Showing posts with label isis. Show all posts
Showing posts with label isis. Show all posts

Thursday, August 24, 2017

Dopo la strage di Barcellona: come proteggersi

CONTRO I TERRORISTI ISLAMICI, NON RESTA CHE AFFIDARCI AI JERSEY
di Mauro Suttora
Oggi, 24 agosto 2017
La nuova parola d’ordine è: Jersey. Sono quei blocchi di cemento che vengono piazzati come spartitraffico temporanei durante i lavori stradali. E che adesso proteggono tutti i siti a rischio d’Italia: da piazza Duomo a Milano, ai Fori imperiali di Roma. Attenzione: «Jersey», e non «New Jersey», anche se proprio da quello stato americano hanno preso il nome, quando apparvero negli anni 50 sull’autostrada locale, la Turnpike da New York a Filadelfia.
Se la rambla di Barcellona fosse stata protette dai jersey, il furgoncino dei terroristi non sarebbe passato. Idem per il mercatino del Natale 2016 a Berlino, o per la Promenade des Anglais a Nizza. «Ma almeno rendiamo queste nuove barriere piacevoli alla vista, riempendole di terra e piantandoci siepi, fiori e alberi», propone l’architetto Stefano Boeri, autore del Bosco verticale a Milano.
L’Italia è nel mirino dei fanatici islamisti? Inutile illudersi: sì. «Nessun Paese è al riparo», avverte il premier Paolo Gentiloni. Anche se i proclami online del califfato Isis «Arriveremo a Roma» li sentiamo dal 2015, quando il Giubileo fece scattare il primo piano antiterrorismo a Roma. Che seguiva quello di Milano, per l’Expo. Le buone notizie non fanno notizia, ma rendiamo merito ai nostri ministri degli Interni (Angelino Alfano, Marco Minniti) e alle forze dell’ordine se l’Italia è rimasta immune da attentati.
Ora si apre il capitolo moschee. «Il nostro livello di allerta resta altissimo», assicura Alfano. Ma l’accordo con le comunità islamiche per permettere solo sermoni in italiano deve ancora essere applicato. E comunque non è decisivo: l’imam che ha fanatizzato i 12 giovani terroristi di Barcellona lo ha fatto fuori dalla moschea nel suo paese sotto i Pirenei. 
Le carceri, scuole Isis
L’altro grande brodo di coltura degli islamisti sono le prigioni. Si stima che nelle nostre carceri ci siano 400 soggetti a rischio indottrinamento, e 40 pronti a indottrinarli.
Una soluzione sarebbe l’espulsione (già applicata a 150 immigrati che hanno inneggiato alla Guerra santa in questi anni), ma forse è meglio tenerli dentro e controllarli con microspie.

«La prevenzione si fa con i soldati agli angoli delle strade, ma soprattutto con l’intelligence», spiega il capo della polizia Franco Gabrielli. Per esempio facendo studiare l’arabo ai nostri 007. O costringendo alla trasparenza Telegram, il servizio di messaggi più segreto di Whatsapp, quindi utilizzato dai terroristi.
Infine, i Foreign fighters. Cioè gli islamisti, italiani o arabi, partiti dall’Italia per combattere con l’Isis in Siria e Iraq. Se tornano lì si potrebbe internare come criminali di guerra, come ha proposto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Rischiamo una nuova Guantanamo, carcere senza processi? Può darsi, ma i reduci hanno già dimostrato la loro pericolosità semplicemente arruolandosi.
Mauro Suttora

Wednesday, April 06, 2016

Vita a Molenbeek, Bruxelles

IL QUARTIERE ISLAMICO DA CUI SONO PARTITI I TERRORISTI ISIS

dal nostro inviato Mauro Suttora

Oggi, 25 marzo 2016

La frontiera passa qui davanti, sul canale Charleroi, aperto a Bruxelles nel 1832, due anni dopo l'indipendenza del Belgio dall'Olanda. La frontiera fra le due civiltà, cristiana e islamica, che si fronteggiano oggi come 1.300 anni fa a Poitiers (la battaglia da cui tornava re Carlo Martello nella canzone di Fabrizio De André) e 300 anni fa a Vienna (assediata dagli Ottomani e salvata da Eugenio di Savoia).

