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Saturday, December 23, 2023

Harakiri civile. Gesù, Cucù e presepi: inclusività è aggiungere, non togliere
















Eliminare il nome di Gesù da una filastrocca natalizia per questioni di sensibilità religiosa non è un arricchimento culturale. Anzi, significa rinunciare alle proprie tradizioni in nome del politicamente corretto e della tolleranza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 dicembre 2023

Per essere davvero "inclusivi" bisogna includere. Dall'etimo latino "chiudere dentro", quindi riempire. Aggiungere, non togliere. Perché includere è l'esatto contrario di escludere, chiudere fuori, eliminare. Perciò le povere ignoranti maestrine che hanno cancellato il nome di Gesù dalla filastrocca natalizia sostituendolo con Cucù hanno ottenuto il risultato opposto a quello che si prefiggevano. Hanno impoverito i loro bimbi - tutti, cattolici e non, invece di arricchirli o di (rischiare di) offenderli.

Il portinaio albanese (musulmano) del palazzo dove abitavo a New York sotto Natale installava nell'atrio il presepe cristiano sotto un pino, collocandoci maliziosamente sopra una scintillante mezzaluna islamica vicino alla stella. E accanto piazzava pure una menorah, il candelabro ebraico a sette bracci. Completava questo festoso miracolo sincretico la scritta conglobatrice "Happy Christmas & Hanukkah!". Non per nulla gli intelligenti custodi negli Usa si chiamano "super"(intendent). 

Ma se il furbo e tollerante portiere avesse individuato fra i numerosi affittuari del suo condominio di Manhattan qualche induista o buddista, c'è da scommettere che avrebbe moltiplicato i simboli religiosi nella hall. Per aumentare le mance, e per prolungare le vacanze. D'altronde, il posto con i weekend più lunghi del mondo è Gerusalemme: da venerdì a domenica, grazie alle tre religioni monoteiste che rendono sacra la città.

E qui in Italia? È passato un quarto di secolo da quando, nel 1999, assistetti esterrefatto all'abolizione del presepe in un asilo di Milano. Eravamo già diventati così politicamente e religiosamente 'corretti' (o corrotti?) che cominciammo a vergognarci perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra. Ecco la cronaca che scrissi. Non è bello autocitarsi, ma già allora 40 mamme sviscerarono ogni possibile aspetto della questione. Nessuna virgola da aggiungere o cambiare: la stupidità è inossidabile. Anche quando ora qualche politica di destra vorrebbe difenderli tramite legge, i presepi.

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. In una scuola materna dell'evoluta Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona piccolomedioborghese) maestre e direttrice rifiutano di farlo per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi".

Dopo le proteste di diverse mamme viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, diversamente da altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa nulla del nostro buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no.  Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" . Una terza: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiede". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti".  Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti".  

Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..." [Romano Prodi, Francesco Rutelli e Antonio Di Pietro presentarono un partito con questo simbolo alle europee 1999, ndr]

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di una civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, sembra un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...) 

Wednesday, March 16, 2016

parla l'italiano che presentò Trump a sua moglie

PAOLO ZAMPOLLI, L'ITALIANO CHE HA FATTO CONOSCERE DONALD TRUMP ALLA SUA TERZA MOGLIE MELANIA KNAUSS

New York (Stati Uniti), 9 marzo 2016

di Mauro Suttora



Il Kit Kat Club era uno dei locali più in voga a Manhattan alla fine degli anni 90. E lì Paolo Zampolli, l’italiano proprietario dell’agenzia ID models, organizzò la festa annuale durante la settimana della moda newyorkese 1998: «Una delle mie modelle più carine era Melania, una slovena che avevo scoperto a Milano pochi anni prima».

Di cognome faceva Knavs, ma se lo cambiò in Knauss per dare un’idea di Germania. Allora, nell’età d’oro delle supermodelle, essere tedesche era un plus: Claudia Schiffer, Heidi Klum. «Anche Heidi faceva parte della nostra scuderia», ricorda Zampolli, «e dopo la separazione da Marla Maples, sua seconda moglie, Donald Trump frequentava volentieri i nostri eventi».

