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Sunday, February 25, 2024

Cancellate piazze o medaglie per Tito, ma non la storia
















La destra italiana vuole togliere al maresciallo Tito l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. La disputa appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 febbraio 2024

A Lubiana la via principale era dedicata al maresciallo Tito. Ma subito dopo l'indipendenza della Slovenia, nel 1991, il nome dell'ex presidente jugoslavo fu cancellato e la strada ribattezzata "via Slovenia". Nella capitale croata Zagabria, invece, la centrale piazza Tito è sopravvissuta fino al 2017. E quando cambiò di nome, con soli 26 voti contro 20, l'ex presidente croato di sinistra Ivo Josipović plaudì la decisione di conservarne le vecchie targhe in un museo: "Così potremo rimetterle dopo che vinceremo le prossime elezioni".

Fortunatamente per gli abitanti della piazza questo non è accaduto. Immaginate il fastidio di dover cambiare il proprio indirizzo a ogni cambio di governo. Notevole comunque il ritardo della Croazia rispetto alla Slovenia nell'applicare la 'cancel culture', nuovo nome à la page per il revisionismo storico. Zagabria infatti riuscì a emanciparsi dalla Jugoslavia serbofasciocomunista di Slobodan Milosevic solo dopo una guerra sanguinosa (100mila morti) e lunga (tre anni, 1992-95); Lubiana invece se la cavò con un conflitto di nove giorni e 62 vittime.

L'ottimo Ugo Magri critica  la destra italiana che vuole togliere a Tito non il nome delle poche vie italiane che gli sono dedicate (in tre capoluoghi di provincia - Parma, Reggio Emilia, Nuoro - e una decina di paesi), ma l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. Tutto il mondo libero anticomunista in realtà rispettò il dittatore comunista fino alla sua morte nel 1980. Al suo funerale partecipò perfino Maggie Thatcher. Ci faceva infatti comodo avere uno stato cuscinetto che ci separasse dal blocco sovietico, cui Tito si era ribellato nel 1948.

Se le damnatio memoriae toponomastiche spiacciono solo a chi deve mutare domicilio, c'è da scommettere invece che il dibattito sul cavalierato a Josip Broz detto Tito scatenerà i nostri nostalgici fascisti e comunisti. Quanti anni devono passare per sottrarre la storia alla polemica politica contingente? Perché la revoca dell'onorificenza al fondatore della Jugoslavia comunista può apparire oziosa o balzana.

Tuttavia il giudizio storico su Tito non può essere assolutorio, in nome di una realpolitik che valeva finché il satrapo ci era utile, ma non deve proseguire nei decenni. Innanzitutto per rispetto verso gli jugoslavi stessi: la guerra civile jugoslava 1941-45 fu, con i suoi due milioni di morti, la più sanguinosa d'Europa. E la responsabilità di tanta ferocia non fu solo degli occupanti tedeschi e italiani, ma anche dei due capi jugoslavi: il fascista croato Ante Pavelić e il comunista Tito. 

Gli italiani lamentano 15mila fra infoibati, fucilati e desaparecidos. Ma le foibe furono arma usuale dei titini, con 100mila sloveni e croati, anche civili, inghiottiti vivi nei burroni carsici.

Sempre in tema di percentuali, è bene precisare che l'occupazione italiana fece 20mila vittime: solo l'1% del totale. Con 16mila morti e dispersi fra i soldati italiani. Perché in guerra le si prende e le si dà. 

Insomma, senza assolvere Mussolini che attaccò la Jugoslavia, non scambiamo Tito per uno statista. Ruppe con Mosca? Anche la Cina di Mao lo fece. Non allineato? Anche Nicolae Ceausescu in politica estera si distingueva per la fronda contro l'Urss. Ma all'interno opprimeva la sua Romania come Stalin la sua Urss e Tito la Jugoslavia. Stesse purghe contro i capi comunisti 'devianti': il maresciallo incarcerò il delfino Milovan Gilas, e sgominò la Primavera croata di Savka Dabcević nel 1971 come quella cecoslovacca.

Si dice infine: gran merito di Tito l'aver mantenuto la Jugoslavia in pace per 40 anni. Morto lui, sono riesplosi i nazionalismi balcanici. Bella forza: tutte le dittature mantengono la pace. Quella dei cimiteri. È vero il contrario: come una pentola a pressione, la repressione titina ha aggravato le tensioni fino allo scoppio della seconda guerra civile degli anni 90. 

Insomma: la disputa sulla medaglia italiana a Tito appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa. Slovenia e Croazia ci sono già arrivate da tempo.


