche negli anni '90 avvennero crudeltà inimmaginabili. Quando andai in Jugoslavia per il settimanale Europeo con Gianfranco Moroldo, storico fotografo di Oriana Fallaci, scoprimmo che, come nei film di Kusturica, la guerra cominciava ogni giorno dopo le cinque del pomeriggio: quando i combattenti di entrambe le parti si ubriacavano. "Non farmi più tornare fra questi pazzi", mi disse Moroldo, "io ho visto guerre in tutto il mondo, dal Medio Oriente al Vietnam, ma questa è peggio. Non esiste un fronte definito. Di morire per un proiettile vagante non ho voglia".
Eravamo vicino a Knin, in Kraina, fra tigri di Arkan serbe cristiane ortodosse armate di cucchiai dai bordi affilati per cavare gli occhi ai nemici, e frati francescani croati cattolici che impugnavano il mitra.

E oggi? Il generale serbo Ratko Mladic, 78 anni, condannato come criminale di guerra per il massacro di Srebrenica, ha avuto l'ergastolo confermato in appello appena due settimane fa dal tribunale dell'Aia. Carcere a vita anche per il 76enne Radovan Karadzic, già presidente serbo della Bosnia, che sta per essere trasferito dall'Olanda in un carcere britannico.

Tutta la ex Jugoslavia adesso è lontanissima dalle follie omicide degli anni '90. L'Istria, rimasta indenne dal conflitto, è spartita fra Slovenia e Croazia. Ma scrivendo il libro 'Confini' (ed. Neri Pozza, 2021) ho scoperto che il loro confine marittimo nel vallone di Pirano, a pochi chilometri dall'Italia, è ancora contestato dagli opposti nazionalismi sloveno e croato. 
Lubiana reclama un corridoio di accesso alle acque internazionali, Zagabria non accetta la sentenza di arbitrato. Nel 2020 la corte europea ha dichiarato di non essere competente. 
Così continuano i sequestri di pescherecci da una parte e dall’altra. Per la gioia dei delfini, arrivati numerosi nel golfo di Trieste: sono attratti dall’abbondanza di pesce provocata dall’assenza di pescatori.
Mauro Suttora

Sunday, May 30, 1999

Bombe Usa feriscono i pescatori di Chioggia

INCREDIBILE: GLI AEREI CHE BOMBARDANO LA SERBIA SCARICANO ORDIGNI INESPLOSI NELL'ADRIATICO

dal nostro inviato a Chioggia (Venezia)
Mauro Suttora

Oggi, 30 maggio 1999

Andatelo a dire a Gino Ballarin, 42 anni, che le bombe degli aerei Nato scaricate nel mare Adriatico sono innocue. Lui, all’alba di lunedì 10 maggio, se n’è vista una scoppiare addosso. Gli ha completamente aperto la pancia: «Aveva le budella insanguinate che gli penzolavano per di fuori, uno spettacolo tremendo», raccontano i suoi colleghi marinai del peschereccio «Profeta» di Chioggia.
Ha rischiato di morire, lo hanno salvato per miracolo all’ospedale Umberto Primo di Mestre, ma i medici ci hanno messo parecchi giorni prima di dichiararlo fuori pericolo. E adesso, mezzo mese dopo, si trova ancora lì in corsia, con il ventre ricucito alla bell’e meglio.

«Eravamo partiti come sempre dal porto di Chioggia ch’era ancora notte fonda», ci racconta Gimmi Zennaro, 38 anni, comandante del «Profeta», «e abbiamo pescato con reti a strascico in parallelo con il peschereccio “Gurra”. Verso le sette abbiamo tirato su le reti. Impigliati fra i pesci c’erano dei barattoli gialli, grandi più o meno come le lattine della Coca cola. Pensavamo fossero contenitori di fumogeni, eravamo curiosi, li osservavamo girandoceli fra le mani. Ma all’improvviso uno è scoppiato, con un’esplosione violentissima».

