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Thursday, May 18, 2017

Il mistero della bellissima Asma Assad



COME FA LA SOFISTICATA MOGLIE DEL DITTATORE A TOLLERARE L'INFERNO SIRIA?

di Mauro Suttora

Damasco, 14 aprile 2017

Ancora più elegante e affascinante di Rania di Giordania, quando nel 2000 la 25enne Asma Assad arrivò a Damasco per sposare Bashar Assad suscitò grandi speranze. «Questa giovane coppia porterà la libertà in Siria», commentarono gli ottimisti.

Dopo trent’anni di dittatura ferrea di Hafez Assad, padre di Bashar, sembrava arrivato il tempo del disgelo. Bashar non era destinato alla politica, era andato a studiare a Londra dove era diventato oftalmologo. E lì si era innamorato della bellissima figlia di un cardiologo siriano e di una funzionaria dell’ambasciata di Damasco in Inghilterra. Asma è più inglese che siriana: nata e cresciuta a Londra, ha studiato francese e spagnolo all’università.

Svolta inspiegabile con la guerra civile

Per 11 anni non successe granché. Il regime siriano non si democratizzò. Però la coppia presidenziale, complice la gioventù e la classe di lei, quando viaggiava all’estero suscitava ammirazione. E la Siria rimaneva fuori dalle turbolenze del vicino Iraq.

Poi, nel 2011 anche a Damasco scoppiò la Primavera araba, come in Tunisia, Libia ed Egitto. I giovani scesero in strada chiedendo riforme. In un primo momento Assad rispose liberalizzando internet. Poi però la polizia represse nel sangue le manifestazioni. E cominciò la guerra civile che dura tuttora.

Si pensava che la moglie occidentale di Assad avrebbe esercitato un’influenza moderatrice sul marito. Invece niente. Il gentile oftalmologo si trasformò in un governante crudele come il padre. E la leggiadra Asma dietro, senza un tentennamento.

Da Rosa del deserto a First lady dell’inferno

La rivista statunitense Vogue di Anna Wintour (quella de Il diavolo veste Prada), che nel 2010 aveva definito Asma «Rosa del deserto», cancellò l’articolo dal suo sito. In questi sei anni di massacri Asma si è prestata alla propaganda di regime, facendosi fotografare accanto al marito e in visita a vittime della guerra. Mai nessuna dichiarazione, neanche dopo le prime accuse ad Assad di aver usato armi chimiche nel 2013.

La Russia, alleata della Siria da mezzo secolo, appoggia il regime di Assad. E lei, nell’unica intervista data a una tv russa lo scorso ottobre, ha detto di appoggiare suo marito, contro i terroristi dell’Isis. I quali però non sono gli unici nemici del governo di Damasco: l’altra opposizione, quella non legata al Califfato, è stata nuovamente bombardata con armi chimiche il 4 aprile.

Le decine di bambini ammazzati hanno provocato la vendetta del presidente americano Donald Trump, che ha fatto lanciare 59 missili Tomahawk sulla base da cui sono partiti gli aerei assassini di Assad.

In questi anni la vita per Asma e i suoi tre figli continua (quasi) come prima. Per sicurezza la famiglia non vive nel palazzo presidenziale, ma in una villa nel quartiere residenziale di Damasco.

Anche lei è colpita dalle sanzioni Ue, e non può più andare a Parigi a fare shopping. In compenso fa comprare on line abiti, gioielli e mobili di lusso da suoi collaboratori.

E-mail riservate: 3 mila euro per le sue scarpe

Sono state pubblicate alcune sue e-mail segrete. In una ordina l’acquisto di un paio di scarpe con tacchi di 16 centimetri da 3 mila euro. In un’altra risponde alla sua amica, figlia dell’emiro del Qatar, che la invita a lasciare la Siria prima che suo marito faccia la fine di Gheddafi o Mubarak. Ma lei rifiuta l’ospitalità.

Sa che, finché i russi lo appoggiano, Assad è sicuro. E può atteggiarsi a difensore della laicità contro l’Isis.  
Mauro Suttora


Wednesday, October 21, 2015

Putin: nuovo Stalin o statista?

