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Sunday, February 25, 2024

Cancellate piazze o medaglie per Tito, ma non la storia
















La destra italiana vuole togliere al maresciallo Tito l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. La disputa appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 febbraio 2024

A Lubiana la via principale era dedicata al maresciallo Tito. Ma subito dopo l'indipendenza della Slovenia, nel 1991, il nome dell'ex presidente jugoslavo fu cancellato e la strada ribattezzata "via Slovenia". Nella capitale croata Zagabria, invece, la centrale piazza Tito è sopravvissuta fino al 2017. E quando cambiò di nome, con soli 26 voti contro 20, l'ex presidente croato di sinistra Ivo Josipović plaudì la decisione di conservarne le vecchie targhe in un museo: "Così potremo rimetterle dopo che vinceremo le prossime elezioni".

Fortunatamente per gli abitanti della piazza questo non è accaduto. Immaginate il fastidio di dover cambiare il proprio indirizzo a ogni cambio di governo. Notevole comunque il ritardo della Croazia rispetto alla Slovenia nell'applicare la 'cancel culture', nuovo nome à la page per il revisionismo storico. Zagabria infatti riuscì a emanciparsi dalla Jugoslavia serbofasciocomunista di Slobodan Milosevic solo dopo una guerra sanguinosa (100mila morti) e lunga (tre anni, 1992-95); Lubiana invece se la cavò con un conflitto di nove giorni e 62 vittime.

L'ottimo Ugo Magri critica  la destra italiana che vuole togliere a Tito non il nome delle poche vie italiane che gli sono dedicate (in tre capoluoghi di provincia - Parma, Reggio Emilia, Nuoro - e una decina di paesi), ma l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. Tutto il mondo libero anticomunista in realtà rispettò il dittatore comunista fino alla sua morte nel 1980. Al suo funerale partecipò perfino Maggie Thatcher. Ci faceva infatti comodo avere uno stato cuscinetto che ci separasse dal blocco sovietico, cui Tito si era ribellato nel 1948.

Se le damnatio memoriae toponomastiche spiacciono solo a chi deve mutare domicilio, c'è da scommettere invece che il dibattito sul cavalierato a Josip Broz detto Tito scatenerà i nostri nostalgici fascisti e comunisti. Quanti anni devono passare per sottrarre la storia alla polemica politica contingente? Perché la revoca dell'onorificenza al fondatore della Jugoslavia comunista può apparire oziosa o balzana.

Tuttavia il giudizio storico su Tito non può essere assolutorio, in nome di una realpolitik che valeva finché il satrapo ci era utile, ma non deve proseguire nei decenni. Innanzitutto per rispetto verso gli jugoslavi stessi: la guerra civile jugoslava 1941-45 fu, con i suoi due milioni di morti, la più sanguinosa d'Europa. E la responsabilità di tanta ferocia non fu solo degli occupanti tedeschi e italiani, ma anche dei due capi jugoslavi: il fascista croato Ante Pavelić e il comunista Tito. 

Gli italiani lamentano 15mila fra infoibati, fucilati e desaparecidos. Ma le foibe furono arma usuale dei titini, con 100mila sloveni e croati, anche civili, inghiottiti vivi nei burroni carsici.

Sempre in tema di percentuali, è bene precisare che l'occupazione italiana fece 20mila vittime: solo l'1% del totale. Con 16mila morti e dispersi fra i soldati italiani. Perché in guerra le si prende e le si dà. 

Insomma, senza assolvere Mussolini che attaccò la Jugoslavia, non scambiamo Tito per uno statista. Ruppe con Mosca? Anche la Cina di Mao lo fece. Non allineato? Anche Nicolae Ceausescu in politica estera si distingueva per la fronda contro l'Urss. Ma all'interno opprimeva la sua Romania come Stalin la sua Urss e Tito la Jugoslavia. Stesse purghe contro i capi comunisti 'devianti': il maresciallo incarcerò il delfino Milovan Gilas, e sgominò la Primavera croata di Savka Dabcević nel 1971 come quella cecoslovacca.