Più modestamente, il canale ora separa il centro di Bruxelles dal quartiere di Molenbeek ("Molino sul torrente"): la capitale d'Europa contro la capitale dei terroristi islamici che hanno ammazzato 31 europei il 22 marzo e 130 a Parigi il 13 novembre.

Da qui venivano quasi tutti i giovani fanatici dei due commandos. Qui, in rue Quatre-Vents 79, e' stato arrestato Salah Abdeslam dopo quattro mesi di tranquilla latitanza fra un attentato e l'altro. Qui, dicono i pessimisti, si è creata una generazione di simpatizzanti dello stato islamico che copre gli estremisti. Gli ottimisti come Youssef Choukri, invece, sostengono: "E' buon segno che i terroristi di Bruxelles siano gli stessi di Parigi. Vuol dire che magari c'era un solo gruppo. E che ora sono stati eliminati".

Youssef, ventenne, aiuta il padre immigrato marocchino in un deposito di via Delaunoy (dove al numero 47 c'era un altro covo islamista). Ha partecipato alla manifestazione permanente per le vittime in piazza della Borsa. Saranno 400 metri dal canale Charleroi. Ma sono due mondi differenti. Di qua i profumi di kebab, pollo, cacao caldo e caffè dei 100mila immigrati di Molenbeek. Di la', il centro di Bruxelles con i suoi edifici alti e abbastanza tristi. La Grand Place, le birrerie, la statua del bimbo che piscia. Ancora oltre, i grandi parchi dei palazzi reali (dove vive anche la 78enne Regina madre Paola di Liegi) e il quartiere europeo: Parlamento, Commissione, Consiglio, serviti dalla stazione metro Maelbeek insanguinata dai kamikaze.

Il vulcano, però, sta qui a ovest. Così, arrivando in città, decido di venire nell'unico albergo di Molenbeek: il Meininger, solo 50 euro a notte. Una specie di ostello nuovo e pulito, con velleità perfino artistiche, ricavato nell'ex fabbrica della birra Bellevue. Sull'orlo del cratere islamico.

L'aereoporto internazionale di Zaventem e' ancora chiuso dopo la strage. Atterro a Charleroi, dove i soldati perquisiscono tutti i viaggiatori in partenza provocando code chilometriche di auto. Così molti di loro preferiscono lasciare i taxi e le vetture incolonnate dei parenti o amici accompagnatori, per camminare anche un chilometro trascinando i trolley verso l'aerostazione.

Benvenuti nella nuova normalità dei viaggi post-22 marzo: tempi raddoppiati con controlli ai raggi X alle porte d'ingresso, ben prima dei check-in violati dai terroristi.

Il bus navetta arriva alla Gare du Midi. Anche qui code snervanti per entrare nell'unico ingresso lasciato aperto: quello di fronte alla statua di Paul-Henri Spaak, padre belga sia dell'Europa unita, sia di Catherine.

Salgo sul tram 82 pieno di donne arabe con velo e passeggino per i figli: non ci si può sbagliare, e' la direzione giusta verso il ghetto maomettano. Dove fino al 1965 di arabi non ce n'erano: "I primi marocchini cominciarono ad arrivare per sostituire gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi emancipatisi dalle miniere", mi spiega Giorgio, trentenne italiano che gestisce l'unico museo di Molenbeek: il Mima (Millennium iconoclastic museum of art) che avrebbe dovuto inaugurarsi il 24 marzo,  ma la cui vernice e' stata annullata per gli eventi assassini.