IL NUOVO ZAR

Sbarca in Siria, bombarda gli islamisti, annette la Crimea. Ecco i segreti del presidente russo 

Mosca, 14 ottobre 2015

di Mauro Suttora

Per alcuni è un nuovo Stalin. Per altri, un grande statista. Lo accusano di aver fatto ammazzare la giornalista Anna Politkovskaia e l’ex vicepremier Boris Nemtsov, di avere avvelenato col polonio radioattivo a Londra nel 2006 l’ex collega del Kgb Alexander Litvinenko. Gli addossano misfatti tremendi: l’aereo malese precipitato in Ucraina l’anno scorso (300 morti), le 550 vittime delle stragi del teatro di Mosca e della scuola di Beslan nel 2002-4.

Le accuse tremende? «Inventate dalla Cia»
«Tutte invenzioni della Cia», ribatte la maggioranza dei russi. Che, fieri del rinato prestigio, gli regalano una fiducia immensa: 63% alle presidenziali del 2012, addirittura l’85% negli ultimi sondaggi.

L’apoteosi, per il presidente russo Vladimir Putin, è arrivata il 7 ottobre. Ha festeggiato i 63 anni lanciando 26 missili dalle navi del mar Caspio contro l’Isis. I cruise hanno sorvolato per 1600 chilometri gli alleati Iran e Iraq prima di colpire lo stato islamico.

Un’impressionante dimostrazione di potenza, preceduta dallo sbarco in Siria per difendere l’amico dittatore Bashar Assad. Clamorosa e improvvisa, la missione si contrappone alle titubanze del presidente americano Obama, che da quattro anni assiste impotente alla guerra civile siriana e all’avanzata degli islamisti.

Ma chi è veramente Putin? Mistero. Va col millennio: è al potere dal 31 dicembre 1999, quando improvvisamente l’etilico Boris Eltsin si dimise. Come negli Usa, anche in Russia il presidente poteva governare al massimo per otto anni. E allora nel 2008 Vladimir si è fatto sostituire per un mandato dal fido premier Boris Medvedev. Col quale va d’accordo anche perché è alto 1,63: sette centimetri meno di lui. Poi è tornato al Cremlino, e Medvedev è stato retrocesso a premier: “tandemocrazia”.

Non ce l’ha fatta, invece, a continuare con la moglie Liudmila, ex hostess Aeroflot. Divorzio l’anno scorso dopo 31 anni di matrimonio e due figlie trentenni. Una vive in Olanda con un olandese, l’altra si è sposata nel 2012 a Marrakesh (Marocco), nell’hotel Mamounia.

Venti residenze ufficiali non bastano
Putin ora vive nelle sue venti residenze ufficiali (fra palazzi e dacie) con l’amante, la ginnasta Alina Kabayeva, alta 1,66. Un altro edificio in stile italiano è in costruzione sul mar Nero.

Le plastiche facciali gli hanno donato il viso di un bambino. Il suo stipendio da presidente ammonta a 120mila euro annui, ma si favoleggia che abbia una ricchezza personale di 70 miliardi, frutto di partecipazioni occulte nelle società petrolifere.

Ecco, il petrolio. Il dramma di Vladimir. Il crollo delle quotazioni dell’oro nero e del gas sta facendo inabissare anche il pil russo: meno 4% quest’anno. L’inflazione è al 13%. Il rublo è svalutato: ce ne volevano 35 per un euro, ora il cambio è a 70.

Insomma, l’economia è a pezzi. La guerra in Ucraina, dove i russi sostengono i secessionisti dell’Est, e l’annessione della Crimea hanno provocato le sanzioni occidentali.

Per questo, dicono, Putin fa il gradasso in politica estera. Nel 2008 violò la tregua olimpica (sacra dai tempi degli antichi greci) attaccando la Georgia durante i Giochi di Pechino. Ora semina il panico fra le ex repubbliche sovietiche (soprattutto le piccole baltiche) facendo sconfinare aerei da guerra.

Con il patriottismo la gente dimentica la crisi economica. E le altre angherie. In una scala da 1 a 7, la classifica mondiale della libertà di Freedom House assegna un umiliante 6 alla Russia: come l’Iran, e un po’ meglio del 6,50 cinese.

