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Sunday, December 11, 2022

La mini naja di La Russa già una volta è stata un fiasco. Buona per chi voleva il basco da paracadutista



La introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità. "Così i giovani potevano mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini"

di Mauro Suttora

Huffpost, 11 dicembre 2022

Il 15 dicembre 1972 una legge permise l'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio in Italia. Per curiosa coincidenza, a mezzo secolo esatto di distanza il presidente del Senato Ignazio La Russa torna alla carica riproponendo la sua mini-naja volontaria, che già introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Questa volta dura sei settimane invece di tre, ma è prevedibile che provocherà le stesse polemiche di allora: "Ecco il militarista che resuscita i campi Dux di mussoliniana memoria!".
 

Quella mini-naja si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità: "Serve solo ad alimentare finanziariamente le associazioni d'arma", scrisse Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa, "che dalla fine del servizio di leva nel 2004 non hanno più migliaia di nuovi iscritti ogni anno, e stanno invecchiando. I giovani dopo sole tre settimane di corso possono mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini, privilegio un tempo riservato ai veri soldati".

Poi però l'idea fu adottata anche a sinistra, dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd) che non la ripristinò, ma disse che era comunque un buon modo per avvicinare i giovani alle forze armate. E anche il buon La Russa è stato umanizzato dall'imitazione di Fiorello, che lo ha dipinto come un innocuo fanatico non più dei manganelli, ma delle divise: da ministro le indossava ogni volta che poteva, quando andava a visitare i nostri soldati in Iraq o Afghanistan. 

Quindi adesso passare 40 giorni in caserma non appare più come un passatempo per criptofasci. Ma a cosa servirà? A familiarizzare i giovani con pistole e fucili? Un corso rapido per imparare a sparare può sicuramente essere completato in sei settimane. Così poi sarà più facile passare all'azione, come il signore di Fidene stamane.

Forse le più favorevoli a veder partire i propri figli, anche per periodi più lunghi, sono le mamme d'Italia. Le quali magari auspicano per i loro bamboccioni un contatto ravvicinato con i mitici caporali e sergenti che se non altro insegnavano loro a farsi da mangiare e rifarsi il letto. 

Ma per questo ci vorrebbero trasferimenti dall'altra parte d'Italia, mentre ormai anche il servizio civile volontario (8-12 mesi in un ente a 444 euro mensili per 25 ore settimanali, ora lo stanno facendo in 44mila) è a domicilio, nella stessa città di residenza. Insomma, i mammoni viziati non schiodano, restano a casa.

Invece La Russa pensa sicuramente a qualcosa di più virile. E nell'anno in cui Putin ha sdoganato dopo otto decenni l'idea di guerra in Europa, probabilmente ha centrato lo zeitgeist. Lo spirito del tempo spinge ad andare a vedere da vicino, se non altro per curiosità, quegli aggeggi che c'eravamo dimenticati esistessero, e che invece entrano in funzione per difendersi quando un dittatore invade un Paese: le armi. 

Quindi, se proprio vogliamo far familiarizzare i nostri pargoli con la nuova realtà bellica, non limitiamoci a mandarli dai simpatici alpini con le loro folcloristiche penne ed epiteti etilico-maschilisti. Organizziamo piuttosto stage educational per studiare, ad esempio, le blindature dei nostri ottimi veicoli Lince che si stanno fronteggiando nel Donbass.  Ne sono dotati sia i russi che gli ucraini: ai primi li abbiamo venduti, ai secondi regalati.

Oppure una mini-naja negli impianti Leonardo, apprezzatissimo esportatore di sistemi d'arma. È lì che si costruisce il futuro, con frontiere tecnologiche d'avanguardia. Eccellenze italiane: come moda, design, cibo, vino. Con notevoli sbocchi occupazionali, altro che punti in più per qualche noioso concorso parastatale. 

Friday, December 09, 2022

Odo falchi far festa. Grazie a Putin aumento record delle spese militari Usa



Hanno vinto loro, un voto quasi plebiscitario alla Camera su un incremento che supera perfino le richieste del presidente Biden. Soltanto la Cina tiene i livelli di Washington, che a questi ritmi presto arriveranno a mille miliardi

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 9 dicembre 2022  

Hanno vinto i falchi. La Camera Usa ha aumentato le spese militari dai 780 miliardi di dollari di quest'anno a 858 per l'anno prossimo. Un incremento impressionante: supera di ben 45 miliardi perfino la richiesta del presidente Joe Biden, il quale si sarebbe accontentato di 813 miliardi. Il dibattito ora passa al Senato, ma l'ampiezza bipartisan del voto alla Camera (350 sì contro 80 colombe) esclude sorprese. 