Saturday, November 25, 2023

Care donne, non deleghiamo allo Stato la rivoluzione culturale. Quella tocca a noi, individui

Appello libertario

di Mauro Suttora

Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del Nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia

Huffingtonpost.it, 25 novembre 2023

Naturalmente le donne che amiamo meritano soltanto 'Love, devotion and surrender', come cantava Carlito Santana. Tuttavia, a chi parla di "società patriarcale" come causa dei femminicidi in Italia si può rispondere con queste famosa frase: "Incolpare la società? Non esiste una cosa come la società, alla quale chiedere di risolvere ogni nostro problema". Esistono invece e soprattutto gli individui, i cittadini con le loro innumerevoli, libere e spontanee relazioni. Con i loro personali diritti, doveri e reciproche responsabilità.

Perciò, piuttosto che invocare interventi statali, nuove leggi, aumenti di pena e ore di lezione sull'affettività, preferiremmo che lo stato si intromettesse il meno possibile nelle nostre vite. Giù le mani dai sentimenti e dall'amore, che non possono essere né insegnati a scuola, né controllati da burocrati.

È stato il sogno di ogni regime, nazifascista o comunista, governare le nostre faccende privatissime, sempre con la scusa di 'proteggere' qualche categoria o valore. Ci abbiamo messo decenni per liberarci da politici che ci punivano se divorziavamo, abortivano, o se non volevamo imparare a uccidere (obiezione di coscienza al servizio militare).


Stiamo ancora chiedendo di decidere da soli se fumarci o no una canna così come si fuma una sigaretta o si beve un bicchiere di vino, senza arricchire i mafiosi beneficiati dal proibizionismo (cent'anni fa Al Capone, oggi interi narcostati e narcomafie planetarie). Vorremmo sfuggire all'accanimento terapeutico obbligatorio, che ci fa restare artificialmente 'in vita' per lustri come Michael Schumacher: milioni di tronchi apparentemente umani, da nascondere nelle rsa. Desideriamo invece il diritto a una morte dolce.

Cosa chiedere allora allo Stato contro la violenza sulle donne? Fare meglio il suo lavoro: reprimere, punire, prevenire. Ma alla larga dal delegargli 'rivoluzioni culturali' maoiste. Inutile illudersi: lo stato non potrà mai eliminare completamente gli istinti  e pazzie individuali che provocano femminicidi e stupri. Che l'illusione autoritaria dello stato-Stasi non si faccia forte di verbi dolciastri come "aiutare" ed "educare", per aumentare il suo potere. Che l'erogazione di innumerevoli e strambi bonus non trasformi tutti noi in clienti di uno stato-mamma invadente e sprecone (psicobonus eternizzato, lo vuole Fedez).

 Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia. E certo, la cultura può indirizzare la società italiana verso ulteriore emancipazione femminile, eguaglianza di stipendi, o anche semplice buona educazione per zittire i 'cat callers', dispensatori di appiccicosi complimenti alle passanti. 

Ma i patriarchi erano e restano tre: Abramo, Isacco e Giacobbe. Non resuscitiamoli per colpa di qualche cafone per strada. Non evochiamo inesistenti "società patriarcali": la nostra è una delle meno maschiliste al mondo. E soprattutto non chiediamoci ossessivamente "dove sono le istituzioni?", come quel comico della Gialappa's: siamo noi, le istituzioni.

Ps: la frase famosa e per qualcuno scandalosa citata all'inizio è della donna più potente al mondo negli anni '80: Margaret Thatcher. 

Wednesday, October 07, 2020

Ecco perché i liberali non sono né conservatori né populisti

Huffingtonpost, 7 ottobre 2020

Caro direttore,

al tuo articolo del 23 settembre sull’“indifferibile necessità di una destra liberale” in Italia, in alternativa a quella populista antieuro(pea) di Salvini e Meloni, ha risposto Friedrich von Hayek 60 anni fa nel suo saggio ‘Perché non sono un conservatore’. Il Nobel dell’economia 1974 avverte che in alternativa alla sinistra socialista (o statalista), non ci sono solo i conservatori di destra, ma anche i liberali/liberisti come lui. Insomma, i poli sono tre e non due.

Nel 1960 Von Hayek ha la fortuna di vivere in un’epoca in cui il populismo quasi non esiste: Peron è stato sconfitto in Argentina, Poujade in Francia e il qualunquista Giannini in Italia. Quanto al sovranismo, lo si chiama col suo vero nome: nazionalismo. Ed è confinato ai rimasugli fascisti sopravvissuti dopo il 1945. 

Ma sostituisci la parola ‘conservatore’ con ‘populista’, e il ragionamento di Von Hayek vale ancor oggi: “Le posizioni dei partiti sono rappresentate su una linea in cui i socialisti sono a sinistra, i conservatori a destra e i liberali in qualche punto al centro. Niente di più ingannevole. È più appropriato disporli in triangolo, mettendo i conservatori in uno, i socialisti che tirano verso il secondo e i liberali verso il terzo”.