Nessuno osa chiamarlo “dittatore”
Inutile girarci attorno. Nessuno osa chiamarlo dittatore, ma a Mosca non c’è democrazia. Amnesty denuncia torture e processi irregolari, e «una notevole diminuzione negli ultimi anni del pluralismo dei media e dello spazio per il dissenso».

Ciononostante i 146 milioni di russi lo adorano, perché nei quindici anni della sua era la loro ricchezza (pil) è raddoppiata. Anche Berlusconi, Salvini e Grillo stravedono per lui. E pure a Renzi sta simpatico. Le esportazioni italiane sono troppo importanti, in questo periodo di crisi, per attardarsi in questioni come i diritti umani.

Se riuscirà a domare il califfo Al Baghdadi, capo dell’Isis, Putin diventerà simpatico al mondo intero. Per secoli altri cristiani ortodossi, i serbi, hanno protetto l’Occidente dall’impero turco. Se in Siria Putin farà il lavoro sporco per conto di Europa e Stati Uniti, riluttanti a mandare soldati, meglio per tutti.

Chissà che questa volta ai russi non vada meglio che in Afghanistan, dove l’impero sovietico fu sconfitto dagli islamici nella guerra 1979-87. 
A Vladimir il crollo dell’Urss brucia ancora. Lui negli anni 80 era agente segreto in Germania Est, e con la Stasi reclutava spie all’università di Dresda.

Duro e ambizioso, aveva imparato bene il tedesco e anche il francese. Si era specializzato negli studenti (e studentesse) stranieri. Cercava di adescarli e trasformarli in informatori al loro ritorno nei Paesi d’origine. Soprattutto gli statunitensi.

La giovane moglie Liudmila allora si lamentava: «Mi picchia e mi tradisce». Nel 1989, lo choc: il comunismo crolla. Il colonnello del Kgb Putin si trova proprio a Berlino, e brucia un sacco di documenti segreti. «Mandavo fax a Mosca, nessuno mi rispondeva».

Poi viene rispedito in patria, a San Pietroburgo. Lì continua a fare la spia, poi si dà alla politica mettendosi nella scia del potente sindaco della città. Nel 1999 Eltsin lo nota e lo nomina premier.
   
Insomma, Putin ha passato metà della sua vita sotto falsa identità. Impossibile quindi capire chi è il nuovo zar Putin. Stalin? Statista? Per ora, continua a stupirci.
Mauro Suttora

Wednesday, October 15, 2014

Come si vive sotto l'Isis


VITA QUOTIDIANA A RAQQA, NUOVA CAPITALE DEL CALIFFATO

di Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2014

Fino a due anni fa Raqqa era una tranquilla città di 200mila abitanti in mezzo al deserto siriano. Sulle rive dell'Eufrate crescevano le palme, l'acqua irrigava i campi di cotone. Gran traffico di camion di contrabbandieri fra Siria, Iraq e Turchia. Poi è arrivata la guerra civile contro il dittatore Assad. E nel 2013 sono arrivati gli estremisti musulmani. Prima quelli di Al Nusra, sezione siriana di Al Qaeda. Poi, ancora peggio: i guerrieri santi dell'Isis (Stato islamico di Iraq e Siria). Che hanno l'obiettivo di tornare indietro di 1.400 anni. Al Califfato fondato da Maometto.

Raqqa fu capitale di quel Califfato per tredici anni, a cavallo dell'800 dopo Cristo, quando da noi c'era Carlo Magno. Il califfo Rashid la fece diventare più bella e più grande di Bagdad e Damasco. Poi piano piano la sabbia la inghiottì. Oggi è ridiventata capitale del Califfato. Quello dei tagliagole di ostaggi occidentali e degli sterminatori di cristiani e curdi.

Da mezzo mese Raqqa viene bombardata da aerei americani, sauditi e degli Emirati arabi. «Ma non fanno molti morti fra i civili», dicono gli abitanti sui blog che sfuggono al controllo degli estremisti. «Le bombe, diversamente da quelle di Assad, sono precise e colpiscono obiettivi militari e dell'Isis. Però i jihadisti li hanno abbandonati per nascondersi fra noi. Le loro famiglie le hanno già spedite via».