Si dice infine: gran merito di Tito l'aver mantenuto la Jugoslavia in pace per 40 anni. Morto lui, sono riesplosi i nazionalismi balcanici. Bella forza: tutte le dittature mantengono la pace. Quella dei cimiteri. È vero il contrario: come una pentola a pressione, la repressione titina ha aggravato le tensioni fino allo scoppio della seconda guerra civile degli anni 90. 

Insomma: la disputa sulla medaglia italiana a Tito appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa. Slovenia e Croazia ci sono già arrivate da tempo.


Saturday, December 23, 2023

Harakiri civile. Gesù, Cucù e presepi: inclusività è aggiungere, non togliere
















Eliminare il nome di Gesù da una filastrocca natalizia per questioni di sensibilità religiosa non è un arricchimento culturale. Anzi, significa rinunciare alle proprie tradizioni in nome del politicamente corretto e della tolleranza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 dicembre 2023

Per essere davvero "inclusivi" bisogna includere. Dall'etimo latino "chiudere dentro", quindi riempire. Aggiungere, non togliere. Perché includere è l'esatto contrario di escludere, chiudere fuori, eliminare. Perciò le povere ignoranti maestrine che hanno cancellato il nome di Gesù dalla filastrocca natalizia sostituendolo con Cucù hanno ottenuto il risultato opposto a quello che si prefiggevano. Hanno impoverito i loro bimbi - tutti, cattolici e non, invece di arricchirli o di (rischiare di) offenderli.

Il portinaio albanese (musulmano) del palazzo dove abitavo a New York sotto Natale installava nell'atrio il presepe cristiano sotto un pino, collocandoci maliziosamente sopra una scintillante mezzaluna islamica vicino alla stella. E accanto piazzava pure una menorah, il candelabro ebraico a sette bracci. Completava questo festoso miracolo sincretico la scritta conglobatrice "Happy Christmas & Hanukkah!". Non per nulla gli intelligenti custodi negli Usa si chiamano "super"(intendent). 

Ma se il furbo e tollerante portiere avesse individuato fra i numerosi affittuari del suo condominio di Manhattan qualche induista o buddista, c'è da scommettere che avrebbe moltiplicato i simboli religiosi nella hall. Per aumentare le mance, e per prolungare le vacanze. D'altronde, il posto con i weekend più lunghi del mondo è Gerusalemme: da venerdì a domenica, grazie alle tre religioni monoteiste che rendono sacra la città.

E qui in Italia? È passato un quarto di secolo da quando, nel 1999, assistetti esterrefatto all'abolizione del presepe in un asilo di Milano. Eravamo già diventati così politicamente e religiosamente 'corretti' (o corrotti?) che cominciammo a vergognarci perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra. Ecco la cronaca che scrissi. Non è bello autocitarsi, ma già allora 40 mamme sviscerarono ogni possibile aspetto della questione. Nessuna virgola da aggiungere o cambiare: la stupidità è inossidabile. Anche quando ora qualche politica di destra vorrebbe difenderli tramite legge, i presepi.

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. In una scuola materna dell'evoluta Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona piccolomedioborghese) maestre e direttrice rifiutano di farlo per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi".

Dopo le proteste di diverse mamme viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, diversamente da altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa nulla del nostro buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no.  Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" . Una terza: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiede". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti".  Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti".  

Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..." [Romano Prodi, Francesco Rutelli e Antonio Di Pietro presentarono un partito con questo simbolo alle europee 1999, ndr]

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di una civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, sembra un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...) 

Saturday, October 09, 2021

Sarajevo e l'eterno tradimento dell'Europa




La Ue respinge ancora la città fatale della nostra storia


di Mauro Suttora


HuffPost, 9 ottobre 2021

L'Europa non vuole Sarajevo, neanche a partire dal 2030. Il vertice Ue in Slovenia di mercoledì non poteva essere più chiaro: i cinque Paesi ex jugoslavi e l'Albania, che da vent'anni bussano alla porta di Bruxelles, dovranno aspettare ancora parecchio. E più di tutti la Bosnia con la sua capitale Sarajevo, ultima della lista. Il presidente bosniaco non è riuscito neppure a ottenere una data indicativa per l'entrata nell'Unione.

Altro che "centro del mondo", "città martire", "Gerusalemme d'Europa": Sarajevo e il suo mezzo milione di abitanti, vittime dal 1992 al 1996 di un assedio di 1.452 giorni, più lungo di Stalingrado e Leningrado, non la vogliamo neanche in memoria e risarcimento per i 100mila morti della guerra, all'80% civili.