L'aumento-monstre ha due cause: la guerra in Ucraina e l'inflazione. 

Il bilancio militare 2023 prevede altri 800 milioni di armamenti per l'Ucraina. Che però sono una goccia rispetto ai 60 miliardi erogati extra-bilancio quest'anno in aiuti per Kiev, sia civili che bellici. Quanto all'inflazione, attualmente all'8% negli Usa, verrà compensata da un +4,6% per gli stipendi dei quasi tre milioni di militari statunitensi. 

Festeggiano i deputati democratici e repubblicani di decine di Stati: tutti quelli che hanno fabbriche d'armi nei propri collegi. La Lockheed sfornerà altri aerei F-35, la General Dynamics parteciperà all'espansione della marina da guerra: da 296 a 321 navi entro il 2030. Anche la nostra Fincantieri ne varerà qualcuna, con la sua sussidiaria americana.

Nel 1999 le spese militari statunitensi erano a 298 miliardi. Poi una progressione a razzo: le guerre in Iraq e Afghanistan le fecero lievitare fino ai 533 miliardi del 2005. Con Barack Obama l'aumento fu più contenuto: 633 miliardi del 2015. Sotto Donald Trump un altro salto di cento milioni annui. E ora le nuove minacce: soldati Usa in Europa aumentati da 80 a 100mila; dieci miliardi in più per Taiwan; il budget per le armi nucleari che passa da 43 a 51 miliardi annui.

Soltanto la Cina sta incrementando le spese militari quanto Washington: raddoppiate in pochi anni, fino agli attuali 300 miliardi (come l'intera Europa). La Russia dichiarava una settantina di miliardi prima della guerra, ora Putin ne stanzia 140 per il 2023.  Ma gli Usa sono irraggiungibili: a questi ritmi, fra pochi anni arriveranno a mille miliardi. Quanto tutti gli altri stati della Terra messi assieme. 

Friday, September 11, 2020

11 settembre: 19 anni dopo, il mondo non è mai stato così pacifico

di Mauro Suttora

Huffington Post, 11 settembre 2020

Avremmo tutti firmato perché finisse così. L′11 settembre 2001 eravamo convinti che fosse iniziata la terza guerra mondiale, occidente contro islamisti. Dopo l’attacco alle Torri ci preparavamo a lustri di attentati, conflitti, infiniti e immensi lutti. Invece, 19 anni dopo, il mondo non è mai stato così pacifico. Perfino in Medio oriente non combatte più nessuno. In Yemen gli houthi filoiraniani al massimo sparacchiano droni verso l’Arabia Saudita.

Certo, mezza Africa è infestata da Boko Haram, Shebab e altre bande di Allah. A Bagdad e Kabul ci sono gli endemici attacchi kamikaze. Ma andate a Bassora: non è mai stata così ricca e fiorente, così come i due terzi dell’Iraq (il curdo e lo sciita). Nessuno lo sa, perché solo le brutte notizie fanno notizia. E in Afghanistan chi sono i peggiori nemici dei talebani? L’Isis. “Finché i se copin fra de lori”, dicevano crudelmente a Trieste commentando la guerra jugoslava.

Insomma, “mission accomplished”, missione compiuta, come avventatamente proclamò Bush junior nel 2003? No, i soldati Usa sono ancora tremila in Iraq e ottomila in Afghanistan, dove anche l’Italia ha 800 militari. Ma sono residui, e proseguono le trattative con gli eredi del mullah Omar.

Da noi in Europa sono passati quattro anni dagli ultimi grossi attacchi a Nizza, Bruxelles e Parigi. Abbiamo imparato a difenderci con i jersey dai camion assassini, sappiamo che contro i pazzi isolati che brandiscono coltelli c’è poco da fare se non schedare i sospetti.

Sicuramente ci sono ancora centinaia di madrasse nel mondo che predicano la guerra santa, e in qualche nostro garage imam fanatici incitano alla violenza. Ma l’ultimo islamista bloccato e ucciso in Italia, a Sesto San Giovanni, risale al 2016 (il killer di Berlino in fuga).

Fra un anno ricorderemo l’anniversario pieno delle Torri gemelle, ma anche il decennale dell’eliminazione di Osama (che i nostri figli ormai confondono con Obama). Come tutti i virus, anche l’estremismo islamico ha avuto la sua seconda ondata, l’Isis. Che gli Usa questa volta hanno avuto l’intelligenza di combattere senza “boots on the ground”, niente stivali sul terreno. Il lavoro sporco lo abbiamo fatto fare a dei mascalzoni relativi: Assad, Putin, Erdogan. E ai curdi siriani, che poi abbiamo tradito vergognosamente, e questo è stato inescusabile.