Scendo alla Gare de l'Est. Qui subisco un'ispezione addirittura corporale da parte di un giovane soldato che, con i commilitoni disposti a pettine, filtra i passeggeri. Tutti accettano di buon grado i controlli, anche giovani maghrebini con aspetto bellicoso ma docili come agnelli. Il militare palpando tocca la scatoletta delle mentine nella tasca della mia giacca: la tiro fuori e lui quasi si scusa, imbarazzato.

Un ufficiale poi mi confida: "Il difficile per noi è sveltire i controlli sugli insospettabili, ma senza sembrare razzisti verso religioni ed etnie sospette. Il cosiddetto 'racial profiling' infatti ci è severamente proibito".

Le strade di Molenbeek da quattro mesi sono setacciate da giornalisti di tutto il mondo. Per questo qualche abitante mostra insofferenza quando vede telecamere e macchine fotografiche. Il quartiere e' ben tenuto, pulito, con rastrelliere  per bici in affitto, file davanti ai pochi bancomat e ragazzi pakistani che giocano a cricket di fronte all'unica chiesa cattolica, Saint Jean.

La sera di Giovedi santo partecipo alla messa della lavanda dei piedi. I tre preti concelebranti sono africani, e nera è la stragrande maggioranza dei pochi fedeli. Gli unici bianchi sono immigrati polacchi e qualche portoghese sopravvissuto all'ondata musulmana. I sacerdoti faticano a trovare dodici volontari che si facciano lavare i piedi.

Ma davvero qui, nel Belgistan di Bruxelles, abbondano i simpatizzanti dell'Isis? "Se c'è n'è ancora qualcuno non lo conosco", mi dice Youssef, "e comunque sarebbero gli ultimi a mostrare esteriormente segni di arruolamento. I suicidi del 22 marzo non li vedevamo in giro. Quelli molto religiosi ci sono, ma si sfogano facendo crescere barbe incolte senza baffi, e mostrando sulla fronte il bernoccolo tipico di chi la strofina ogni giorno per terra pregando".

I negozi sono quasi tutti arabi. Stanno aperti fino a tardi e danno al quartiere il tipico tocco di suk, con la mercanzia che deborda sui marciapiedi e perfino i materassi cellophanati in strada. 
Nella vetrina di un centro sociale comunale, un foglio avvisa: "Corsi di francese e lingua araba (sul Corano) per sole donne". Apartheid nel cuore dell'Europa con soldi pubblici e laici, Corano imposto alle ragazze di seconda generazione che riscoprono le proprie radici.

Un altro cartello, blu come le bandiere dell'Unione europea. Annuncia un cofinanziamento comunitario di 5,7 milioni per restaurare un palazzo: "Noi paghiamo, e quelli ricambiano uccidendoci", commenta amaro un Sallusti belga.

Certo lo choc per la metropolitana fatta saltare proprio alla fermata dove scendevano segretarie e impiegati e' alto. Politici e superburocrati non rischiano: loro vanno al lavoro in auto (blu).

"È questa la grande sconfitta dei suicidi islamisti", conclude Youssef, "perché di noi arabi tutto si può dire, tranne che non siamo persone concrete. E che cosa hanno ottenuto questi pazzi? Solo morte, per se e per gli altri. Niente. Nichilisti. Perché ovviamente anche fra noi c'è chi protesta contro le guerre d'invasione occidentale in Iraq, contro Usa e Israele, o per le vittime civili dei droni. Ma farsi esplodere a casaccio in mezzo a innocenti non colpisce i colpevoli di quelle ingiustizie. Serve solo a creare fastidio contro noi arabi. Ad attirare qui giornalisti come lei, scusi tanto, neanche fossimo uno zoo. E a far chiamare 'vulcano' un quartiere abbastanza tranquillo, com'era Molenbek fino a novembre".
Mauro Suttora