Assieme a Ballarin sono stati colpiti anche il comandante Zennaro, che si trovava vicino a lui, e il marinaio Vanni Bellemo. Alle sette e un quarto dal peschereccio è partito l’allarme via radio per la Capitaneria di porto di Venezia: «Esplosione a bordo, abbiamo dei feriti gravi!».
In quel momento il «Profeta» si trovava a circa venti miglia (35 chilometri) al largo della città lagunare. Sono subito scattate le operazioni di soccorso: una motovedetta della Guardia costiera ha raggiunto i due pescherecci chioggiotti, e così hanno fatto anche due elicotteri, uno dei Vigili del fuoco e l’altro dell’Aeronautica.

Il povero Ballarin è stato caricato su un elicottero e trasportato all’ospedale di Mestre, dov'è stato operato immediatamente all’addome. Anche il comandante Zennaro ha trascorso vari giorni in ospedale, mentre Bellemo, colpito a una coscia, se l’è cavata più in fretta. 
Il peschereccio, che appartiene alla Cooperativa San Marco di Chioggia, non ha subìto gravi danni, ed è riuscito a rientrare in porto. 

«Ma i miei marinai», continua a raccontare il comandante del «Profeta», «hanno avvisato subito carabinieri e polizia che c’erano ancora altri ordigni impigliati nelle reti. Li avevamo notati prima dell’esplosione, si notavano facilmente perché erano gialli». Così i Vigili del fuoco hanno allertato gli artificieri dell’Esercito, che infatti hanno trovato altre tre bombe fra il pesce. Gli ordigni sono stati portati nel forte San Felice di Chioggia, e fatti esplodere lì in sicurezza.

Ma da dove venivano, quelle bombe pescate in mezzo all’Adriatico? 
Qui incomincia una storia incredibile. Per vari giorni, infatti, la versione ufficiale è stata che si trattasse di vecchi ordigni a frammentazione sganciati a grappolo durante la Seconda guerra mondiale. Avevano un bell’obiettare, i pescatori di Chioggia, che se così fosse stato gli involucri delle bombe avrebbero dovuto presentarsi ricoperti di alghe vecchie più di mezzo secolo, e non di un giallo fiammante.

La verità viene a galla giovedì 13 maggio, quando i pescherecci «Gurra» e «Annarita» pescano altre 200 bombe. Tutti pensano alle decine di aerei che da due mesi partono dalle basi Nato in Italia per bombardare la Jugoslavia. Già a metà aprile, infatti, un aereo americano aveva sganciato una manciata di bombe inutilizzate nel lago di Garda, prima di un atterraggio di emergenza. Ma dal comando Nato di Vicenza arriva una risposta sconcertante: «Non possiamo escludere che le bombe siano nostre, ma per saperlo dobbiamo aspettare i risultati di un’inchiesta interna», balbettano le gerarchie militari.

Apriti cielo. I pescatori di Chioggia entrano immediatamente in sciopero, rifiutano di riprendere il mare fino a quando il governo non darà loro una risposta certa. E quando si dice Chioggia, si dice la più grande flotta peschereccia d’Italia assieme a quella di Mazara del Vallo (Trapani): 600 imbarcazioni. 

Il mare Adriatico, infatti, nonostante l’inquinamento (ma anche grazie ad esso, perché le stesse sostanze che provocano l’eutrofizzazione nutrono anche i pesci) è uno dei più ri cchi del mondo: è grande solo un ventesimo del Mediterraneo, ma regala un quinto del pesce pescato fra Gibilterra e Suez.

Chioggia, con i suoi 60mila abitanti che parlano un dialetto stranissimo, differente dal veneziano, è la seconda città della provincia di Venezia: le 30mila casse al giorno che si vendono al mercato ittico fanno vivere gran parte della popolazione, dai pescatori all’indotto. Ma per due settimane si è fermato tutto, con danni enormi. 

«Noi perdiamo cinque milioni al giorno», spiega a Oggi Sauro Ranzato, 35 anni, presidente dei 42 facchini della Cooperativa braccianti del mercato ittico. Ma troppo grande è stata la paura di pescare morte, troppo forte la rabbia per essersi sentiti presi in giro dalla Nato e dal governo.