Per i liberali, spiega Hayek, “il problema essenziale non è chi governa, ma cosa il governo è autorizzato a fare. Mentre il conservatore (oggi il populista, ndr) si sente sicuro e soddisfatto solo se qualche autorità ha il compito di mantenere ordine e disciplina”. In economia “i conservatori avversano le misure dirigiste, e qui il liberale troverà spesso alleati fra loro. Ma i conservatori sono anche protezionisti. Perché ovviamente i conservatori vogliono conservare, mentre i liberali vogliono cambiare”.

E infatti quale cambiamento maggiore è avvenuto in Occidente negli ultimi 75 anni, se non le rivoluzioni liberiste di Thatcher e Reagan? Oggi il maggiore fossato che separa i liberali alla Bonino/Calenda dai populisti, oltre al neostatalismo e al neonazionalismo sia di destra che di sinistra (M5s), è quello dei diritti civili. Su fine vita, antiproibizionismo e garantismo sono agli antipodi. Perché i liberali, liberisti e libertari non amano lo stato né quando s’intromette nella vita privata, né quando mette le mani nelle nostre tasche, con le tasse. Insomma, cuore a sinistra, portafogli a destra.

Ps: il libretto ‘Perché non sono un conservatore’ di Hayek fu ripubblicato nel 1997 da Ideazione, la rivista degli ex Msi Mennitti e Tatarella. Allora, dopo Fiuggi, in An c’erano fermenti culturali e si scopriva il liberalismo. Dov’è oggi il dibattito in Fratelli d’Italia? Tutto appaltato alla subcultura complottista del fasciocomunista Fusaro? 

Mauro Suttora

Friday, June 24, 2016

Gli inglesi dicono no all'Europa

di Mauro Suttora

Oggi, 24 giugno 2016

Il martirio di Jo Cox non è servito a tenere il Regno Unito dentro all’Europa. La povera deputata laborista ammazzata per strada dal pazzo nazionalista Thomas Mair non ha fatto cambiar segno al referendum Brexit (British exit) di giovedì 23 giugno. Hanno prevalso gli antieuropeisti.

«La verità è che la maggioranza dei britannici non è mai stata pro Europa, fin dall’adesione all’allora Cee nel 1972», avverte Fareed Zakaria, commentatore della Cnn. La Gran Bretagna ha sempre considerato l’Europa come una semplice area di libero scambio, senza tariffe e dazi doganali. Guai a parlare di unione politica.

Per tutti gli anni 80 Margaret Thatcher fece guerra a Jacques Delors, presidente francese della Commissione di Bruxelles, e a Bettino Craxi. Oltre a rifiutare gli accordi di Maastricht che hanno poi portato all’euro, la Lady di Ferro conservatrice detestava i socialisti Delors e Craxi. Quindi nazionalismo inglese contro federalismo, ma anche liberismo thatcheriano contro statalismo.

Il Regno Unito era già l’unico dei 28 Paesi Ue (con l’Irlanda) a non avere abolito passaporti e confini. Rimasto fuori dall’area Schengen, si era guardato bene anche dall’aderire all’euro (assieme ad altri dieci Paesi). «Quindi l’uscita dall’Unione è un trauma solo fino a un certo punto, ai fini pratici», dice Zakaria, «perché i britannici sono sempre rimasti fuori a metà».

E per gli italiani, quali saranno le conseguenze di un’Europa senza Londra? 
I nostri risparmi se ne sono già accorti: le Borse e i fondi azionari (anche pensionistici) sono calati del 10% in pochi giorni fino all’omicidio Cox. L’euro forse si rafforzerà sulla sterlina, ma sicuramente s’indebolirà nei confronti del dollaro e del resto del mondo.

L’Italia non ha un grande interscambio con il Regno Unito: i 31 miliardi di import/export sono un quarto di quelli con la Germania, la metà degli scambi Italia/Francia, e valgono quanto quelli con la Russia.
La bilancia commerciale però è a nostro favore: 21 miliardi di esportazioni (cibo, moda, macchinari, mezzi di trasporto) contro 10 di import. Quindi, se si dovesse scatenare un’improbabile guerra commerciale, ci rimetterebbero le nostre aziende. Soprattutto le lombarde, che da sole coprono un quarto dell’export.

In Italia risiedono 26mila britannici: niente, rispetto al mezzo milione di pensionati inglesi che svernano in Spagna. Ma siamo amatissimi da quattro milioni di turisti che arrivano ogni anno, e che ci portano 2,6 miliardi. L’attrazione è reciproca: fra turisti italiani ed emigrati, il Regno Unito supera la Germania come nostra meta, ed è pari alla confinante Francia.