I capi serbi Mladic e Karadzic stanno scontando l'ergastolo per genocidio. Ma per quanto tempo gli abitanti di Sarajevo, paria d'Europa, dovranno scontare colpe non loro?

Neanche nel 1914 la capitale bosniaca c'entrava molto con Gavrilo Princip, il serbo che fece scoppiare la Prima guerra mondiale assassinando l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria lì in visita.

Il vero conflitto in realtà era fra Serbia e Croazia, che l'erede al trono asburgico voleva innalzare a terzo regno dell'impero, sullo stesso livello di Austria e Ungheria. E pochi ricordano che gli austriaci usavano la Croazia non solo contro Belgrado, ma anche contro di noi. Dopo la cessione nel 1866 di Veneto e Friuli, infatti, Vienna perseguitò gli italiani d'Istria e Dalmazia, temendo il loro irredentismo e favorendo i sudditi croati.

Nei secoli quindi Sarajevo si è trovata suo malgrado, solo per la sua centralità geografica, in mezzo a conflitti continentali che l'hanno danneggiata. Nel 1699 addirittura rasa al suolo, assieme agli eleganti minareti innalzati dai turchi suoi fondatori 200 anni prima. Autore del massacro, un italiano: il principe Eugenio di Savoia, condottiero al soldo degli austriaci, irritato perché gli ottomani in città gli avevano ucciso un ufficiale.

Poi l'impero turco tornò, e fino al 1878 la Bosnia sulle cartine rappresentò un cuneo oltre il Danubio: era circondata dalle kraine serbe, territori-bastione di cui si servivano veneziani e austriaci per difendere la cristianità.

Anche oggi la città di Sarajevo si trova su una faglia di confine. Da una parte i serbi ortodossi, dall'altra i croati cattolici. E in mezzo gli islamici, maggioritari in città come in tutta la Bosnia. Che è divisa in tre, con tre presidenti di diversa nazionalità che ruotano ogni otto mesi e frontiere interne frastagliate, piene di enclaves e piccole sacche di minoranze etniche e religiose sfuggite ai massacri della guerra.

È questo l'equilibrio fragile che impensierisce e allontana l'Europa. La varietà, diversità e cosmopolitismo di Sarajevo rappresentavano la sua ricchezza: vicino a moschee e chiese cattoliche e ortodosse sorgevano sinagoghe. Perfino il dittatore jugoslavo Tito amava la Bosnia perché sperava, nonostante il latente odio fratricida serbo-croato, che il suo uomo nuovo comunista scaturisse da quel melting pot. 

Invece sono stati due Pol Pot quelli che Sarajevo ha subìto in mezzo secolo: negli anni '40 Ante Pavelic con gli ustascia croati fascisti che sterminarono musulmani, ebrei e serbi; e negli anni '90 i boia serbi di Srebrenica, la strage di ottomila islamici maschi che provocò i bombardamenti aerei Usa su Belgrado e poi la pace di Dayton.

In mezzo, unico momento di gloria e felicità: le indimenticabili olimpiadi invernali di Sarajevo 1984.

Ieri, 7 ottobre, cadeva il 450esimo anniversario di Lepanto, la vittoria di veneziani e austriaci contro la flotta turca. Nessuno l'ha commemorata, tranne Camillo Langone sul Foglio e i 'lepantisti' di destra, nostalgici delle guerre sante. A combattere la jihad a Sarajevo nel 1992-96 vennero invece, con soldi sauditi, guerriglieri ceceni e hezbollah. 

Oggi arrivano interessati finanziamenti cinesi. Nella latitanza dell'Unione europea, che non arriva perché il suo ultimo allargamento nei Balcani (Romania e Bulgaria, 2007) è stato una delle cause della Brexit. Sarajevo è ancora vittima indiretta dei conflitti politici di un continente che la espelle.

