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Tuesday, October 01, 2024

Dov'era l'Onu in questi decenni? Non si può chiedere a Israele di fermarsi, ora

C'era una risoluzione da far rispettare e che non prevedeva la presenza di Hezbollah in un'area che doveva essere "priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze Unifil"












di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 ottobre 2024 

I venti chilometri di Libano fra il fiume Litani e Israele sono fra i più belli del Mediterraneo: i castelli di Tebnin e Beaufort, le dolci colline coltivate, il quadrimillenario porto di Tiro. Chi viaggia qui o nella vicina valle della Bekaa - come mi è capitato - si stupisce per la distanza fra l'immagine orrenda delle cronache giornalistiche e l'idilliaca tranquillità che sembra regnarvi.

Da 46 anni l'Onu si è incaricato di mantenere la pace (peacekeeping) in questa zona, cercando di smilitarizzarla dopo il primo attacco nel 1978 di un commando palestinese contro kibbutz israeliani, e la risposta di Tel Aviv. 

Missione fallita più volte: nel 1982, quando la rappresaglia israeliana si spinse fino a Beirut, occupando mezzo Libano; nel 2000, quando al ritiro israeliano non corrispose un simmetrico ritiro delle milizie di Hezbollah; nel 2006, quando scoppiò la seconda guerra del Libano; e infine oggi. Quasi mezzo secolo scandito da tante risoluzioni Onu che hanno determinato i compiti dei caschi blu Unifil (United Nations interim force in Lebanon, e interim non è uno scherzo). 

L'ultima nel 2006, la numero 1701. Leggiamola: "Il Consiglio di sicurezza chiede a Israele e Libano l'adozione di misure atte a prevenire la ripresa delle ostilità, che preveda l'istituzione nella zona compresa tra la Linea Blu [la frontiera libano-israeliana, ndr] e il fiume Litani di un'area priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze Unifil

- la piena attuazione degli accordi di Taif e delle risoluzioni 1559 del 2004 e1680 del 2006, che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano, cosicché non possano esserci armi o autorità in Libano se non quelle dello Stato libanese

- l'istituzione di un embargo internazionale sulla vendita di armi e materiali al Libano". 

Non v'è chi non veda che invece anche negli ultimi vent'anni Hezbollah ha imbottito questa teorica zona cuscinetto con centinaia di missili e tunnel. Gallerie larghe non pochi metri come quelle di Hamas a Gaza, ma anche dieci metri, in cui passano camion. Tre mesi fa il partito di Dio (ripetiamo: il partito di Dio) ha imprudentemente pubblicato video in cui orgoglioso mostrava questi 'manufatti' underground. Quanto allo stato e all'esercito libanese, è notorio che non esistono.

Sorgono quindi spontanee due provocatorie domande: dov'erano i soldati Onu in questi decenni? E perché sembra essere Israele, adesso, l'unico a far rispettare la risoluzione 1701, seppure coi suoi metodi spicci?  

Non è una critica ai 10mila militari Unifil, fra i quali i nostri 1.200 italiani. La missione Onu ha avuto 334 morti in Libano in questi 46 anni (sette italiani). È quindi comprensibile che le regole d'ingaggio, decise a New York, non prevedessero di opporsi ai miliziani Hezbollah quando, presumibilmente di notte, scavavano e installavano i razzi iraniani a ridosso d'Israele. Quieto vivere, quieta non movere (cit. Andreotti). In fondo, c'è differenza fra peace keeping e peace enforcing (imposizione della pace).  

Ma davanti a una violazione così patente della risoluzione Onu, c'è da chiedersi se la sua lunga e costosa missione di pace abbia fatto qualcosa di utile, o se sia stata platealmente presa per il naso da Iran e Hezbollah.

Così adesso, all'abituale e un po' stucchevole coro contro gli israeliani che dovrebbero fermarsi subito, loro potrebbero rispondere con una canzone dei Carpenters: "We've only just begun", abbiamo appena cominciato.

Friday, March 23, 2007

Spedizioni militari italiane

TU CHIAMALE, SE VUOI, UMANITARIE

L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...

di Mauro Suttora

Diario, 23 marzo 2007

Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?

Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.

È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.

La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.

Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.

Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.

Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.

Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).

E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.

Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.

Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?

L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.

Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.

La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.

Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.

I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.

Le penne monarchiche

In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”

L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...

Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.

Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?

Mauro Suttora