I nostri emigrati in Gran Bretagna non subiranno contraccolpi dal Brexit. Anche i più accesi xenofobi dell’Ukip (l’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage) non ce l’hanno infatti con gli italiani, che da generazioni lavorano duramente e sono rispettati dagli inglesi. Gli antieuropeisti temono di più gli immigrati slavi e balcanici che approfittano dei sussidi in quanto cittadini Ue, e soprattutto l’ondata di africani e arabi degli ultimi mesi, con le strazianti scene a Calais.

I pericoli per l’Italia dall’addio del Regno Unito sono quindi indiretti, e politici. L’esempio del Brexit potrebbe essere seguito da altri Paesi con forti partiti neonazionalisti: Olanda, Grecia, Finlandia. Anche gli antieuropeisti tedeschi di Alternative für Deutschland, già oltre il 10%, si galvanizzeranno, così come i lepenisti francesi e i leghisti e grillini italiani. L’Unione Europea si dimostra debole e friabile: gli speculatori internazionali potrebbero scommettere contro l’euro come nel 2011.

Così lo spread degli interessi sul nostro immenso debito (2.230 miliardi) potrebbe tornare ad allargarsi rispetto a quelli pagati dai tedeschi. L’Italia rimane infatti l’anello debole d’Europa con Spagna, Portogallo e Grecia.

Infine, ci sono anche quelli che reputano vantaggioso un addio di Londra: «Senza gli inglesi che da 40 anni trascinano i piedi», ragionano i federalisti più ottimisti, «il traguardo degli Stati Uniti d’Europa potrebbe rivelarsi più vicino: unione politica, finalmente, e non solo finanziaria ed economica».
Pochi ma buoni, insomma. Magra consolazione

Mauro Suttora

Wednesday, May 14, 2014

Tifosi violenti


COME SCONFIGGERLI

di Mauro Suttora

Oggi, 7 maggio 2014

Soltanto in Italia e in Serbia i tifosi violenti vengono ancora tollerati. I Paesi del Nord Europa hanno sconfitto da tempo gli hooligans. Non che siano scomparsi: se ne sono accorti lo scorso dicembre quelli del movimento dei Forconi che a Milano bloccavano da giorni il traffico a piazzale Loreto. Bastò che arrivasse un pullman olandese, da cui scesero minacciosi tifosi alticci, per far scappare tutti.

GRAN BRETAGNA. La svolta avvenne nel 1985, dopo i 39 morti dell’Heysel (Juventus-Liverpool). Margaret Thatcher autorizzò l’arresto preventivo dei sospetti violenti e tappezzò stadi e dintorni di telecamere. Basta la prova visiva per farsi 24 ore di carcere, e il Daspo (Divieto di accedere a eventi sportivi) dura fino a dieci anni. Chi lo vìola finisce dentro, e a chi fa appello ma perde la condanna viene raddoppiata. Per evitare figuracce all’estero, con semplice provvedimento amministrativo i teppisti si vedono ritirare i passaporti. Negli anni ci sono state varie accuse di liberticidio, ma la linea dura continua.

Severità anche in FRANCIA: tre anni di galera a chi osa portare razzi allo stadio, due anni per chi si azzarda a ricostituire bande di tifosi sciolte dal ministero degli Interni. Il Paris Saint-Germain ha rinunciato a 13 mila abbonamenti di ultras. In Spagna bisogna prenotare il posto con nome e cognome anche nelle curve. E il Barcelona ha sciolto gli ultras Boixos Nois. In Germania vige l’arresto preventivo per gli ubriachi o i minacciosi. In Russia il Daspo dura fino a sette anni, e i violenti rischiano 160 ore di lavori socialmente utili.

RISULTATI POSITIVI. Ora gli stadi britannici sono pieni al 90 per cento,  e  due  spettatori su dieci sono donne. Gli stadi non hanno più barriere: il terreno di gioco è protetto solo dalla sua «sacralità», i tifosi ospiti siedono vicino a quelli di casa. Il calcio è tornato uno spettacolo per famiglie: si gioca il 26 dicembre, il 1° gennaio e a Pasqua. Gli impianti sono di proprietà dei club, con tutti i posti a sedere, moderni e accoglienti come teatri.

Mauro Suttora

Tuesday, January 15, 2002

Mappa degli euroscettici

MAPPA DEGLI EUROSCETTICI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 15 gennaio 2002

Londra. Altiero Spinelli? «Soltanto un pericoloso stalinista». La prova? «Nel suo Manifesto di Ventotene del 1941 scrisse: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”». 

Il padre dell’Europa unita scomparso nel 1986 è detestato a tal punto dagli euroscettici inglesi che uno di loro, Lindsay Jenkins, autore quattro anni fa del libro «Gran Bretagna tenuta in ostaggio: l’Eurodittatura in arrivo», gli ha dedicato un lungo saggio offensivo, in cui l’antifascista italiano viene definito sprezzantemente «padrino» dell’Unione europea, nonché «lifelong communist» (comunista per tutta la vita). 