Ricordate quanta paura avevamo nel 2015, durante i sei mesi dell’Expo milanese? Sembra un’altra era. Tocchiamo ferro. Congratuliamoci con i nostri servizi segreti e investigatori che hanno annullato la bestia jihadista. Quanti attentati hanno sventato in Italia, Europa, Usa? Impossibile saperlo. Le buone notizie non fanno notizia. Come diciamo per il Covid: non abbassiamo la guardia. Ma pare proprio che dall′11 settembre 2001 fra i musulmani abbia prevalso la stragrande, pacifica maggioranza silenziosa.

Mauro Suttora

Wednesday, October 15, 2014

Come si vive sotto l'Isis


VITA QUOTIDIANA A RAQQA, NUOVA CAPITALE DEL CALIFFATO

di Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2014

Fino a due anni fa Raqqa era una tranquilla città di 200mila abitanti in mezzo al deserto siriano. Sulle rive dell'Eufrate crescevano le palme, l'acqua irrigava i campi di cotone. Gran traffico di camion di contrabbandieri fra Siria, Iraq e Turchia. Poi è arrivata la guerra civile contro il dittatore Assad. E nel 2013 sono arrivati gli estremisti musulmani. Prima quelli di Al Nusra, sezione siriana di Al Qaeda. Poi, ancora peggio: i guerrieri santi dell'Isis (Stato islamico di Iraq e Siria). Che hanno l'obiettivo di tornare indietro di 1.400 anni. Al Califfato fondato da Maometto.

Raqqa fu capitale di quel Califfato per tredici anni, a cavallo dell'800 dopo Cristo, quando da noi c'era Carlo Magno. Il califfo Rashid la fece diventare più bella e più grande di Bagdad e Damasco. Poi piano piano la sabbia la inghiottì. Oggi è ridiventata capitale del Califfato. Quello dei tagliagole di ostaggi occidentali e degli sterminatori di cristiani e curdi.

Da mezzo mese Raqqa viene bombardata da aerei americani, sauditi e degli Emirati arabi. «Ma non fanno molti morti fra i civili», dicono gli abitanti sui blog che sfuggono al controllo degli estremisti. «Le bombe, diversamente da quelle di Assad, sono precise e colpiscono obiettivi militari e dell'Isis. Però i jihadisti li hanno abbandonati per nascondersi fra noi. Le loro famiglie le hanno già spedite via».

Di giorno, la vita continua. Una misteriosa donna completamente velata tranne una fessura sugli occhi (è il niqab nero) ha messo su internet un video di due minuti girato con telecamera nascosta. La si vede mentre viene bloccata in strada da un'auto della polizia. Un uomo armato la ammonisce: dovrebbe comportarsi meglio in pubblico. La ragione dell'avvertimento? Il suo viso, seppure nascosto dal velo, si vede ancora troppo. Lei prontamente si scusa per la troppa trasparenza, e l'uomo a sua volta replica: «Bisogna prestare molta attenzione nel coprirsi. Dio ama le donne che sono coperte».

Non è un avvertimento bonario. Come in Arabia Saudita e in Iran (i due feudi contrapposti di sunniti e sciiti che si stanno combattendo in Medio Oriente), anche l'Isis ha introdotto nei territori occupati di Siria e Iraq la sharia, la legge religiosa. A Raqqa la corte islamica che la somministra si è installata nel centro sportivo. Ma i tagliagole hanno dovuto importare dall'Egitto, per le preghiere e le prediche del venerdì, un imam abbastanza estremista per loro: evidentemente nei laici Siria e Iraq non ne hanno trovati.

«In qualsiasi momento una persona normale può essere presa e giustiziata senza validi motivi», avverte Abu Ibrahim Raqqawi, abitante di Raqqa. «L’Isis incassa le tasse dai cittadini e controlla che tutti paghino. Chi evade le imposte viene ucciso nella piazza principale: l’esecuzione è pubblica e si svolge il venerdì dopo la preghiera».

Poi i fanatici appendono i cadaveri ai crocifissi, oppure ne tagliano le teste e le infilzano sulle inferriate del giardino pubblico in centro. Allo «spettacolo» assistono famiglie con bambini.

I peccati più gravi commessi dalle donne (adulterio) sono puniti con la lapidazione. Quelli veniali con la frusta. Le donne in pubblico non possono fare quasi più nulla. Se sono sposate devono essere accompagnate dal marito, e mostrare il certificato di matrimonio agli agenti. Oppure devono farsi scortare dal padre, da un fratello, da un cugino. Guidare un'auto non se ne parla, come in Arabia Saudita. Le femmine, piccole e grandi, non possono neppure sedersi sulle altalene: provocazione che spingerebbe gli uomini a molestarle.