«Non ci soddisfa neanche la risposta data dalla Nato a Massimo D’Alema il 20 maggio», ci dichiara Enzo Fornaro, leader veneto di Federcopesca, «perché sapere che le bombe Nato sganciate nei fondali dell’Adriatico sono in tutto 143 non cambia molto le cose. Ben sette di queste, infatti, sono a grappolo, e tutte buttate nel golfo di Venezia. Ebbene, in ciascuno di questi sette contenitori ci sono ben 200 bombe. Quindi, poiché è probabile che diversi di questi contenitori si siano aperti all’impatto con il fondale, oppure perché le nostre reti li hanno trascinati e fatti sbattere, il numero totale delle bombe non è 143, ma più di 1.500».

Scusi, Fornaro, ma la pesca a strascico, che «ara» i fondali, non era stata proibita? 
«No di certo. È stata soltanto regolamentata, per esempio con il periodo di fermo pesca che inizierà fra un mese per permettere alle uova di schiudersi e ai piccoli di crescere. Ma lo strascico è l’unico modo di pescare molte specie. Le sogliole, per esempio, che si acquattano sui fondali».

Ma le bombe inesplose della Nato sono pericolose anche per i bagnanti?
«Non c’è bisogno di fare allarmismo», dichiara a Oggi Giulio Silenzi, assessore al Turismo della regione Marche, diessino, «perché i bagnanti che frequentano le spiagge non sono assolutamente minacciati da queste bombe, che si trovano a grandi profondità e a trenta-quaranta miglia al largo. Insomma, il turismo balneare non c’entra niente con questa faccenda, e noi siamo fiduciosi. A Pasqua abbiamo registrato il record storico di arrivi e presenze». 

Ma adesso? Dopo gli allarmi dei giornali tedeschi, avete registrato qualche disdetta? 
«È ancora presto per fare i conti, perché le prenotazioni per giugno, luglio e anche agosto arrivano all’ultimo momento. Se si verificheranno dei problemi, lo sapremo soltanto fra due-tre settimane. Certo è che per il turismo delle Marche i tedeschi sono molto importanti, ne arrivano mezzo milione ogni anno».
Mauro Suttora

RIQUADRO
Le bombe «pescate» a Chioggia sono gli ordigni a grappolo sganciati dalla Nato sulla Serbia. Lunghe 2,33 metri, pesano 430 chili. Ciascuna contiene oltre 200 granate di tre tipi: a penetrazione, a frammentazione e incendiarie. 

Quelle a penetrazione distruggono fino a 12 centimetri di corazza dei carri armati. Le granate a frammentazione esplodono invece a pochi metri dal suolo, gettando attorno una pioggia di schegge: possono ferire una persona anche a 150 metri di distanza. Le granate incendiarie, infine, sviluppano un calore elevatissimo, che getta fiamme su una vasta area e incendia la benzina contenuta nei serbatoi dei mezzi nemici.

Se un aereo non sgancia il suo carico sull’obiettivo fissato, per evitare di compiere un atterraggio pericoloso al ritorno (perché è stato danneggiato, per avaria, per maltempo) può «alleggerirsi» degli ordigni disinnescati, gettandoli in sei aree previste e sicure nelle acque internazionali del mare Adriatico. 

È quello che è successo 35 volte (su 21mila missioni) in questi due mesi di bombardamenti Nato. «Non innescare una bomba, però, non significa renderla totalmente innocua», spiega l’esperto militare Michele Lastella, «perché essa, contenendo esplosivo, può ancora esplodere a un qualsiasi urto meccanico. Solo gli artificieri possono disattivarla completamente». 


Per questo la Nato ha promesso di aiutare i dragamine italiani che stanno bonificando l’Adriatico dalle 143 bombe gettate finora nei suoi fondali. Quanto agli ordigni trovati fuori dalle sei aree previste, Lastella spiega: «Può darsi che in condizioni di  emergenza, com’è successo sul lago di Garda, un pilota non abbia potuto rispettare la procedura».