Wednesday, October 15, 2014

Come si vive sotto l'Isis


VITA QUOTIDIANA A RAQQA, NUOVA CAPITALE DEL CALIFFATO

di Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2014

Fino a due anni fa Raqqa era una tranquilla città di 200mila abitanti in mezzo al deserto siriano. Sulle rive dell'Eufrate crescevano le palme, l'acqua irrigava i campi di cotone. Gran traffico di camion di contrabbandieri fra Siria, Iraq e Turchia. Poi è arrivata la guerra civile contro il dittatore Assad. E nel 2013 sono arrivati gli estremisti musulmani. Prima quelli di Al Nusra, sezione siriana di Al Qaeda. Poi, ancora peggio: i guerrieri santi dell'Isis (Stato islamico di Iraq e Siria). Che hanno l'obiettivo di tornare indietro di 1.400 anni. Al Califfato fondato da Maometto.

Raqqa fu capitale di quel Califfato per tredici anni, a cavallo dell'800 dopo Cristo, quando da noi c'era Carlo Magno. Il califfo Rashid la fece diventare più bella e più grande di Bagdad e Damasco. Poi piano piano la sabbia la inghiottì. Oggi è ridiventata capitale del Califfato. Quello dei tagliagole di ostaggi occidentali e degli sterminatori di cristiani e curdi.

Da mezzo mese Raqqa viene bombardata da aerei americani, sauditi e degli Emirati arabi. «Ma non fanno molti morti fra i civili», dicono gli abitanti sui blog che sfuggono al controllo degli estremisti. «Le bombe, diversamente da quelle di Assad, sono precise e colpiscono obiettivi militari e dell'Isis. Però i jihadisti li hanno abbandonati per nascondersi fra noi. Le loro famiglie le hanno già spedite via».

Di giorno, la vita continua. Una misteriosa donna completamente velata tranne una fessura sugli occhi (è il niqab nero) ha messo su internet un video di due minuti girato con telecamera nascosta. La si vede mentre viene bloccata in strada da un'auto della polizia. Un uomo armato la ammonisce: dovrebbe comportarsi meglio in pubblico. La ragione dell'avvertimento? Il suo viso, seppure nascosto dal velo, si vede ancora troppo. Lei prontamente si scusa per la troppa trasparenza, e l'uomo a sua volta replica: «Bisogna prestare molta attenzione nel coprirsi. Dio ama le donne che sono coperte».

Non è un avvertimento bonario. Come in Arabia Saudita e in Iran (i due feudi contrapposti di sunniti e sciiti che si stanno combattendo in Medio Oriente), anche l'Isis ha introdotto nei territori occupati di Siria e Iraq la sharia, la legge religiosa. A Raqqa la corte islamica che la somministra si è installata nel centro sportivo. Ma i tagliagole hanno dovuto importare dall'Egitto, per le preghiere e le prediche del venerdì, un imam abbastanza estremista per loro: evidentemente nei laici Siria e Iraq non ne hanno trovati.

«In qualsiasi momento una persona normale può essere presa e giustiziata senza validi motivi», avverte Abu Ibrahim Raqqawi, abitante di Raqqa. «L’Isis incassa le tasse dai cittadini e controlla che tutti paghino. Chi evade le imposte viene ucciso nella piazza principale: l’esecuzione è pubblica e si svolge il venerdì dopo la preghiera».

Poi i fanatici appendono i cadaveri ai crocifissi, oppure ne tagliano le teste e le infilzano sulle inferriate del giardino pubblico in centro. Allo «spettacolo» assistono famiglie con bambini.

I peccati più gravi commessi dalle donne (adulterio) sono puniti con la lapidazione. Quelli veniali con la frusta. Le donne in pubblico non possono fare quasi più nulla. Se sono sposate devono essere accompagnate dal marito, e mostrare il certificato di matrimonio agli agenti. Oppure devono farsi scortare dal padre, da un fratello, da un cugino. Guidare un'auto non se ne parla, come in Arabia Saudita. Le femmine, piccole e grandi, non possono neppure sedersi sulle altalene: provocazione che spingerebbe gli uomini a molestarle.