I ristoranti che non separano uomini e donne, osano offrire vino (anche solo ai clienti stranieri non musulmani), o ancora peggio superalcolici, vengono bruciati e chiusi. Vietate le tv satellitari: con la scusa di controllare se ci sono i poliziotti possono piombare nelle case private a qualsiasi ora. Segregazione uomo/donna in tutti gli ambienti pubblici e di lavoro. L'Isis ha installato molte telecamere per sorvegliare perfino i marciapiedi.
     
Alcuni divieti sono grotteschi: niente elemosina ai mendicanti durante il Ramadan, proibito pregare per la propria squadra del cuore o indossare cravatte, usare cosmetici, bikini in spiaggia per le donne e stare a torso nudo per gli uomini. A San Valentino, per ostacolare la festa degli innamorati, i fiorai hanno dovuto tenere chiusi i negozi, le rose rosse non potevano essere vendute neppure per strada, e così i peluches e i cioccolatini. Nel mirino anche i commercianti che espongono manichini, proibiti perché "provocano" bassi istinti. Niente trucco per le donne che appaiono alla tv di Stato.

L'Isis ha emanato quattro decreti appositi per vietare musica, sigarette, pipe (anche i narghilè al semplice vapore acqueo), e far chiudere i negozi dieci minuti prima dell'inizio delle preghiere. I pochi cristiani non fuggiti devono pagare una tassa per praticare, ma non in chiesa: solo in privato. Anche le altre minoranze (alauiti, drusi) sono scappate.

«Non pochi si sono rifiutati di obbedire», dice Abu al-Bara’a al-Furati, studente di 22 anni. «Ma la gente tutto sommato è contenta perché l'Isis garantisce ordine pubblico, sicurezza, acqua, pane da quattro forni diversi ed elettricità: prima dei bombardamenti non c'erano più di sei ore di blackout giornaliero». I commercianti apprezzano che siano svanite le stecche che dovevano pagare ai funzionari corrotti di Assad.

A Raqqa anni fa un originale aveva aperto un casinò. Ovviamente i fondamentalisti lo hanno chiuso subito. I weekend andavano dal venerdì al sabato, ora sono giovedì e venerdì per distinguersi da cristiani ed ebrei. Gruppi di educazione islamica organizzano festival nelle moschee per incoraggiare i giovani a unirsi alla causa. Ai ragazzi sono mostrati video di decapitazioni per abituarli alla violenza, e avvertirli delle conseguenze se resistono ai jihadisti.
 
Nel filmato si vedono uomini armati con fucili d'assalto e kalashnikov andare ovunque in città. Anche una donna, che porta i bambini al parco, è armata di fucile: pronta a difendere, come tutti gli altri, il loro rigido e spaventoso regime. Centocinquanta donne francesi hanno scelto spontaneamente di lasciare la patria per vivere nello Stato Islamico. Entrando in un internet cafè si sente una di esse parlare con la famiglia: «Non voglio tornare indietro, mamma, ve lo dico senza mezzi termini. Dovete farvene una ragione, io non torno. Non c'è nulla di cui aver paura, sto bene qui. Tutto quello che si vede in tv è falso. La tv esagera sempre».

I combattenti stranieri che infestano Raqqa, spesso più crudeli e fanatici dei locali, vengono da Sud Africa, Olanda, Australia, Cecenia, Inghilterra, Germania, Balcani, e anche dagli Stati Uniti. Dicono che siano loro a tenere prigionieri gli ostaggi internazionali, fra i quali potrebbero esserci le due ragazze italiane Greta Ramelli di Varese e Vanessa Marzullo di Bergamo. Ma la voce più agghiacciante è che il boia che ha segato la gola a tre ostaggi opererebbe in periferia, in un campo vicino a un cimitero, non lontano dall’università Altihad, ateneo della città.
Mauro Suttora

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 16, 2003

Iraq and the U.N.

THE LAST THING IRAQIS NEED

Newsweek, April 21, 2003

Keeping luxury hotels occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising

by Mauro Suttora

http://www.newsweek.com/last-thing-iraqis-need-134083

Unfortunately, I am a lousy tennis player. Otherwise I would have had a great time in Sao Tome, a wonderful equatorial island off the Atlantic coast of Africa. My friend, a United Nations employee, played every day, early in the morning and at twilight, when the temperature was bearable. The tennis courts belonged to the only five-star hotel in the capital. The rest of the hot day, he retreated into the air-conditioned hotel, where he sometimes held meetings. I was the only 'normal' guest. All the others belonged to one U.N. agency or another, and I found this to be true for many of the luxury hotels in Africa. Keeping them occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising.