Saturday, April 25, 1987

Jugoslavia spaccata: Slovenia e Croazia

LA LEGA DEI CONSUMISTI

Europeo, 25 aprile 1987

Inchiesta: i paesi dell'est nell'era di Gorbaciov.
Benedetta primavera/Jugoslavia, i figli di Tito non sono tutti uguali

I friulani che affollano il casinò di Nova Gorica. Lubiana l'austriaca. Zagabria la mitteleuropea. Nel ricco Nord della federazione c'è un modo per battere la crisi. Spendere

di Mauro Suttora

"Vincitrì! Diopoi, atu viodut?" ("Ventitre! Diobuono, hai visto?"). La pallina della roulette si è fermata sul 23. Il grifagno croupier sloveno spazzola impassibile il tappeto verde. E il friulano trentenne col giaccone di similpelle invoca Dio dopo aver perso tutti i gettoni. Il casinò di Nova Gorica è il più economico d'Europa. Si entra in jeans, senza cravatta, basta pagare 5mila lire. Arrivano soprattutto gli arricchiti friulani: commercianti di Udine, mobilieri di Manzano, contadini scesi dalle valli del Natisone.

Nessun jugoslavo: "Per noi i giochi d'azzardo sono vietati", mi spiega Ales Komavec, dirigente della sala da gioco. L'idea di aprire un casinò "strangers only" è venuta un anno fa ai 400 dipendenti della Hit, una delle migliaia di imprese autogestite jugoslave. Hit sta per "Hoteli, igralnica, turizem", igralnica vuole appunto dire casinò. È una specie di azienda di soggiorno, della parte slovena di Gorizia (22 mila abitanti, mentre la città italiana ne fa 55 mila), che gestisce tre alberghi e molti negozi. Risultato: un successo strepitoso, pienone tutte le sere.

Komavec non vuole fornirci i dati degli incassi, ma ci fa capire che gli affari vanno a gonfie vele. Vanno così bene che da un anno all'altro con i soldi degli italiani i dipendenti della Hit si sono raddoppiati gli stipendi. Adesso un croupier, mance comprese, arriva a guadagnare l'equivalente di un milione di lire. Poco, in confronto ai tre-sei milioni al mese dei colleghi italiani. Ma molto rispetto alla media jugoslava.

Cominciamo il nostro viaggio nella Jugoslavia della crisi da Nova Gorica, da questa isola felice dove l'autogestione permette ai dipendenti di un'azienda, se gli affari vanno bene, di aumentarsi subito gli stipendi. E di litigare fra loro: infatti ai 75 lavoratori del casinò non piace dividere il guadagno con gli altri 300 colleghi, baristi o cameriere della Hit, che le fiches non le hanno mai viste.

Alla frontiera di Gorizia ci si accorge subito del salto di ricchezza fra Italia e Jugoslavia: fino a pochi anni fa per comprare un dinaro ci volevano trenta lire, adesso ne bastano due. Ma ormai anche quello ufficiale è un tasso arbitrario: al mercato nero lira e dinaro si cambiano alla pari. Più che confine fra Est e Ovest, questo è oggi un confine con il Medio Oriente.

Certo, la Slovenia è di gran lunga la più ricca fra le repubbliche jugoslave, e la sua aspirazione a entrare nella Cee non è campata in aria: ha un reddito pro capite superiore a quello della Grecia, pari a quello spagnolo. Ma la zavorra del Sud (Macedonia, Kosovo) e i costi della burocrazia tirano giù anche le efficienti Slovenia e Croazia.
La Jugoslavia è, insomma, un Paese diviso in due. Nessuna meraviglia, allora, se il razzismo interjugoslavo aumenta, se gli sloveni considerano "turchi" macedoni e albanesi, e se spesso i numerosi immigrati bosniaci vengono presi a sassate.

Gorizia è la nostra piccola Berlino. Dal 1945, dopo la guerra persa dall'Italia, il confine jugoslavo ha incorporato la stazione e alcuni quartieri periferici. Nova Gorica, a Est, è una città nuova, costruita negli ultimi decenni, con molto verde e palazzi alti. Al centro, vicino al casinò, ci sono un'isola pedonale e un centro commerciale che potrebbero sembrare scandinavi se l'incuria balcanica non facesse invecchiare tutto precocemente.

La frontiera di Gorizia è sempre la più aperta fra le due Europe, sembra quasi di passare dall'Olanda al Belgio: niente filo spinato, solo una tranquilla cancellata verde alta due metri. Agli abitanti locali non serve il passaporto e neanche la carta d'identità: per andare a far benzina (700 lire in Jugoslavia) basta la "propusniza", un lasciapassare che permette un viavai continuo. Adesso poi, con i nuovi numeri nero su bianco, le targhe delle macchine italiane si confondono con quelle slave: GO per Gorizia, GO per Nova Gorica. C'è solo una stellina rossa in più sulle targhe jugoslave. La vera differenza sta nella cilindrata: al di là del confine sono le R4, le 126 e le vecchie 600 a farla da padrone.