Mauro Suttora

 

Monday, September 20, 2021

Caos M5s/ “Raggi (16,5%) ostacola i piani di Conte per rifare il premier col Pd”

Mentre Virginia Raggi batte tutti alle elezioni per il Comitato dei Garanti del M5s, la sorte di Giuseppe Conte è sempre più incerta

intervista a Mauro Suttora

di Paolo Vites

www.ilsussidiario.net, 20 settembre 2021

Nonostante la sua sia stata una amministrazione tra le peggiori che la storia italiana ricordi (assessori che hanno rinunciato al mandato, litigi interni alla giunta, problema dei rifiuti mai risolto, mezzi pubblici da paese del terzo mondo, per dirne alcuni), tra i candidati alla carica di sindaco alle prossime elezioni del Movimento 5 Stelle, Virginia Raggi è quella che ottiene al momento nei sondaggi il risultato migliore. 

A Milano Layla Pavone è data al 5,6%; a Bologna i 5 Stelle sono alleati del Pd e la loro lista è all’8,1%; a Torino Valentina Sganga è all’8,6%. Mentre a Roma la lista civica per Virginia Raggi raggiunge il 16,5%. Non solo: la Raggi è uscita trionfatrice anche alle elezioni per il Comitato dei garanti del Movimento, dove ha doppiato sia Fico sia Di Maio nelle preferenze dei militanti: lei 22.289 e loro 11.949 e 11.748 voti. 

Secondo Mauro Suttora, giornalista, opinionista sull’Huffington Post, “i rapporti tra la Raggi e il presidente del M5s sono molto freddi, Conte non avrebbe neanche voluto si ricandidasse. Il futuro dell’ex premier che guarda sempre di più al Pd e del Movimento sono legati ai risultati delle amministrative”.

Nel voto per il Comitato dei garanti M5S Virginia Raggi ha battuto tutti, sia Fico che Di Maio nelle preferenze dei militanti. Come si spiega? È perché Grillo è sempre stato suo sostenitore convinto?

Semplice: le due preferenze dovevano essere per un uomo e una donna. Quindi chi ha votato Fico ha aggiunto la Raggi, e così per Di Maio. Le altre due candidate donne, la deputata Ruocco e l’eurodeputata Beghin, non sono conosciute quanto la Raggi. 

Nei sondaggi sulle elezioni a sindaco, anche se la Raggi a Roma non vincerà, rispetto a città come Milano o Bologna ha un discreto risultato nonostante i problemi non risolti. Che ruolo avrà dopo la sua uscita dal Campidoglio?

Quel 16% significherebbe arrivare ultima dopo Michetti (destra), Gualtieri (sinistra) e Calenda (centro). Probabilmente la candideranno al Parlamento, anche se sarebbe il suo quarto mandato, mentre i grillini hanno sempre promesso di limitarsi a due mandati per evitare il professionismo politico.

Come sono i suoi rapporti con Conte?

Secondo HuffPost i rapporti Raggi-Conte sono freddi: lui non avrebbe voluto candidarla, per evitare la sconfitta e fare confluire i voti grillini su Gualtieri già al primo turno, come a Bologna e Napoli.

Grillo dopo il patto forzato con Conte sembra che stia mettendo all’ex premier i bastoni fra le ruote. È così?

Grillo è stato convinto da Fico e Di Maio a tenersi Conte perché è una gallina dalle uova d’oro: mentre i grillini nei sondaggi sono al 15%, lui è ancora al 50%. Quindi la scelta era obbligata, come aveva già capito la ex pasionaria ma intelligente Paola Taverna, la prima a inchinarsi a Conte nonostante la distanza politica.

A Piazza Pulita Conte ha dichiarato: “La mia formazione è il cattolicesimo democratico, il mio cuore batte a sinistra”. È già stanco dei 5 Stelle? E loro, se ne vogliono sbarazzare?

Dipende molto dalle comunali fra due settimane. Se a livello nazionale i grillini crolleranno sotto il 10%, sarà dura per Conte tenerli assieme. Lui vuole farsi candidare premier per l’alleanza M5s-Pd, ma ha bisogno del piedistallo di un suo partito, per non fare la fine di Prodi nel 1998 e nel 2008. E anche i dem lo accettano, finché i sondaggi gli sono favorevoli. Molti grillini però considerano Conte un democristiano, estraneo a loro, come ha detto anche Grillo. Quindi mal lo sopportano.

Gli ex come Di Battista che dicono?

