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Tuesday, May 30, 2023

Inutile intestardirsi sullo status quo in Kosovo: non funziona

Non c'è peace-keeping né peace-enforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia. Una soluzione è possibile e va cercata, perché Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dalla Ue

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 maggio 2023  

Si può dire? Questa volta hanno ragione i serbi. I quattro paesi nel nord del Kosovo che protestano contro l'insediamento di sindaci di etnia albanese sono serbi al 90%. Il voto di un mese fa è stato boicottato in massa, cosicché i sindaci hanno raccolto appena il 3%. Non v'è chi non veda che non hanno alcuna possibilità di governare.

Sì, le proteste sono state violente: lanci di sassi e molotov. Ma non più di quanto lo siano quelle che devastano periodicamente il centro di Parigi. La differenza è che i soldati non sono addestrati per fare i poliziotti, e quindi non possono mantenere l'ordine in situazioni infuocate. Devono sapere proteggersi con caschi e scudi, effettuare cariche di alleggerimento, affrontare gruppi di teppisti in continuo movimento.

È un mestiere diverso da quello dei militari. Possiamo solo ringraziare il senso di responsabilità dei comandanti italiani se non ci sono state vittime dall'una e dall'altra parte. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è creare un martire serbo. 

I soldati Nato sono in Kosovo da un quarto di secolo. Ero con gli italiani nel 1999, quando fummo accolti come liberatori dagli albanesi vessati dal presidente fasciocomunista serbo Slobodan Milosevic. Che è stato processato come criminale di guerra e si è suicidato prima della condanna. Ma oggi all'Aja il Tribunale internazionale sta processando l'ex presidente del Kosovo liberato Hashim Thaci, accusato anch'egli di successive violenze contro la minoranza serba. 

La soluzione del nodo kosovaro sarebbe semplice: dare a Belgrado la zona a maggioranza serba di Mitrovica, in cambio di compensazioni territoriali nei paesi di confine albanesi rimasti in Serbia. Inutile intestardirsi nel voler mantenere uno status quo che ha ampiamente dimostrato di non poter funzionare.

Vladimir Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dall'Unione Europea. I filorussi serbi soffiano sul fuoco, ora che sono passati dall'aggressione della minoranza albanese alla difesa della minoranza serba in Kosovo. Sta a noi evitare un nuovo Donbass casalingo. Perché a est di Trieste purtroppo le etnie contano ancora. Non illudiamoci di coprirle con militari Nato mandati allo sbaraglio in una missione che non è più la loro: non c'è peacekeeping né peaceenforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia.

Saturday, September 03, 2022

Pochette rossa la trionferà. La quarta formidabile trasformazione di Conte Zelig

Presi dall'ascesa della Meloni, c'eravamo dimenticati del populismo di sinistra. Poi arriva il leader M5s nell'ultima indimenticabile interpretazione: il Masaniello pacifista

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 3 settembre 2022    

Si chiamerà Coltano il luogo della riscossa grillina? Il 14 settembre in questo paesino vicino a Pisa si terrà una manifestazione nazionale contro la costruzione di un centro addestramento dei carabinieri. Il mondo pacifista si è mobilitato contro il progetto, finanziato a marzo dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) e previsto inizialmente dentro il parco di San Rossore. Ma neanche ora che è stato spostato e riqualificherà stalle abbandonate ridotte a ruderi, senza consumo di suolo, gli antimilitaristi lo accettano. In prima fila a protestare ci saranno Giuseppe Conte e tutto lo stato maggiore del Movimento 5 stelle, che ha riscoperto il fascino del populismo. 

Pochi giorni fa Paolo Mieli sul Corsera si stupiva di come nessun partito sembri più innalzare le bandiere del no alla guerra in Ucraina, che solo cinque mesi fa infiammò il nostro dibattito pubblico. Detto fatto: ecco Conte riempire il vuoto, e proporsi come il Melenchon italiano. Perché mentre tutto il mondo osserva stupito l'affermarsi in Italia del populismo di destra, lanciato verso il governo, c'eravamo quasi dimenticati che il populismo può stare anche a sinistra. E che non rimarrà confinato ai verdi estremisti di Fratoianni e Bonelli, al comunista Rizzo o a Italexit di Paragone.

Chi meglio di Conte per interpretare questo nuovo ruolo? La parte che si accinge a recitare è infatti la quarta in quattro anni. Tutte diverse, ma coperte con efficace versatilità dal facondo politico pugliese. Prima l'alleanza gialloverde di destra con la Lega; poi il suo opposto, a sinistra col Pd; quindi la fase moderata della 'responsabilità' sotto Draghi; infine l'agitazione contro le spese militari e la difesa del reddito di cittadinanza. L'ennesima svolta sembra pagare, nei sondaggi. Non più sotto il 10%, i grillini si sono issati a tallonare il 13% leghista. E a chi lo accusa di trasformismo l'Avvocato del popolo (il popolo, appunto) replica soave: "Siamo coerenti con il nostro no all'aumento del bilancio bellico chiesto dalla Nato". 

Già in primavera questa mossa solitaria del M5s gli permise di ammiccare alla maggioranza assoluta degli italiani, contrari all'aumento. Ma allora eravamo nel pieno dell'aggressione di Putin all'Ucraina, e di fronte alle fosse comuni di Bucha la necessità dell'aiuto militare a Kiev s'imponeva. Ora invece, con lo stallo dopo mezzo anno di guerra e soprattutto col terrore per il gas e l'inflazione, è facile fare demagogia: ma come, volete spendere per la guerra invece di aiutare i cittadini? Volete aprire una nuova base militare a Coltano, proprio di fronte a quella Usa di Camp Darby?

Come tutti i populisti, Conte non entra nel merito: ai carabinieri servono veramente 70 ettari per addestrare i propri reparti speciali e cinofili? Può darsi di sì, oppure che bastino meno ettari. Bisogna intaccare la pineta di San Rossore? Certo che no, e infatti il progetto è stato sposato. Non si possono utilizzare le tante caserme vuote? Certo che sì. Ma il 14 settembre lo slogan dei pacifisti sarà: "Nessuna nuova base in nessun posto". 

Così ha insegnato Peron: slogan semplici e chiari. Egualmente per il reddito di cittadinanza: non ha "abolito la povertà", non fa funzionare meglio i Centri lavoro, premia i pigri. Ma come manna dal cielo funziona egregiamente. E la carità statale al popolo non costa niente ai politici. Anzi, Evita è diventata un'eroina del popolo. Di destra, di sinistra? Che importa. L'Argentina, fino ad allora uno dei Paesi più ricchi del mondo, dopo il peronismo ebbe il bilancio sfasciato per sempre. Perché quando i populisti sventolano il motto "nessuno deve rimanere indietro", troppo spesso è capitato che tutti lo siano rimasti. O quasi tutti: certo non quelli ai quali è  bastato cambiare immatricolazione al proprio jet privato, per continuare a volare felici.

Wednesday, March 28, 2007

Impero militare Usa

L’impero delle 737 basi militari

Il Diario, 23 marzo 2007

di Mauro Suttora

Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».

È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.

Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.

Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...

Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».

Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.

Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.

Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.