Prendiamo la corriera per Lubiana, capitale della Slovenia. Il pullman è pieno di studenti, contadine e soldati di leva col cappottone fuori misura. La radio trasmette cronache entusiaste per le imprese degli sciatori jugoslavi alla Coppa del mondo di Sarajevo, inframmezzate da canzoni dei Dire Straits. Alcuni tratti della strada statale sono in pavé e cemento: un lascito dell'impero austriaco? Una delle prime ferrovie del mondo fu, nel 1848, proprio quella fra Vienna e Lubiana, allora capitale della provincia della Carniola. Oggi invece gli sloveni accarezzano il progetto del traforo autostradale sotto le alpi Caravanche, per collegare Lubiana a Klagenfurt. E in genere vanno in visibilio per tutto ciò che li unisce al Nord austriaco, italiano e anche bavarese.

È una questione molto delicata: Stane Kavcich, allora capo del governo sloveno, fu vittima dell'ultima purga del maresciallo Tito negli anni Settanta proprio perchè accusato di "voler annettere la Slovenia alla Cee e alla Baviera di Strauss". Niente da fare: i due milioni di sloveni, orgogliosi della propria lingua (una delle quattro ufficiali della Jugoslavia, con croato, serbo e macedone), continuano a fare di testa loro. C'è bisogno di uno slogan turistico? Eccolo subito pronto, fatto apposta per suscitare le ire dei meridionali: "Slovenia, terra a sud delle Alpi". C'è una rassegna teatrale? La organizza la comunità Alpe Adria, che unisce Slovenia e Croazia alle austriache Stiria e Carinzia, al Friuli, al Triveneto e alla Baviera.

Boschi, boschi e boschi: le valli attorno a Lubiana sono tutte verdi, ma le conifere anche qui sono rovinate dalle piogge acide. La Jugoslavia alla frontiera regala all'Italia un Isonzo limpidissimo, verde azzurro. Ma l'acqua è meglio non berla, perchè anche in Slovenia le industrie scaricano nei fiumi. I duecentomila abitanti di Lubiana, poi m, sono particolarmente sfortunati, perchè la loro città sorge in una conca poco ventosa: sono costretti a respirare una miscela micidiale di nebbia e carbone, ancora molto usato per il riscaldamento.

Lubiana non è in Jugoslavia. Lubiana è in Austria. I 500 anni di dominio asburgico pesano più degli ultimi 70 di faticosa unione con gli jugoslavi, letteralmente "slavi del Sud". L'architettura del centro cittadino profuma di Mitteleuropa, i marciapiedi sono puliti più che a Trieste. Nessuna minaccia separatista, intendiamoci, e poche nostalgie per l'imperatore Francesco Giuseppe. Il quotidiano principale della Slovenia, Delo, esibisce sulla testata il motto marxista "Proletari di tutto il mondo unitevi", e non c'è traccia di opposizione politica esterna al partito unico.

Ma quelle vetrine con i completi di Missoni nella via principale, quei locali con i nomi americani, quei film e quei libri alla portata di tutti, perfino quelle facce di borghesi grassi che mangiano allegri al ristorante Privitezu ci dicono tre cose: primo, che è lontana l'epoca dell'hotel Slon, dove gli agenti segreti di Tito controllavano gli stranieri; secondo, che i comunisti sloveni stanno vivendo una fervida stagione di ripensamenti ideologici; terzo, che la bancarotta jugoslava tocca solo marginalmente il Nord.