Paragone si candida con una sua lista. Di Battista è più furbo: magari accetterà le offerte di Conte per tornare in Parlamento, in modo da coprirlo dal lato dei movimentisti. A Conte conviene valorizzare Di Battista anche in funzione anti-Di Maio. Ma i 400mila euro incassati da Conte dalla società Acqua Marcia di Caltagirone lo allontanano dagli “onesti” del Movimento.

Quelli che alla Camera e al Senato sono usciti da M5s che direzione stanno prendendo?

Ormai sono un centinaio e si sono sparpagliati in tutti i partiti. Hanno come unico obiettivo conservare lo stipendio, e quindi rinviare le elezioni al 2023. Invece Conte vorrebbe il voto politico già nel 2022 perché teme che la sua popolarità evapori nel tempo.

Rapporti col Pd: come si evolvono, e come li evolveranno le elezioni?

Anche qui, tutto dipende dal risultato del 3 ottobre. Se i grillini si ridurranno a un’appendice del Pd col 5-10% forse cercheranno altre strade, fuori dall’abbraccio mortale di questa alleanza. Solo a Napoli possono sperare in un voto di lista del 20%, che comunque è la metà di tre anni fa.

Paolo Vites

Monday, October 26, 2020

Anche stavolta Milano e Venezia restano senza cardinale

NEL SUO SESTO CONCISTORO PAPA FRANCESCO NON DÀ LA PORPORA ALL'ARCIVESCOVO DI MILANO E AL PATRIARCA DI VENEZIA 

di Mauro Suttora

 Huffington Post, 26 ottobre 2020



Non ce l’hanno fatta neanche questa volta. Fra i tredici nuovi cardinali nominati da papa Francesco nel suo sesto concistoro annuale mancano l’arcivescovo di Milano e il patriarca di Venezia.

Da anni ormai Milano, la diocesi più grande del mondo, e Venezia non hanno un cardinale, com’era tradizione da secoli. Eppure tutti gli ultimi papi italiani tranne il romano Pacelli sono venuti da Milano e Venezia: Roncalli, Montini, Luciani, Ratti, Sarto (San Pio X), nonché Martini, papabilissimo se non si fosse ammalato.

È un piccolo sgarbo alla chiesa italiana, che si somma all’assenza di cardinali in altre sedi normalmente cardinalizie, come Torino o Palermo.

L’unica ragione plausibile è che Bergoglio attenda gli 80 anni del cardinale Scola, ex di Milano e Venezia, che ancora per un anno è nel collegio degli elettori in caso di conclave.

Papa Francesco ha effettuato scelte singolari nei suoi sette anni di pontificato: ha dato la porpora a figure di secondo piano, o addirittura imbarazzanti come Becciu nel 2018. Sono così diventati cardinali vescovi di Tonga (15mila cattolici su centomila abitanti), Mauritius, Papua Nuova Guinea, Laos.

Il Brasile invece, con 41 milioni di fedeli su 164 milioni di abitanti, può contare su soli quattro cardinali: gli altri cinque sono ultraottantenni, quindi in pensione. Anche il Venezuela ha un solo porporato. Per non parlare di interi Paesi senza cardinali, nonostante abbiano milioni di fedeli: 12 in Ecuador, 11 in Uganda, 8 in Angola.

Naturalmente il Collegio cardinalizio non funziona come un Parlamento mondiale della Chiesa cattolica. Oltre ai criteri di rappresentanza numerica, il papa tiene conto di altri fattori. Per esempio la valorizzazione delle periferie, o singoli vescovi premiati per la loro opera pastorale, o apporto intellettuale e di devozione.

Papa Francesco sembra avere un debole per l’Asia. Possono contare su un cardinale la Birmania, nonostante abbia solo mezzo milione di cattolici su 50 milioni di abitanti (l’1 per cento), la Thailandia, con 300mila fedeli su 60 milioni, e il Vietnam, con otto milioni di cattolici su 80. Invece l’arcidiocesi di Milano, nonostante i suoi quasi sei milioni di pecorelle, può aspettare.