Ma Spinelli non aveva abiurato la sua fede in Stalin nel ‘37? Sì, ammette Jenkins, «perché avendo tempo per pensare, in prigione ruppe col comunismo. Ma non si è mai allontanato troppo dalle sue radici, e infatti dopo 40 anni durante i quali la sua stella fu eclissata da altri europeisti come Jean Monnet, nel 1976 tornò sulla scena come deputato e poi eurodeputato del Pci. E, con il suo Club del Coccodrillo, è stato lui negli anni Ottanta il vero artefice del trattato di Maastricht e dell’unione monetaria».
 
Siamo nel principale covo degli euroscettici: gli uffici londinesi in Regent Street del Gruppo di Bruges. Più accaniti di loro contro Bruxelles, in tutto il mondo non ce n’è. Altro che Bossi, Martino, Tremonti. È qui che si distillano le analisi più velenose contro i tecnocrati dell’Unione Europea. È qui che i nemici dell’euro gioiscono ogni volta che il dollaro guadagna un decimo di punto sulla moneta continentale. Ed è qui che aspettano con fiducia il referendum sull’adesione all’euro ipotizzato da Tony Blair: «Se mai avrà il coraggio di farlo, quello sarà il giorno della sua rovinosa caduta», prevedono sicuri.

Perché Bruges? Perché tutto cominciò in quella città belga, dove nel settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò uno dei suoi tanti discorsi contro l’Europa «sociale». Che risultò talmente brillante e ben argomentato da passare alla storia. Al rettore del Collegio d’Europa che l’aveva invitata disse ironica: «Farmi parlare qui è come aspettarsi da Gengis Khan un discorso sulla coesistenza pacifica». 

Per niente intimorita dal trovarsi nella tana del lupo, la Lady di ferro scolpì nel marmo la memorabile frase: «Non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna per vedercele reimporre da un Superstato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». 

Il duello allora era contro Jacques Delors, presidente francese della Commissione, il quale da buon socialista vagheggiava un’Europa «sociale».

«Noi europei», gli ribatteva la Thatcher, «non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in dispute interne e arcani dibattiti istituzionali: niente può sostituire l’azione concreta. L’Europa deve competere in un mondo dove il successo va ai Paesi che incoraggiano l’iniziativa individuale, e non a quelli che cercano di ostacolarla. Per lavorare meglio di loro non c’è bisogno di centralizzare il potere a Bruxelles, né di far prendere le decisioni a una burocrazia non eletta. E’ paradossale che proprio mentre Paesi come l’Urss, i quali hanno cercato di governare tutto centralmente, stanno imparando che il successo dipende invece dal saper distribuire il potere e le decisioni lontano dal centro, qualcuno in Europa voglia muoversi nella direzione opposta».
 
Liberali contro socialisti, quindi. Proprio come nel giugno ‘85, quando al vertice di Milano la Thatcher uscì sconfitta da Bettino Craxi. «Vogliamo indietro i nostri soldi!», aveva esordito Maggie cinque anni prima sulla scena continentale. Craxi gliene concesse un po’, e ci mise sopra pure la scappatoia dell’opt-out (la clausola grazie alla quale oggi Gran Bretagna, Danimarca e Svezia rimangono fuori dall’euro). Ma in cambio i britannici dovettero permettere l’avvio del processo che portò a Maastricht nel ‘92, e poi alla Banca centrale europea.

Contro la quale, peraltro, lord Norman Lamont, già cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) thatcheriano e oggi vicepresidente del Gruppo di Bruges, non rinuncia a lanciare i suoi strali: «Evviva, siamo rimasti fuori dall’euro. Moneta che non ha mantenuto le promesse e aumenta il rischio di recessione in Eurolandia. La ricchezza pro capite in Gran Bretagna ha superato Francia e Germania. L’economia britannica registra risultati superiori. Abbiamo uno dei regimi monetari migliori del mondo. Sarebbe folle buttar via tutto ciò».

Se il cuore orgoglioso dell’euroscetticismo festeggia a Londra il «mancato disastro dell’euro, al quale sono bastati pochi mesi per perdere un quarto del proprio valore rispetto al dollaro», a Strasburgo sono 70 (su 626) gli eurodeputati che agiscono da quinta colonna del tempio del «nemico». 

Ai 36 conservatori inglesi (nel gruppo del Ppe) si aggiungono infatti i 18 del gruppo Edd (Europa delle democrazie e diversità) e dodici «non iscritti» francesi: metà lepenisti e metà del Mouvement pour la France fondato dall’ex giscardiano vandeano Philippe de Villiers (autore del libro «Vi sono piaciute le farine animali? Adorerete l’euro») dopo il referendum su Maastricht che vide i no al 49 per cento. Nel gruppo Uen (Unione Europa delle nazioni), assieme agli italiani di An che vorrebbero passare nel Ppe, ci sono i tre gollisti di Charles Pasqua.