"Vuoi capire il succo del problema oggi in Jugoslavia?", mi chiede Sreco Zajc, giornalista del settimanale frondista Mladina al tavolo del fumoso bar Union pieno di giovani.
"Guarda quei due tavoli". In uno ci sono due militari di leva, "meridionali", capelli corti, sguardo smarrito, figli di contadini. A quello vicino è seduta una coppia di universitari di Lubiana. Alteri, belli, biondi, uguali a tutti gli universitari di questo mondo, con i loro occhiali e le loro sigarette.
"Ecco la differenza: mentre la Slovenia è già arrivata alla quinta generazione di lavoratori industriali, le altre repubbliche sono alla prima o alla seconda. Naturale che gli sloveni siano insofferenti. Il governo di Belgrado non può adottare le stesse misure per tutta la Jugoslavia. Qui da noi, per esempio, non c'è disoccupazione. Il rischio è che per salvare il paese dal collasso economico Belgrado adotti le maniere forti".

Loredana Panariti, ricercatrice italiana di storia all'università di Lubiana, vorrebbe una semplificazione della burocrazia: "La mia pratica per la borsa di studio è andata avanti da aprile a settembre, ho dovuto raccogliere una quantità inverosimile di documenti". Il compagno di Loredana si chiama Lloyd, ha 28 anni, viene dal Montenegro e ha gli occhi azzurri: "Mio padre mi ha chiamato così in onore del premier inglese Lloyd George".
Gli inglesi sono stati i migliori alleati dei partigiani di Tito nell'ultima guerra, e Tito li amava più dei sovietici. La storica rottura con Stalin, nel 1948, avvenne anche per una frase dell'allora primo ministro Milovan Gilas (che dal 1954 ha rotto con Tito e ha fatto otto anni di prigione): "Gli ufficiali inglesi hanno più senso morale di quelli russi".

Lloyd lavora come chimico al laboratorio dell'università e ha un ottimo stipendio: circa 600mila lire italiane al mese. L'università esegue lavori per l'industria, anche estera, e a Lloyd la Bosch tedesca aveva proposto di andare a fare rilevazioni in Algeria. Lui ha rifiutato "perchè qui guadagno di più". Infatti i prezzi sono bassi, e gli orari (si lavora dalle sette alle tre del pomeriggio) permettono una miriade di doppie attività: non si spiega altrimenti la pazienza di un Paese dove il reddito reale si è dimezzato negli ultimi otto anni.

A Lubiana poi ci sono anche molti ricchi: alcuni papaveri della nomenklatura, ma soprattutto i negozianti e gli artigiani che hanno un'attività privata. Al venerdi pomeriggio prendono la Mercedes e vanno nel "vikend", che sarebbe la villa per i week end, sulle Alpi o al mare in Istria. Se sono giovani, la sera vanno a ballare nella discoteca Valentino, immersa nel verde del parco Tivoli, oppure fanno viaggetti a Graz e in Italia. Parlano tutti un ottimo inglese, che i licei jugoslavi insegnano meglio di quelli italiani. Obbligatori anche una seconda lingua straniera, un'altra lingua nazionale jugoslava e l'alfabeto cirillico (usato in Serbia, Montenegro e Macedonia).

Le mete più pubblicizzate dalle agenzie di viaggi sono Fatima e "Lurd": in Slovenia (e Croazia) dopo 40 anni di ateismo ufficiale ci sono un 80 per cento di credenti e un 60 per cento di praticanti. Le chiese sono affollate, alla domenica offrono tre messe pomeridiane: alle quattro, alle sei e l'ultima alle nove e mezzo.

"Sacrifici? Certo: compro meno libri, non posso permettermi il personal computer, niente nuova macchina, pochi viaggi", dice il giornalista Zajc. "Ma sono felice di vivere in Slovenia, non c'è paragone con il resto della Jugoslavia. Politicamente, poi, rispetto a tre anni fa qui il cambiamento è enorme: non c'è più paura di esprimere le proprie idee, la gente scrive lettere ai giornali..."