Paolo e Melania sono coetanei, allora erano entrambi 28enni. «Io stavo con la sua migliore amica, la modella ungherese Edit Molnar. Melania era seria e determinata, non le piaceva granché la vita notturna. Venne al party quasi per dovere. Era professionale, aveva una gran voglia d’arrivare. Più che nelle sfilate, eccelleva nei servizi fotografici. E una sua immagine era finita addirittura su un palazzo intero di Times Square».

«Quella donna è incredibile, la voglio»
Al Kit Kat Club quella sera Zampolli, Edit e Melania erano seduti sui sui divanetti della zona vip. Trump, allora  52enne, si presentò con una donna. Ma quando vide la modella slovena dagli occhi grigioblu, fu attrazione immediata: «È incredibile, la voglio», confidò a Edit.

«Ma Melania non cadde ai suoi piedi», continua Zampolli, «e quella sera non diede a Donald il suo numero di telefono. Non lo avrebbe mai fatto, con un uomo accompagnato a un’altra donna. Si limitò a prendere il suo».
Insomma, l’esatto opposto del già famosissimo miliardario. Noto anche per le sue fiammeggianti avventure di coppia: prima con la ceca Ivana, anche lei modella dell’Est, poi con Marla.

«Qualche settimana dopo Trump venne a una cena a casa mia, nella zona di Gramercy park. Ed ebbi una sorpresa: si presentò con Melania. Lei gli aveva telefonato, e la relazione era cominciata».

E via, nella tumultuosa vita notturna di New York: «Una sera prendemmo tutti una limousine nera di quelle lunghe per andare a cena al ristorante Cipriani con il mago David Copperfield».

Elicotteri, aerei: «A volte il venerdì sera Melania e Donald mi davano un passaggio sull’aereo privato di Trump per andare in Florida nei week-end. Allora aveva un Boeing 727, ora ha il 757. Era uno dei pochissimi con il permesso di decollare dall’aeroporto La Guardia, invece di dovere andare fino a quello di Teterboro nel New Jersey, riservato ai voli privati. Loro atterravano a Palm Beach e raggiungevano il palazzo di Mar-A-Lago, io proseguivo per Miami».

La coppia Melania-Donald resiste da 18 anni. Memorabile è rimasto il servizio fotografico del 2000 sul mensile GQ in cui lei appare nuda, sdraiata sul letto dell’aereo privato, indossando soltanto una collana. Titolo: Sesso a 10mila metri di altezza, Melania Knauss accumula le sue miglia.

Nel 2008, chiusa l’agenzia di modelle, Zampolli lavora con Trump nell’immobiliare. Ora si è messo in proprio ed è  ambasciatore all’Onu dell’isola Dominica. Sposato, ha un figlio di sei anni.

Anche Melania e Donald si sono sposati nel 2005, e il loro figlio Barron ha dieci anni. Al matrimonio parteciparono Hillary e Bill Clinton. Erano amici. Ora di meno: a novembre la sfida presidenziale potrebbe essere fra Donald e Hillary. E se quest’ultima perderà, Melania diventerà First Lady come lei.
Mauro Suttora

Saturday, February 25, 2006

Cin Cin, Cipriani

by Mauro Suttora

The New York Observer, February 25, 2006

 

Want to go to Cipriani?"

"Which one?"

"Downtown."

"Girls too flashy and young with men too old and ugly… I prefer the Cipriani on 59th Street."

"But that’s closed for renovation."

"A real pity."

My American girlfriend Marsha loves Cipriani, as long as it’s uptown. After she comes to pick me up at the Rizzoli bookstore on West 57th Street, she takes the so-called Bergdorf shortcut: enters on 57th Street, and gets out on Fifth Avenue. Sixty seconds, enough to lift her mood before crossing the Avenue to the restaurant.