I am amazed that as Saddam Hussein statues were toppled all over Iraq last week, all my fellow Europeans could talk about was the importance of U.N. rule in the country, and the danger of a long-term American occupation. They've got it backward. Wherever the United Nations goes, it tends to stay forever, and to perpetuate problems. It's been in Bosnia for eight years now, in Kosovo and East Timor for four, in the Palestinian territories since '48. In Gaza the U.N. agency running the refugee camps is the main purveyor of jobs. I am a refugee's son myself: my father fled the territories that Italy lost to Yugoslavia in 1945. After a few months all 350,000 refugees had found jobs, houses, new lives. There was no U.N. presence, which was perhaps their good fortune.

Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia or Kosovo. No solution for Cyprus after almost 30 years. Nevertheless, 'U.N.' has become a magic phrase, the last redoubt for pacifists. Even my paper - the largest Italian weekly, normally quiet and middle-of-the-road - has turned pacifist: for Christmas it published an article by a Catholic bishop against the war, and as counterbalance an article by a former communist against the war.

I was once a pacifist demonstrator myself, fighting the placement of U.S. nuclear cruise missiles in Sicily. But now I don't mind anybody getting rid of Saddam, by any means necessary. We Italians should know: Rome invented the word 'dictator', the first modern dictator was Italian (Adolf Hitler was a pupil of Benito Mussolini) and even Silvio Berlusconi, our current premier, has been called by his adversaries the model of the postmodern media dictator. Nevertheless, Europeans don't care anymore about dictators (or freedom). They rave about peace. They crave the United Nations.

Now, pardon my bluntness, but why should we condemn the poor Iraqis to be governed by lazy and incompetent bureaucrats? It's no secret that the United Nations has more tolerance than most for petty despots: Libya currently holds the presidency of the U.N. Human Rights Commission. The U.N. bureaucracy is a Gogolian monster with 65,000 employees and a budget of $2.6 billion a year. For each problem the United Nations has set up a special agency, and this week in Vienna the UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - the longer the name, the more wasteful the body) is discussing how the war on drugs is going. It's a disaster, actually: halfway through a 10-year effort to eradicate drug cultivation, production has soared. Is the agency closing down because of this failure? No, it's asking for new funds.

The system is corrupt. When I give money for the hungry, I send it directly to the missionaries instead of UNICEF or the World Food Program or anyone else whose first-class air-travel budget could feed tens of thousands. UNESCO is a successful Paris job-creation program for sociologists and intellectuals, famous for overhead expenses that eat up as much as 80 percent of some programs. Officials of the Human Rights Commission have been sent home for allegedly trafficking women and young girls for prostitution in Bosnia. At the U.N. High Commissioner for Refugees (yearly budget: $740 million), four officials have been arrested for smuggling refugees. The U.N. apparatus has grown so much that in 1994 a new Office for Internal Oversight Services was established to keep track of everyone. It promptly hired 180 more people, at an extra cost of $18 million a year.

Has the United Nations really proved its competence in dealing with Iraq? Past experience says no: not only did the Oil-for-Food Program allow Saddam and his cronies to pocket large sums, but an audit found the program had overpaid $1 million for services. U.N. officers are well paid: six-digit tax-free salaries in dollars, plus innumerable allowances. Most of them are decent people, frustrated by their own red tape. But why on earth should they go to Baghdad? Let them play tennis elsewhere.

Suttora is U.S. bureau chief for Oggi (Rizzoli Corriere della Sera) in New York.

© 2003 Newsweek, Inc.



Newsweek

May 26, 2003, Atlantic Edition

SECTION: LETTERS; Pg. 16

Mail Call

Mauro Suttora's April 21 piece on the U.N.'s ineptitude ignited a heated debate among readers. "A great article!" cheered one. "The U.N. has proven weak and useless," chimed another. But the U.N.'s defenders accused us of "tabloid journalism." One reader simply urged that the U.N. be rehabilitated.

The U.N. Under Attack

I was disappointed to see NEWSWEEK descend to tabloid journalism with Mauro Suttora's "The Last Thing Iraqis Need" (April 21)--a farrago of gossip, unsubstantiated assertions and outright falsehoods masquerading as reportage. Allow me to rebut the most egregious of his misstatements. He says, "Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia," but we have already left. The U.N. troops have been gone since 1996, and we closed down our civilian mission last year. The U.N.'s role in East Timor changed with that country's independence in 2002; we are now there only at the government's request, to assist the authorities, not supplant them. The U.N. has 9,600 employees, not 65,000; even counting every international organization in the U.N. system--including the World Health Organization and the International Labor Organization--Suttora's calculation is excessive. U.N. staff do not fly first class; only the secretary-general does. Suttora twists facts to substantiate his prejudices: he even criticizes the establishment of a tough audit mechanism, the Office of Internal Oversight Services, whose effectiveness is acknowledged by the U.N.'s major contributors. The U.N. may not be perfect, but its record needs to be examined with more accuracy and integrity than in this article that is unworthy of your magazine.