Nel gruppo Edd i nove francesi anti-Ue sono a loro volta divisi fra i gollisti e quelli del partito «Caccia, pesca, natura e tradizioni» guidato da Jean Saint-Josse. Nigel Farage, ex broker 37enne, è il capo del piccolo Independence party inglese, che grazie al proporzionale ha eletto due eurodeputati nel ‘99, e che lo scorso giugno ha presentato 450 candidati anche alle politiche, ottenendo quasi 400mila voti. 

Ci sono poi i tre danesi del «Folkebevælgelsen mod Eu», il Movimento del popolo contro l’Europa fondato da Jens-Peter Bonde, che fin dagli anni ‘70 prende regolarmente il 20 per cento dei suffragi a ogni elezione europea.

Sarà dura anche per Copenhagen entrare nell’euro: dopo il referendum perduto un anno fa dagli europeisti, l’opinione pubblica non dà segni di resipiscenza. Un’altra eurodeputata anti-Ue danese è la teologa Ulla Sandbaek, del «Movimento Giugno», e contro l’euro è nata appositamente l’associazione «Euronej, keep the krone». Hanno  radice religiosa anche i tre europarlamentari euroscettici olandesi del Gpv, un partito collegato alla chiesa riformata.
 
Stessa musica in Svezia, dov’è il Centerpartiet a tenere alta la bandiera antieuropea. L’unico eurodeputato, Karl Eric Olssche, ha aderito al gruppo liberale. Il referendum sull’adesione alla Ue nel ‘94 passò a Stoccolma per il rotto della cuffia: 52 a 48%. Sulla home-page del sito internet del Partito di Centro troneggia un contatore che misura in diretta «le corone che diamo all’Europa», e che aumentano all’impressionante ritmo di cento al secondo: dall’inizio dell’anno son 120 milioni.

L’antieuropeismo trova adepti anche a sinistra. Fanno infatti parte del Team (The European Alliance of eurocritical Moments) i comunisti austriaci e tedeschi, i greci dell’Ean, i verdi polacchi e, fra i Paesi ancora in lista d’attesa per l’Ue, la Nova Stranka e il gruppo Neutro sloveno, che lo scorso settembre ha organizzato a Lubiana un campeggio giovanile antieuropeo. 

Anche a Tallinn, capitale dell’Estonia, si è svolto in ottobre un congresso euroscettico. E nella vicina Finlandia, unico Stato nordico entrato in Eurolandia, c’è il movimento «Vaihtoetho Eu» (Alternativa all’Eu) della signora Ulla Klotzer. In Irlanda il principale antieuropeista è Anthony Coughlan, professore del prestigioso Trinity College a Dublino.

Certo, agli euroscettici manca un vero leader continentale. Ma sarebbe una contraddizione in termini, un antieuropeo conosciuto in tutta Europa. Avrebbe potuto esserlo sir Jimmy Goldsmith, il brillante miliardario inglese noto in Italia soprattutto come padre dell’ex attrice Clio («La cicala»), nonché della splendida Jemina amica della principessa Diana e moglie del campione pakistano di cricket Imran Khan. Ma Goldsmith, amico di Gianni Agnelli (teneva anche lui la barca a Calvi, in Corsica), è morto di cancro al pancreas nel 1997, a soli 64 anni.

Ha visto la morte da vicino anche Jean-Pierre Chévenement, il socialista francese tre volte ministro e tre volte dimissionario che, tornato alla politica, si è smarcato dal Ps e si candida alle presidenziali di primavera con una piattaforma anti-Ue. 

Appoggiato dal famoso scrittore Max Gallo, i sondaggi gli accccreditano attualmente una popolarità del 40 per cento. Darà fastidio più a Lionel Jospin che a Jacques Chirac. A destra, oltre a Pasqua, De Villiers e Le Pen, a rastrellare gli umori chauvinisti della Francia profonda c’è sempre l’ex ministro e presidente gollista Philippe Séguin.

E in Italia? Nel ‘92 gli unici partiti anti-Maastricht furono Lega, Msi e Rifondazione. Oggi solo Bossi si permette uscite pubbliche contro Bruxelles. Antonio Martino era contrario all’euro, ma più che altro perché ne contestava l’artificialità come moneta di transizione: «O lo si fa in una sola volta, o non lo si fa affatto». 

Ma ormai è andata, l'euro ce l’abbiamo in tasca. Così, a parte qualche dubbio del più federalista di tutti, il Marco Pannella che plaude alle critiche di Ralf Dahrendorf contro l’Europa ridotta a burocrazia e chiede invano più potere per il Parlamento, l’euroscetticismo nostrano è soprattutto culturale.