Mauro Suttora

Sunday, October 11, 2020

La battaglia sui vitalizi continua

 Il Senato fa ricorso contro la restituzione agli ex senatori. In ballo 33 milioni

di Mauro Suttora


Huffington Post, 11 ottobre 2020

È stata velocissima Elisabetta Serafin, segretario generale del Senato. Appena tre giorni dopo l’esecutività della sentenza che abolisce il taglio ai vitalizi degli ex senatori, l′8 ottobre ha proposto appello per bloccare l’esborso dei 33 milioni che ora il Senato dovrebbe restituire. A tanto ammontano infatti gli arretrati che i circa 700 ‘pensionati’ hanno accumulato nei quasi due anni dopo il taglio dell’ottobre 2018.

La Serafin contesta le motivazioni del ripristino. Afferma, citando il presidente grillino della Camera Roberto Fico, che i tagli sono stati effettuati per rispondere alla “domanda sempre più forte di equità sociale” proveniente da una “collettività angosciata dal sistema previdenziale”. I 33 milioni comunque sono già stati accantonati nel bilancio del Senato, segnale dell’insicurezza degli stessi uffici rispetto ai tagli. 

La Serafin addossa all’ex presidente Inps Tito Boeri la responsabilità del calcolo delle decurtazioni, che in alcuni casi raggiungono l′80% e per questo sono state considerate inaccettabili dalla Commissione contenziosa di primo grado.

Intanto, il 20 ottobre la Corte costituzionale si pronuncerà sui tagli a tutte le pensioni d’oro della finanziaria 2018. Sono tagli provvisori (quinquennali) dopo che la Corte aveva bocciato quelli del governo Monti nel 2011: 5% sulle pensioni oltre i 90mila euro annui lordi, 10% oltre i 150mila e 15% oltre i 250mila. Il problema è sempre lo stesso: per rispettare la certezza del diritto, le misure non possono essere retroattive. Al massimo, dice la Corte, possono essere praticati tagli temporanei e “ragionevoli” per motivi di solidarietà in situazioni eccezionali. E senza discriminazioni. 

Monti nel 2012 aveva anche abolito i vitalizi dei parlamentari per il futuro, parificandone l’ammontare alle pensioni normali, calcolate con il metodo contributivo. Ma resta il nodo dei vitalizi del passato, considerati diritti acquisiti. E delle discriminazioni. Se gli stessi tagli imposti ai parlamentari pensionati fossero stati praticati anche agli stipendi dei parlamentari in carica, probabilmente la sentenza sarebbe stata diversa.

Mauro Suttora 

Thursday, October 08, 2020

Ripristinati i vitalizi, staffilata ai demagoghi

PUBBLICATE LE MOTIVAZIONI, DIVENTA ESECUTIVA LA SENTENZA CHE ANNULLA I TAGLI AI PARLAMENTARI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 ottobre 2020

Gli ex senatori ai quali erano stati tagliati i vitalizi li riavranno tutti indietro, e con gli arretrati. Con il deposito delle motivazioni il 5 ottobre è diventata infatti esecutiva la sentenza di giugno che ha annullato il taglio del 60% dell'ottobre 2018. 

Il tribunale interno del senato, la cosiddetta 'commissione contenziosa' formata dal presidente Giacomo Caliendo (Forza Italia), Simone Pillon (Lega), Alessandra Riccardi (ex M5s, ora Lega) e da due giuristi, fra cui il relatore Giuseppe Dalla Torre, ha dovuto ammettere che il taglio voluto dai grillini (ma festeggiato ufficialmente da quasi tutti i partiti) "si discosta sensibilmente dai paradigmi costituzionali in materia di certezza del diritto, legalità, eguaglianza, solidarietà, laddove tocca retroattivamente i criteri di calcolo in base ai quali fu a suo tempo determinato, per ciascun parlamentare, il quantum della prestazione dovuta. Il provvedimento infatti incide sull’atto genetico costitutivo del diritto al vitalizio e non sul rapporto in essere, perché non interviene per giustificate esigenze a limitarne l’importo, ma modifica gli atti con cui furono predisposti i provvedimenti di liquidazione per i singoli parlamentari".

Una bella staffilata per i demagoghi che s'illudevano di poter toccare impunemente dei diritti acquisiti. La deliberazione cancellata, infatti, disponeva "con effetti retroattivi una nuova determinazione dell’importo dovuto a ciascun ex parlamentare, incidendo su un diritto soggettivo perfetto qual è quello derivante dal provvedimento di liquidazione a suo tempo prodotto". 