Shashi Tharoor
Under Secretary-General for Communications and Public Information
United Nations
New York, N.Y.


It was a pleasure reading Mauro Suttora's article on the United Nations. The fact that the U.N. is inefficient, inadequate and ineffective is, of course, not a closely guarded secret, but it is important for those who fund it, or perceive it to be a sort of savior, to be aware of this and of some of the reasons behind the U.N.'s blatant ineffectiveness.

Morris Kaner
Givatyim, Israel


What a great article! It's time someone spoke out against the United Nations with a few home truths. Anyone who follows international affairs knows that the U.N. has proved weak and useless in most cases. You can't blame America and England for not paying their U.N. dues when they are the ones invariably forced to do the work the U.N. is incapable of completing, thanks to its incompetence. The last vestige of respect was gone when the U.N. backed down, under pressure from Israel, from sending a committee to investigate the atrocities and damage caused by the Israeli invasion of refugee camps in the Palestinian territories. There may be many dedicated, well-meaning workers in the U.N., but the organization has lost its credibility as an effective operation. If Iraq is to get on its feet again, don't let it fall into the hands of the U.N.

Kaye Krieg
Inzlingen, Germany


As a Vietnamese refugee, I personally experienced the incompetence of the United Nations High Commissioner for Refugees. Coming to Britain, I've seen the corrupt nepotism and cronyism of charity/voluntary organizations. There are too many bosses, no one can assert authority and there's no competition for them whatsoever. The U.N. needs to be rehabilitated.

Thong V. Lam
Newcastle-Upon-Tyne, England


As a U.N. official with a 25-year career in many refugee-crisis situations in the world, I'm shocked by Suttora's vicious article. He singles out some shortcomings of the U.N. and blows them out of proportion. This is a body that can be only as good as the individual entities that constitute it. Not only have I never flown first class, but my colleagues and I often work under unbearable conditions--lacking both basic amenities and physical safety. U.N. salaries are comfortable but not competitive with those in the private sector or some foreign services. "Staff assessment," equivalent to our nations' income tax, is deducted from our gross salary. We take pride in our humanitarian work and serve without political bias in accordance with the U.N. Charter. We help innocent civilians who have suffered persecution or violence to rebuild their lives. Those of us who work in the field often have to live without electricity, running water or heating. Many U.N. workers have been taken hostage, sustained injuries, even lost their lives while performing their duty. As for the UNHCR, the yearly budget cited by Suttora would hardly cover the support we offer to 21 million refugees and other similarly displaced people. The UNHCR has twice won the Nobel Peace Prize; we're proud to have repatriated millions of people, enabling them to live normal lives. Yes, there are shortcomings in the U.N. system. But the last thing the world needs is the denigration of the one international humanitarian body that gives states a forum where differences can be reconciled. What the United Nations needs is for all--individuals, states and the media--to help us best fulfill our humanitarian task. If we fail, there is no substitute.

Marion Hoffmann
Representative of the United Nations High Commissioner for Refugees in Albania
Tirana, Albania


The United Nations' presence in Iraq is an issue that cannot be dealt with in an ironic, one-sided op-ed piece like Mauro Suttora's. It is true that the U.N. system is not run efficiently and that its peacekeeping operations have rarely managed to facilitate peace. What Europeans want is not U.N. "rule" in Iraq, as Suttora says, but its "role" in international legality. This opens up important issues that transcend the functioning of the United Nations and go to the very core of the debate on American imperialism. It's reductive to rule them out with the sarcastic comments of an Italian tabloid journalist.

Fabrizio Tassinari
Copenhagen, Denmark

© 2003 Newsweek

Wednesday, March 05, 2003

parla Joe Biden


INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Foglio, 5 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".

Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".

Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."

Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo

Iraq: è guerra

Durerà 3 giorni, e sarà un inferno veramente intelligente

Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica

Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003

Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.

Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.

Guerra di tre giorni.

Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.

Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.

Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.

In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.

La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.

Guerra di tre settimane.

Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".

Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.

Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.

Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.

"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".

Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.

Guerra di tre mesi.

È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.

Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.

Guerra di tre anni.

Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.

Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.