Zagabria

I 120 chilometri di treno in prima classe fra Lubiana e Zagabria costano duemila lire. Nella stretta valle della Sava passano l'Orient Express e tutti i treni internazionali. A Krsko, vicino alla frontiera fra Slovenia e Croazia, la ferrovia lambisce l'unica centrale atomica jugoslava. Poco prima della catastrofe di Chernobyl il governo di Belgrado aveva deciso l'acquisto dall'Unione Sovietica di quattro centrali di quello stesso modello, il cui sistema di raffreddamento è d'altronde prodotto da un'impresa jugoslava, la Energoinvest della Bosnia. Decisione improvvida, e quindi rimasta segreta. Così come segreto era il piano di localizzazione delle 11 centrali jugoslave, reso pubblico a fine marzo dal settimanale zagabrese Danas: tre in Dalmazia, sul mare, le altre tutte in prossimità della Sava.
"La cooperazione tecnologica con l'estero", avverte in proposito Sreco Zajc, "è importantissima per la Jugoslavia. Se si dovesse rafforzare il legame con l'Urss, settori delicati di ricerca avanzata cadrebbero sotto il segreto militare, rafforzando il potere dell'esercito. È anche per non avere una ricerca mi mlitarizzata che vogliamo aderire al progetto Eureka dell' mEuropa occidentale".

Al confine fra Slovenia e Croazia il treno si ferma in mezzo alla campagna per cambiare locomotiva: rito assurdo e ineluttabile che si ripete a ogni frontiera delle sei repubbliche e due regioni autonome che compongono la Jugoslavia . La vecchia stazione imperialregia di Zagabria è in rifacimento, ma tutta la città è un cantiere. In luglio infatti la capitale della Croazia ospiterà le Universiadi, e questo per la Jugoslavia è un avvenimento importantissimo, paragonabile solo alle Olimpiadi bianche di Sarajevo del 1984.

Lo scoiattolino azzurro , simbolo delle Universiadi, occhieggia dalle vetrine di ogni negozio, dai poster sui muri, perfino dalle scatolette col sapone negli alberghi. Il clima di mobilitazione civica per l'avvenimento sportivo contrasta con la crisi economica, che a Zagabria ha provocato numerosi scioperi nelle fabbriche. Ma qui, al contrario che in Slovenia, il governo comunista è ortodosso, e si guarda bene dall'approfittare della crisi per chiedere maggiore autonomia economica e ideologica: bruciano ancora le ferite dell'epurazione compiuta da Tito 15 anni fa. A Zagabria tutti, anche i giovani, hanno la memoria lunga e amano la storia. Ma soprattutto la propria storia: quella della Croazia.

"Vedi quel re a cavallo?", mi chiede fiera Marina Simich, 27 anni, studentessa di etnologia, indicando il monumento che domina la piazza della stazione. "È Tomislav, fondatore dello Stato indipendente croato nell'anno Mille. Per noi è molto importante".
Dal 1527 al 1918 la Croazia ha fatto parte dell'impero asburgico, ed era l'estremo baluardo di fronte alle incursioni ottomane. Quando, fra le due guerre mondiali, si è ritrovata dentro alla Jugoslavia dominata dalla Serbia, peggio che peggio: i nazionalismi si esasperarono e portarono nel 1941 alla Croazia indipendente di Ante Pavelic, vassallo dei nazisti e capo della estrema destra Ustascia. Contro di lui combatterono sia i partigiani di Tito, sia i serbi "cetnici" di Draza Mihajlovic, i quali contemporaneamente si sterminavano fra loro.

Dalla carneficina (in Jugoslavia ci sono stati quasi due milioni di morti su 15 milioni di abitanti nella seconda guerra mondiale, contro i 400 mila italiani) è emersa la grossa personalità di Tito, l'unico che offriva una proposta federalista con il mastice dell'ideologia comunista, e che dopo il 1948 ha dato agli jugoslavi anche una forte identità internazionale, prima rompendo con l'Urss e poi fondando il movimento dei non allineati.

Le cicatrici interne sono rimarginate? Forse. Oggi Zagabria fornisce di sè una bella immagine. Nonostante la crisi economica i caffè della città alta sono pieni di giovani ogni sera, i numerosi tram trasportano quantità incredibili di persone durante l' mora di punta, dalle due alle quattro del pomeriggio, quando chiudono scuole, uffici e fabbriche, e fino alle otto di sera i negozi del centro sono affollati.

La vita culturale è intensa: teatro, opera, musica da camera e concerti, una miriade di mostre d'arte e della nuova grafica croata. Il 2 aprile sono arrivati gli Spandau Ballet: costo del biglietto 4mila dinari, 8mila lire che i giovani della Masarykova, la strada degli artisti e dei bohemien, non hanno faticato a reperire. Insomma, sotto austerità ci si può anche divertire. 
"Con l'inflazione al 130 per cento l'unica soluzione è risparmiare in valuta estera, o spendere subito tutto. Tenere i soldi in banca non conviene", spiega un primario cardiologo di Zagabria.