Il punto critico riguarda "la revisione dei coefficienti di trasformazione che hanno un effetto distorcente, laddove determinano sensibili riduzioni dei vitalizi negli importi di minore entità, mentre rimangono senza effetto per quelli di importo massimo. In questo modo si incide, talora accentuatamente, sulla qualità della vita dei percettori di vitalizi di minore consistenza, con l’effetto sul piano giuridico di intaccare principi costituzionali posti a garanzia della dignità della persona umana, della eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, e della solidarietà”.

La sentenza, insomma, stabilisce che la tesi degli "ex parlamentari ladri" è falsa e diffamatoria. E che il taglio dei vitalizi viola la Costituzione e l'abc dello stato di diritto. Intanto, però, in questi due anni un centinaio di ex parlamentari che attendevano il giudizio della corte sono defunti. Rossana Rossanda, per esempio, che aveva perso il 72% dei suoi 2.120 euro netti. La sua amica Luciana Castellina, 91 anni, altro volto storico della sinistra, ha subìto un taglio ancor più doloroso: l'84%, passando da 3.140 euro a 500.

Ora anche la Camera dovrà adeguarsi alla sberla del senato contro il provvedimento abborracciato di riduzione. Quindi l’ex ministro socialista Claudio Martelli, eletto per quattro legislature, tornerà a percepire 8.455 euro lordi rispetto agli attuali 3.400. Veltroni riavrà i suoi novemila euro mensili tagliati a seimila, Vendola risalirà da cinque a ottomila, Prodi ne recupererà mille. Felici anche Gino Paoli e Cicciolina, il cui vitalizio di 3.100 euro lordi per una sola legislatura era stato ridotto a mille.

Mauro Suttora


Wednesday, October 07, 2020

Ecco perché i liberali non sono né conservatori né populisti

Huffingtonpost, 7 ottobre 2020

Caro direttore,

al tuo articolo del 23 settembre sull’“indifferibile necessità di una destra liberale” in Italia, in alternativa a quella populista antieuro(pea) di Salvini e Meloni, ha risposto Friedrich von Hayek 60 anni fa nel suo saggio ‘Perché non sono un conservatore’. Il Nobel dell’economia 1974 avverte che in alternativa alla sinistra socialista (o statalista), non ci sono solo i conservatori di destra, ma anche i liberali/liberisti come lui. Insomma, i poli sono tre e non due.

Nel 1960 Von Hayek ha la fortuna di vivere in un’epoca in cui il populismo quasi non esiste: Peron è stato sconfitto in Argentina, Poujade in Francia e il qualunquista Giannini in Italia. Quanto al sovranismo, lo si chiama col suo vero nome: nazionalismo. Ed è confinato ai rimasugli fascisti sopravvissuti dopo il 1945. 

Ma sostituisci la parola ‘conservatore’ con ‘populista’, e il ragionamento di Von Hayek vale ancor oggi: “Le posizioni dei partiti sono rappresentate su una linea in cui i socialisti sono a sinistra, i conservatori a destra e i liberali in qualche punto al centro. Niente di più ingannevole. È più appropriato disporli in triangolo, mettendo i conservatori in uno, i socialisti che tirano verso il secondo e i liberali verso il terzo”.

Per i liberali, spiega Hayek, “il problema essenziale non è chi governa, ma cosa il governo è autorizzato a fare. Mentre il conservatore (oggi il populista, ndr) si sente sicuro e soddisfatto solo se qualche autorità ha il compito di mantenere ordine e disciplina”. In economia “i conservatori avversano le misure dirigiste, e qui il liberale troverà spesso alleati fra loro. Ma i conservatori sono anche protezionisti. Perché ovviamente i conservatori vogliono conservare, mentre i liberali vogliono cambiare”.

E infatti quale cambiamento maggiore è avvenuto in Occidente negli ultimi 75 anni, se non le rivoluzioni liberiste di Thatcher e Reagan? Oggi il maggiore fossato che separa i liberali alla Bonino/Calenda dai populisti, oltre al neostatalismo e al neonazionalismo sia di destra che di sinistra (M5s), è quello dei diritti civili. Su fine vita, antiproibizionismo e garantismo sono agli antipodi. Perché i liberali, liberisti e libertari non amano lo stato né quando s’intromette nella vita privata, né quando mette le mani nelle nostre tasche, con le tasse. Insomma, cuore a sinistra, portafogli a destra.