I ristoranti che non separano uomini e donne, osano offrire vino (anche solo ai clienti stranieri non musulmani), o ancora peggio superalcolici, vengono bruciati e chiusi. Vietate le tv satellitari: con la scusa di controllare se ci sono i poliziotti possono piombare nelle case private a qualsiasi ora. Segregazione uomo/donna in tutti gli ambienti pubblici e di lavoro. L'Isis ha installato molte telecamere per sorvegliare perfino i marciapiedi.
     
Alcuni divieti sono grotteschi: niente elemosina ai mendicanti durante il Ramadan, proibito pregare per la propria squadra del cuore o indossare cravatte, usare cosmetici, bikini in spiaggia per le donne e stare a torso nudo per gli uomini. A San Valentino, per ostacolare la festa degli innamorati, i fiorai hanno dovuto tenere chiusi i negozi, le rose rosse non potevano essere vendute neppure per strada, e così i peluches e i cioccolatini. Nel mirino anche i commercianti che espongono manichini, proibiti perché "provocano" bassi istinti. Niente trucco per le donne che appaiono alla tv di Stato.

L'Isis ha emanato quattro decreti appositi per vietare musica, sigarette, pipe (anche i narghilè al semplice vapore acqueo), e far chiudere i negozi dieci minuti prima dell'inizio delle preghiere. I pochi cristiani non fuggiti devono pagare una tassa per praticare, ma non in chiesa: solo in privato. Anche le altre minoranze (alauiti, drusi) sono scappate.

«Non pochi si sono rifiutati di obbedire», dice Abu al-Bara’a al-Furati, studente di 22 anni. «Ma la gente tutto sommato è contenta perché l'Isis garantisce ordine pubblico, sicurezza, acqua, pane da quattro forni diversi ed elettricità: prima dei bombardamenti non c'erano più di sei ore di blackout giornaliero». I commercianti apprezzano che siano svanite le stecche che dovevano pagare ai funzionari corrotti di Assad.

A Raqqa anni fa un originale aveva aperto un casinò. Ovviamente i fondamentalisti lo hanno chiuso subito. I weekend andavano dal venerdì al sabato, ora sono giovedì e venerdì per distinguersi da cristiani ed ebrei. Gruppi di educazione islamica organizzano festival nelle moschee per incoraggiare i giovani a unirsi alla causa. Ai ragazzi sono mostrati video di decapitazioni per abituarli alla violenza, e avvertirli delle conseguenze se resistono ai jihadisti.
 
Nel filmato si vedono uomini armati con fucili d'assalto e kalashnikov andare ovunque in città. Anche una donna, che porta i bambini al parco, è armata di fucile: pronta a difendere, come tutti gli altri, il loro rigido e spaventoso regime. Centocinquanta donne francesi hanno scelto spontaneamente di lasciare la patria per vivere nello Stato Islamico. Entrando in un internet cafè si sente una di esse parlare con la famiglia: «Non voglio tornare indietro, mamma, ve lo dico senza mezzi termini. Dovete farvene una ragione, io non torno. Non c'è nulla di cui aver paura, sto bene qui. Tutto quello che si vede in tv è falso. La tv esagera sempre».

I combattenti stranieri che infestano Raqqa, spesso più crudeli e fanatici dei locali, vengono da Sud Africa, Olanda, Australia, Cecenia, Inghilterra, Germania, Balcani, e anche dagli Stati Uniti. Dicono che siano loro a tenere prigionieri gli ostaggi internazionali, fra i quali potrebbero esserci le due ragazze italiane Greta Ramelli di Varese e Vanessa Marzullo di Bergamo. Ma la voce più agghiacciante è che il boia che ha segato la gola a tre ostaggi opererebbe in periferia, in un campo vicino a un cimitero, non lontano dall’università Altihad, ateneo della città.
Mauro Suttora