Mauro Suttora

Saturday, February 21, 1987

Talamone e le armi per l'Iran


Guerra del golfo: chi rifornisce gli arsenali di Iran e Irak

C'ERA UNA VOLTA UN PERFIDO NAVIGLIO

L'incredibile storia della Sarah Jane. Il prezioso carico dell'Angelica. L'indirizzo dell'ufficio acquisti iraniano che tutti fingono di non conoscere. E undici Tir scoperti per caso a scaricare ordigni bellici nel porto di Talamone

di Mauro Suttora

Europeo, 21 febbraio 1987

Povero capitano Thomas Screech. Sulla sua nave, la Sarah Jane, aveva caricato nel 1982 a Setubal, in Portogallo, duemila detonatori per bombe. Provenienza della cassa, stampigliata con il marchio della dogana statunitense: Long Island, New York. Destinazione: Iran. Arrivato nel porto iraniano di Bandar Abbas , fa salire a bordo dei soldati per scaricare la merce. Ma loro, appena vedono sulla cassa l' odiato simbolo degli Stati Uniti , cominciano a prenderla a calci e a sputarci sopra. " Guardate che le vostre bombe non possono esplodere senza questi detonatori" , li avverte il capitano Screech . Niente da fare : un colonnello dell' esercito iraniano gli dice che i soldati si rifiutano di scaricare , e alla fine gli ordina di lasciare il porto con il carico .

Nella tappa successiva , a Dubai , i doganieri trovano i detonatori nella stiva e arrestano il capitano per importazione illegale di armi . Un telex inviato a New York produce la seguente risposta : " La societa' speditrice declina ogni responsabilita' sul carico " . Dopo cinque mesi di prigione a Dubai , il capitano Screech e' costretto a svendere la sua nave per pagare una multa di 80 milioni di lire .

Ma il caso di questo sfortunato capitano inglese e' un' eccezione . In realta' le importazioni d' armi dell'Iran, nonostante tutti i blocchi e gli embarghi solennemente decretati dai paesi della Nato e da altri paesi occidentali, rappresentano da anni un grosso affare per molte persone. E non c'e' voluto certo l' Irangate perche' i khomeinisti riuscissero a mettere le mani sulle sofisticate armi americane e sui pezzi di ricambio di cui hanno bisogno : fin dalla caduta dello scia', nel 1979, l' Iran non ha mai smesso di approvvigionarsi sul mercato bellico occidentale , con mezzi piu' o meno legali e piu' o meno clandestini .

A Londra , al numero 4 di Victoria street, c'e' addirittura un ufficio apposito, con una cinquantina di addetti iraniani, che non tanto segretamente conduce trattative con mercanti e industrie d' armi di tutto il mondo. E anche con i governi di nazioni che mai , ufficialmente , confesserebbero di vendere armi all' Iran. Sulla targa del portone c' e' scritto National Iranian Oil Co., ma la vera funzione dell'ufficio e' quella di centro logistico di supporto per le forze armate iraniane . Secondo lo spionaggio americano , qui verrebbero acquistate ogni anno dai tre ai quattro miliardi di dollari di armi , ovunque sia possibile : lo scorso luglio , per esempio , il Vietnam ha venduto all' Iran , per 400 milioni di dollari , 80 carri armati M 48 e duecento autoblindo M 113 che gli Stati Uniti abbandonarono quando fuggirono dal Vietnam nel 1975 .

Esempio tipico il Portogallo. Fino a quando Lisbona non e' stata citata dal bollettino ufficioso dei traffici, nessuno sospettava che il porto lusitano fosse cosi' attivo nelle spedizioni di merci "proibite". Una delle ultime , per esempio , risale al dicembre 1986 e questa volta " incriminato " e' il porto di Setubal: Angelica , un cargo panamense , ha preso il largo per il porto iraniano di Bandar Abbas con 1500 tonnellate di armi a bordo per un valore di oltre 13 milioni di dollari.

Queste spedizioni , che non appaiono del tutto illegali , hanno cambiato di 180 gradi la politica che nel 1980 il socialdemocratico Sa' Carneiro aveva fatto approvare : blocco assoluto di spedizioni di armi per l' Iran . E fino al 1983 l' Irak e' stato il cliente privilegiato del Portogallo . Bagdad riceveva tra il 50 e il 75 per cento di tutte le spedizioni di armi lusitane , per un valore intorno ai 40 milioni di dollari . Da allora pero' Mario Soares , attuale presidente della Repubblica , ha cambiato bruscamente politica .

Difficolta' economiche irakene , pressioni iraniane . Da allora Teheran diventa il primo cliente per le armi portoghesi : 67 milioni di dollari nel 1985 , poco meno l' anno successivo . L' attivita' di quella che probabilmente e' la piu' grossa rete di commercianti d' armi privati nella storia presenta pero' aspetti inquietanti . Che dire , per esempio , dei motori dei carri armati Chieftain che il ministero della Difesa inglese ha spedito due anni fa a Khomeini in casse con su scritto " parti di veicolo " ? " L' embargo non e' stato violato perche' i motori non fanno parte dei sistemi letali dei veicoli , e perche' erano stati ordinati nel 1979 , prima che Khomeini prendesse il potere " , e' stata l' imbarazzata e tartufesca risposta del governo britannico alle documentate accuse degli antikhomeinisti .