Ps: il libretto ‘Perché non sono un conservatore’ di Hayek fu ripubblicato nel 1997 da Ideazione, la rivista degli ex Msi Mennitti e Tatarella. Allora, dopo Fiuggi, in An c’erano fermenti culturali e si scopriva il liberalismo. Dov’è oggi il dibattito in Fratelli d’Italia? Tutto appaltato alla subcultura complottista del fasciocomunista Fusaro? 

Mauro Suttora

Monday, September 28, 2020

Donald Trump, uomo di successo sempre sull'orlo del baratro

Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto. Idem nella sua incredibile carriera politica, al bivio del 3 novembre

di Mauro Suttora

Huffington Post, 28 settembre 2020
 

Nel 2017 un lavoratore single senza figli negli Usa con salario di 18mila dollari ne ha pagati 760 in imposte federali sul reddito. Più del suo presidente miliardario, Donald Trump, che in quell’anno ne ha versati 750. E che, stando ai documenti pubblicati dal New York Times, ha evaso o eluso ben 400 milioni di dollari negli ultimi vent’anni.

A stabilire se Trump abbia commesso reati e scorrettezze sanzionabili (con 200 milioni, stima il NYTimes) sarà il temibile Irs (Internal revenue service), l’Equitalia statunitense. Famoso per la sua velocità: negli Usa si dichiarano i redditi entro il 15 aprile, e dopo soli due mesi arriva a casa l’assegno se si risulta a credito, o la cifra da pagare se i controlli decidono che si è in debito. In Italia occorre un tempo trenta volte superiore: cinque anni. 

L’Irs è anche severo: gli evasori negli Usa finiscono in carcere, con condanne medie di 3-5 anni. Ogni anno sono circa 1.500 gli incriminati. Ma la via preferita è il patteggiamento (con multa). Su 3.500 miliardi di entrate, infatti, 14 milioni di furbetti ne evadono 130, un terzo rispetto all’Italia. Però quasi tutti preferiscono comporre amichevolmente.  

Trump invece, come al solito, preferisce la guerra. Il suo ‘audit’ (contenzioso) col fisco Usa dura da anni. Strano, data la rapidità che abbiamo illustrato. Un occhio di riguardo per il presidente? Il risultato dei favori fiscali repubblicani ai ricchi nell’era Bush junior?  

In ogni caso, è incredibile che il presidente abbia finora usato come scusa l’ispezione in corso per non rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi. È la prima volta in mezzo secolo (dai tempi del gentiluomo Richard Nixon) che un presidente Usa si sottrae a questo elementare obbligo di trasparenza.

 “Ora si capisce perché”, è stato il commento quasi unanime ieri negli Usa, dopo le rivelazioni del NYTimes: per ben dieci anni su quindici prima di essere eletto, infatti, Trump non avrebbe pagato neanche un cent di imposte. E se lo si fosse saputo, non sarebbe stato eletto.

Può anche darsi che sia permesso spacciare 75mila dollari di parrucchiere per spese detraibili, perché Donald doveva apparire nel suo show tv “The Apprentice”. Ma come farà sua figlia Ivanka a giustificare i 747.622 dollari incassati da una società del padre, quando esattamente la stessa cifra risulta pagata a un consulente anonimo per il progetto di hotel a Vancouver e nelle Hawaii?

La verità è che per tutta la vita Trump è sempre stato in bilico fra successo e fallimento. Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto, anche perché fallire negli Usa non è così grave come in Europa. 

Idem nella sua incredibile carriera politica, cominciata cinque anni fa. Sembra sempre sull’orlo del baratro, dell’impeachment, dello sputtanamento irreversibile. Invece poi rimbalza, e ce la fa a liquidare qualsiasi accusa come “fake news”. Anche perché non è escluso che quell’operaio o commessa single che paga più tasse di Trump nonostante guadagni in un anno 18mila dollari, ovvero quanto lui consuma in una sola settimana per il carburante del suo jet privato, fra un mese non voti di nuovo per lui.

Mauro Suttora