Il suo principale bastione è l’associazione Italiani Liberi di Ida Magli e Giordano Bruno Guerri. Entrambi commentatori del Giornale, la prima ha un passato da ideologa femminista: «Scrivevo su Repubblica dalla fondazione, ma dopo un pezzo contro il Corano mi hanno cacciata. Stessa sorte all’Espresso: l’ultimo mio articolo, contro la Ue, non l’hanno mai pubblicato». In compenso il suo libro 'Contro l’Europa, tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht' (Bompiani, 1997) è arrivato a 30mila copie e otto edizioni. 

Un discreto successo sta avendo anche 'L’Unione fa la truffa' di Mario Giordano, direttore del tg Studio Aperto, pubblicato da Mondadori tre mesi fa. Un altro polemista anti-Ue è Alberto Mingardi, ventenne «anarcocapitalista» che scrive su Libero. Mancano all’appello i noglobal: fra i loro tanti bersagli Bruxelles figura raramente. Forse perché perché non è negli Stati Uniti.
Mauro Suttora

Friday, September 22, 1989

Rimandati in Comunità

Europeo, 22/09/1989

Mercato unico. a che punto e l' attuazione delle norme

I migliori : Gran Bretagna e Danimarca . i peggiori : Spagna e Portogallo . e l' Italia ? in ritardo . ma pronta per la corsa finale , tutta in salita

di Mauro Suttora

Mancano 1 . 200 giorni . Fra tre anni , tre mesi e tre settimane , il primo gennaio 1993 , nascera' il mercato unico europeo . " Niente piu' frontiere fisiche , tecniche e fiscali fra i paesi membri della Cee " , aveva promesso il libro bianco della Commissione (il governo comunitario di Bruxelles) approvato nello storico vertice di Milano del giugno ' 85 , quello in cui Bettino Craxi riusci' a piegare le resistenze antieuropeiste di Margaret Thatcher . A quattro anni di distanza , giunta oltre la meta' del cammino pignolamente programmato nell' 85 (il libro bianco si addentrava in minutaglie , fino a stabilire per esempio che la misura sulla filiazione dei bovini sarebbe stata adottata nell' 86 , che entro l' 88 sarebbero scomparsi i controlli di polizia alle frontiere interne , che nel ' 90 i visti per l' estero sarebbero stati unificati e che nel ' 91 sarebbe stata la volta delle leggi sull' estradizione) , la Commissione presieduta dal francese Jacques Delors (socialista) ha tracciato un bilancio del cammino realmente percorso . E il bilancio non e' positivo .

Le direttive da adottare per arrivare al mercato unico sono 279 . Finora , pero' , i ministri dei Dodici hanno trovato un accordo solo su 68 di queste . E sono appena sette le direttive effettivamente diventate leggi in tutti e dodici i paesi membri . Lunedi' 18 settembre si riunira' a Bruxelles il Consiglio dei ministri incaricati di realizzare l' unificazione dei mercati . Ma il commissario della Comunita' per il mercato unico , il tedesco Martin Bangemann (liberale) , ha gia' stilato una pagella dei buoni e dei cattivi .

I pessimi sono Spagna e Portogallo , di gran lunga gli ultimi per il grado di applicazione delle leggi comunitarie nel proprio ordinamento interno . Ma per i due paesi iberici vale un' evidentissima circostanza attenuante : sono stati gli ultimi a entrare nella Cee , nell' 86 , ed e' quindi naturale che debba passare del tempo prima di una definitiva integrazione . Delors e Bangemann , pero' , tirano le orecchie anche ad altri quattro paesi " che hanno fatto registrare ritardi meno importanti ma altrettanto preoccupanti " : Grecia , Belgio , Irlanda e Italia .

Nel gruppo dei " buoni " , stranamente , con un alto numero di direttive adottate , si ritrovano invece i due paesi meno europeisti : Gran Bretagna e Danimarca . Quest' ultima , in particolare , ha gia' adottato un buon numero di direttive . La Danimarca e' pero' proprio in questi giorni nel mirino di Bruxelles per la scandalosa vicenda del ponte tunnel di 13 chilometri che colleghera' Copenaghen alla terraferma : il 22 settembre comincera' alla Corte europea di giustizia il processo intentato dalla commissione Cee contro il governo danese . Il gigantesco ponte tunnel , che costera' ben 3 . 400 miliardi di lire , e' stato infatti affidato a un consorzio che ha vinto la gara d' appalto impegnandosi esplicitamente a " usare manodopera e materiali danesi " . Una clausola protezionistica che fa a pugni col mercato libero del ' 93 , e quindi subito impugnata con successo da un consorzio avversario che fa capo al francese Bouygues .