Zeljka Kontent, 28 anni, laureata in legge, è procuratrice legale dell'Ina, la più grossa azienda petrolifera croata. Guadagna 550mila lire italiane al mese. "Vivo con una mia amica, ma la maggioranza dei miei coetanei sta con i genitori: un po' per risparmiare, un po' perchè a Zagabria non si trova casa. All'Ina non ci sono stati scioperi. Io ho fatto la delegata sindacale per due anni, appena assunta: dicevano che bisogna ringiovanire, e allora mi hanno eletta. Ma la politica non mi interessa".

Seguiamo Zeljka alle prove del coro Joza Vlahović, dove lei va tre sere alla settimana: la sede è in una delle sale più deliziose di Zagabria, al primo piano della Kamenita Vrata, la "porta di pietra ?" che apriva la città vecchia verso Est. Il coro ha un'ottantina di persone, in maggioranza giovani. Lo dirige da 40 anni il maestro Emil Cossetto, figlio di un triestino che le persecuzioni fasciste fecero fuggire a Zagabria: "In città ci sono 80 cori, ma questo è il primo che si costituì dopo la Liberazione"  Il repertorio è diviso a metà: primo tempo folk slavo, secondo tempo classici, da Palestrina a Bach.

Viaggia per tutta Europa , il coro Vlahovic, e colleziona coppe e medaglie nei festival ai quali è invitato. "Alla fine degli anni Cinquanta, con l'arrivo della tv, la musica popolare e il nostro coro attraversarono un brutto periodo, ma poi è rifiorito l'interesse", racconta il maestro Cossetto, e sembra di sentir parlare un personaggio dello Scherzo di Milan Kundera. I giovani dopo le prove vanno in osteria e anche lì continuano a cantare, passando indifferentemente da un Agnus Dei a Milan moi, canto dalmata.

Dall'altra parte della città trasmette Radio 101, quella degli studenti. Solo rock e notiziari. È costata allo Stato 120 milioni di lire nel 1986, e altri 120 milioni li ha con la pubblicità. Rock inglese, Smiths e U2, ma anche rock jugoslavo: i migliori gruppi sono i Lacni Franz di Maribor (Slovenia) , i Film di Zagabria e gli Ekatarina Velica di Belgrado . Così sono tutti contenti: sloveni, croati e serbi.

E allora, che fine farà mai questa Jugoslavia senza Tito? Che fine faranno i suoi venti miliardi di dollari di debiti, eredità degli ultimi anni spendaccioni del maresciallo? Solo per pagare gli interessi ogni anno finiscono alle banche occidentali i due miliardi di dollari di entrate del turismo. 
Quanto a Michail Gorbaciov, negli ultimi mesi ha invitato al Cremlino i capi della Lega dei comunisti. Da che parte pencolerà la neutrale Jugoslavia nei prossimi anni? Basterà offrirle soldi per averla dalla propria parte?

Per adesso il problema pratico più grosso, per questi nostri sconosciuti vicini , oltre a quello di far quadrare i conti a fine mese , e' quello di stipare le banconote da 5 mila dinari dentro al portafoglio . Sono il taglio piu' grosso in circolazione , ma valgono si' e no 10 mila lire . Se non vuole suscitare sgradevoli ricordi di Weimar , il governo fara' bene a stampare al piu' presto nuovi tipi di banconote . Comunque , nelle banche si sono gia' attrezzati . Ad ogni sportello e' arrivato l' ultimo grido della tecnologia jugoslava : la macchinetta contabanconote.

Mauro Suttora

Saturday, October 22, 1983

Sarajevo prepara le Olimpiadi invernali 1984

JUGOSLAVIA
Ci vuole lo stadio? Facciamo una colletta

Un referendum. Migliaia di volontari. Un'autotassazione collettiva. Che s'ha da fare per ospitare le gare mondiali di sci in una città comunista...

di Mauro Suttora e Art Zamur

Europeo, 22 ottobre 1983