Un altro "articolo" che appare ogni mese nella "lista della spesa" dell' ufficio dell'Iran a Londra e' un proiettile d' artiglieria da 155 millimetri , quello che poi i pasdaran lanciano sull' Irak e sulla citta' di Bassora : ne comprano 150 mila per volta , al prezzo di 40 milioni di dollari. "E materiale che proviene necessariamente da un paese della Nato", rivela un commerciante d'armi. "È impossibile che simili quantita' di materiale vengano spedite senza il coinvolgimento dei governi, o per lo meno senza la loro acquiescenza".

Naturalmente le armi non passano fisicamente da Londra : gli ordini partono per telex a intermediari stranieri , i quali si incaricano di contattare broker marittimi , e questi ultimi a volte caricano sulla stessa nave armi sia per l' Irak che per l' Iran . Quasi sempre le armi vengono spedite a punti d' imbarco intermedi con falsi " certificati di destinazione finale " per dimostrare che l' acquirente e' uno Stato non belligerante , al di sopra di ogni sospetto. Come il Portogallo, per esempio .

I porti d'imbarco piu' utilizzati in Europa sono Santander in Spagna, Cherbourg in Francia, Zeebrugge in Belgio e Talamone in Italia. Solo tre settimane fa , il 22 gennaio 1987 , undici Tir zeppi di cariche di lancio fabbricate dall' azienda " La Precisa " di Teano (Caserta) e regolarmente scortati da polizia e carabinieri hanno rifornito la nave portoghese Mare I diretta a Lisbona . La cosa si e' risaputa solo perche' , in prossimita' del porto toscano , un Tir ha frenato di colpo a un passaggio a livello , uccidendo i due passeggeri di una Mercedes che sopraggiungeva e che e' finita sotto il rimorchio .

Gran parte dei traffici d' armi verso l' Iran sono in mano agli armatori danesi , che hanno una lunga esperienza in questo campo : sono almeno 40 i cargo della Danimarca che continuano a rifornire , anche dopo l' Irangate , sia l' Irak che l' Iran . Anche l' Irak , infatti , si avvale di una rete di trafficanti d' armi privati . Ma e' l' Iran ad aver compiuto la sforzo piu' grosso in Europa occidentale e negli Stati Uniti , perche' gran parte del suo arsenale consiste di aerei , elicotteri , missili , carri e radar comprati in Occidente dallo scia' negli anni Settanta .

All'inizio i tentativi degli emissari di Khomeini di mantenere il flusso dei rifornimenti di armi furono disastrosi. A volte per ottenere un pezzo di ricambio dovevano pagare un prezzo 500 volte piu' alto. Behnam Nodjoumi, per esempio, un espatriato iraniano, firmo' un contratto per la vendita di 8 mila missili anticarro Tow made in Usa (che aveva gia' decretato l'embargo dopo il sequestro degli ostaggi di Teheran nel 1980). Allora l'Iran pagava il 10 per cento del prezzo solo dopo un'ispezione della merce da parte dei propri ufficiali. Tre colonnelli iraniani mandati in Belgio per il controllo furono rapiti , assieme a due diplomatici iraniani e a un banchiere a Londra.

Fortunatamente per l' Iran, Scotland Yard scopri' la colossale truffa poche ore prima del pagamento su un conto svizzero. Nodjoumi e' finito in prigione, condannato a dieci anni . Un altro espatriato iraniano e' riuscito a far rubare da impiegati civili della marina Usa alcuni pezzi di ricambio dell' aereo F 14 Tomcat , per un valore totale di mezzo milione di dollari.

Negli ultimi tre anni, comunque, gli affari per l' Iran sono filati piu' lisci . Ormai il centro di Londra, quando deve ordinare ricambi americani, utilizza addirittura gli stessi numeri di codice computerizzati dell' aeronautica statunitense. Molti dei mediatori privati, poi, sono in realta' agenti dei governi occidentali, o dei loro servizi segreti . L'israeliano Yaacov Nimrodi, per esempio, uno dei tre faccendieri internazionali (gli altri due sono Adnan Kashoggi e Manucher Gorbanifar) implicati nell' Irangate : il suo appartamento di Londra e' vicinissimo all' ambasciata dell' Iran , e secondo gli antikhomeinisti ha fornito armi a Teheran, con il pieno appoggio del governo di Israele, fin dal 1980.
Mauro Suttora