Anche la Germania Ovest viene criticata da Bruxelles perche' e' indietro nelle misure sull' " Europa dei cittadini " , cioe' quelle sulla libera circolazione delle persone (la polizia tedesca e' molto occhiuta nei controlli ai confini) e sul riconoscimento dei titoli di studio comunitari (i tedeschi sono convinti che le lauree dei paesi mediterranei vengano piu' o meno regalate a degli ignorantoni ) . L' Olanda invece e' indietro nell' armonizzazione del proprio sistema fiscale . La Francia , al contrario , proprio la settimana scorsa ha completato una misura che favorira' la Renault rispetto ai costruttori di auto esteri : ha abbassato l' Iva sulle automobili e su tutti gli altri prodotti tassati al massimo (profumi , pellicce , attrezzature fotografiche , hi fi) dal 33 al 25 per cento . Il governo francese ci perdera' qualcosa come 600 miliardi di lire all ' anno , ma si avvicinera' cosi' alla media europea , in vista dell ' unificazione finale dell' Iva . Comunque , anche la Francia e' nell' elenco dei buoni .

Invece l' Italia e' decisamente " cattiva " , nonostante tutto il nostro entusiasmo europeista . " Si' , e' vero " , ammette Pierluigi Romita , ex Psdi , adesso Psi , neoministro delle Politiche comunitarie , " abbiamo un arretrato di circa 200 direttive europee da recepire , e siamo inadempienti su 130 di queste , per le quali sono gia' scaduti i termini " . Questo ritardo ha provocato fra l' altro un aumento , durante il 1988 , delle " infrazioni " sanzionate dalla Commissione europea a carico dell' Italia : su un totale di 307 nella Cee , il nostro paese ha ricevuto ben 107 " avvertimenti " , ovvero il doppio di qualsiasi altro Stato membro .

Anche qui , paradossalmente , i due paesi meno entusiasti verso l' Europa unita , Danimarca e Gran Bretagna , possono vantare il minor numero di infrazioni . Il ministro Romita promette pero' un cambio di marcia nei prossimi mesi : " Finora c' e' stata una mancanza di procedure e di competenze precise per il recepimento delle direttive Cee , e la nota lentezza del nostro Parlamento nel modificare le leggi interne . Ma finalmente e' entrata in vigore la cosiddetta ' ' legge comunitaria' ' varata da Antonio La Pergola , il mio predecessore : nella prossima primavera avremo cosi' un' apposita ' ' sessione comunitaria' ' , subito dopo quella di bilancio , durante la quale il Parlamento si concentrera' esclusivamente sull' approvazione delle direttive , e sulla loro trasformazione in leggi dello Stato " .

Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti si e' impegnato espressamente , nel suo discorso di insediamento , a dedicare almeno un Consigio dei ministri al mese esclusivamente alle questioni europee . " Spero che il primo avvenga entro settembre " , dice Romita . Ma , senza aspettare primavera , 60 direttive potrebbero essere adottate gia' nelle prossime settimane se venissero approvate tre leggi di delega al governo giacenti in Parlamento , e due ferme in Consiglio dei ministri : " La Camera non impegnata nell' esame della finanziaria e del bilancio in autunno potrebbe facilmente smaltirle " , auspica Romita .

Per la verita' , sono gli stessi auspici che formulava anche La Pergola un anno e mezzo fa , quando c' era un arretrato di 250 direttive . Dopodiche' , un centinaio sono state recepite . Ma poiche' il ritmo di emanazione di direttive da parte comunitaria e' aumentato in vista del ' 93 , il divario non e' stato colmato . " Un' altra novita' adesso " , promette Romita , " sono i maggiori poteri dati al ministro delle Politiche comunitarie , che coordinera' tutte le materie attinenti alle direttive Cee . E ci vorra' anche una nostra maggiore presenza a Bruxelles nella fase di definizione delle direttive , che spesso non rispecchiano gli interessi del nostro paese " .

Un argomento scottante sara' , nei prossimi mesi , quello della regolamentazione dell' accesso in Italia per gli immigrati africani . Oggi il nostro paese e' sotto accusa a Bruxelles perche' le nostre frontiere sono un colabrodo . E finche' l' Italia rappresentera' il " ventre molle " dell' Europa , difficilmente paesi molto piu' severi in fatto di immigrazione come Gran Bretagna e Germania Ovest saranno propensi ad aprire del tutto le loro frontiere comunitarie .

Insomma , e' probabile che un' Europa piu' aperta al proprio interno diventi piu' chiusa verso l' esterno . " Ma al di la' del recepimento delle direttive " , avverte il ministro Romita , " il vero distacco economico da colmare per far entrare l' Italia in Europa e' il risanamento della nostra finanza pubblica . Con i nostri deficit di bilancio sara' molto difficile arrivare preparati alla libera circolazione dei capitali " .

Mauro Suttora