I fancy everything Cipriani. It makes me proud of being Italian. "Ciprianesque" has become a new word in the American dictionary, meaning a peculiar kind of 21st century "dolce vita" happening at the eight restaurants and gala halls that Arrigo (Harry) Cipriani and his son Giuseppe own in Manhattan.

At 72, Harry is more New Yorker than Venetian. The legendary Harry’s Bar his father opened in Venice just off St. Mark’s square in 1931 - with clients such as Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles and Peggy Guggenheim - is the only one he keeps in Italy, together with Harry’s Dolci. Cipriani is today a $150 million world empire, with Hong Kong and Sardinia offspring.

But "nemo propheta in patria", no one is a prophet in his own land, and Cipriani senior is more revered in New York than in Venice: this year his city has turned down his mayoral candidacy, drowning in the usual parochial squabbles ("Baruffe chiozzotte", named them playwright Carlo Goldoni). No "doge" Cipriani, then: just emperor of the main industry (food and entertainment) of the main city in the world. Because a big slice of the Big Apple’s night life, twenty years exactly after they arrived in Manhattan, now belongs to them.With Le Cirque and the Plaza gone, more galas are flocking to their locations: the Rainbow Room on top of the Rockefeller Center, Cipriani 42, Dolci at Grand Central Station, the new Cipriani 23 in Madison Square, and Cipriani Wall Street (the former Regent Hotel), where they hold benefit concerts by Rod Stewart, Sheryl Crow or Beyonce with De Grisogono jeweler, and sell residence condos upstairs with the Witkoff Group, which is also their partner in the grandiose project of turning Pier 57 at 15th Street into the largest gala hall in America.

The "Ciprianesque crowd" is made up of glamorous girls and tanned men, simultaneously envied and despised by the old-money New York establishment. But this is not Cipriani’s only contribution to modern world vocabulary: Bellini (the cocktail) and Carpaccio (sliced raw beef), the two staples on their menus, are three-quarters-of-a-century-old.
"Did you copyright them?" I ask Harry Cipriani.

"Why should I?" replies the old libertarian, who hasn’t even bothered to secure the property of the name "Harry’s Bar" - so that the one in Florence pays royalties to the Paris one, and also the one in London has nothing to do with him.

"We are not jealous and have no secrets: we are even selling to the public our Bellini peach juice in cans."
It’s easy to obtain the classic Cipriani recipe: just add one part of prosecco (the sparkling Italian white wine) to three parts of the base juice, plus three ice cubes.

Harry is open to innovation, though, and he himself suggests variations: "Try ‘Sweet Emy’ with gin replacing prosecco and an orange slice, or ‘Sweet Maggie’ as an after-dinner with rum and a mint leaf, or ‘Sweet Annie’ with vodka".

And everybody knows the other Italian operatic "inis" born in the wake of Bellini: Puccini with tangerine instead than peach, and Rossini with strawberry. I even met a "Strawbellini" once...

Whatever the drinks and the food, Cipriani serves them exactly the same way all over the world: his tables are always low, the wooden chairs as uncomfortable as in Venice, and the cutlery smaller than normal. Even glasses are scaled down: "My father wanted them like that, to please the customer, and I didn’t change anything," says Harry, who got a law degree, has written five books and is a karate black belt. He could have practiced a few months ago, when a group of leftist no-globals stormed into Venice’s Harry’s Bar, ate a hefty meal and disappeared without paying, leaving a note: "Charge NATO. No war in Iraq." Cipriani made the news because, in a bout of anger, he declared that his absent-minded waiters would have to pay the bill. After a few minutes he pardoned them.

He is still angry, though, with some restaurant critics: "Come back without a condom on your tongue," he replied to a bad review in the New York Magazine. And to the London Zagat guide, which has accused his London restaurant of being "good only for tea," he retorts: "After your put-down, I am serving 400 meals a day: please go on..."

Please Marsha, leave your Upper East Side fief and come to West Broadway: let’s enjoy life at Cipriani Downtown.

Mauro Suttora is the U.S. bureau chief of Milan's weekly magazine, Oggi and a New York Observer columnist.