Di giorno, la vita continua. Una misteriosa donna completamente velata tranne una fessura sugli occhi (è il niqab nero) ha messo su internet un video di due minuti girato con telecamera nascosta. La si vede mentre viene bloccata in strada da un'auto della polizia. Un uomo armato la ammonisce: dovrebbe comportarsi meglio in pubblico. La ragione dell'avvertimento? Il suo viso, seppure nascosto dal velo, si vede ancora troppo. Lei prontamente si scusa per la troppa trasparenza, e l'uomo a sua volta replica: «Bisogna prestare molta attenzione nel coprirsi. Dio ama le donne che sono coperte».

Non è un avvertimento bonario. Come in Arabia Saudita e in Iran (i due feudi contrapposti di sunniti e sciiti che si stanno combattendo in Medio Oriente), anche l'Isis ha introdotto nei territori occupati di Siria e Iraq la sharia, la legge religiosa. A Raqqa la corte islamica che la somministra si è installata nel centro sportivo. Ma i tagliagole hanno dovuto importare dall'Egitto, per le preghiere e le prediche del venerdì, un imam abbastanza estremista per loro: evidentemente nei laici Siria e Iraq non ne hanno trovati.

«In qualsiasi momento una persona normale può essere presa e giustiziata senza validi motivi», avverte Abu Ibrahim Raqqawi, abitante di Raqqa. «L’Isis incassa le tasse dai cittadini e controlla che tutti paghino. Chi evade le imposte viene ucciso nella piazza principale: l’esecuzione è pubblica e si svolge il venerdì dopo la preghiera».

Poi i fanatici appendono i cadaveri ai crocifissi, oppure ne tagliano le teste e le infilzano sulle inferriate del giardino pubblico in centro. Allo «spettacolo» assistono famiglie con bambini.

I peccati più gravi commessi dalle donne (adulterio) sono puniti con la lapidazione. Quelli veniali con la frusta. Le donne in pubblico non possono fare quasi più nulla. Se sono sposate devono essere accompagnate dal marito, e mostrare il certificato di matrimonio agli agenti. Oppure devono farsi scortare dal padre, da un fratello, da un cugino. Guidare un'auto non se ne parla, come in Arabia Saudita. Le femmine, piccole e grandi, non possono neppure sedersi sulle altalene: provocazione che spingerebbe gli uomini a molestarle.

I ristoranti che non separano uomini e donne, osano offrire vino (anche solo ai clienti stranieri non musulmani), o ancora peggio superalcolici, vengono bruciati e chiusi. Vietate le tv satellitari: con la scusa di controllare se ci sono i poliziotti possono piombare nelle case private a qualsiasi ora. Segregazione uomo/donna in tutti gli ambienti pubblici e di lavoro. L'Isis ha installato molte telecamere per sorvegliare perfino i marciapiedi.
     
Alcuni divieti sono grotteschi: niente elemosina ai mendicanti durante il Ramadan, proibito pregare per la propria squadra del cuore o indossare cravatte, usare cosmetici, bikini in spiaggia per le donne e stare a torso nudo per gli uomini. A San Valentino, per ostacolare la festa degli innamorati, i fiorai hanno dovuto tenere chiusi i negozi, le rose rosse non potevano essere vendute neppure per strada, e così i peluches e i cioccolatini. Nel mirino anche i commercianti che espongono manichini, proibiti perché "provocano" bassi istinti. Niente trucco per le donne che appaiono alla tv di Stato.

L'Isis ha emanato quattro decreti appositi per vietare musica, sigarette, pipe (anche i narghilè al semplice vapore acqueo), e far chiudere i negozi dieci minuti prima dell'inizio delle preghiere. I pochi cristiani non fuggiti devono pagare una tassa per praticare, ma non in chiesa: solo in privato. Anche le altre minoranze (alauiti, drusi) sono scappate.

«Non pochi si sono rifiutati di obbedire», dice Abu al-Bara’a al-Furati, studente di 22 anni. «Ma la gente tutto sommato è contenta perché l'Isis garantisce ordine pubblico, sicurezza, acqua, pane da quattro forni diversi ed elettricità: prima dei bombardamenti non c'erano più di sei ore di blackout giornaliero». I commercianti apprezzano che siano svanite le stecche che dovevano pagare ai funzionari corrotti di Assad.

A Raqqa anni fa un originale aveva aperto un casinò. Ovviamente i fondamentalisti lo hanno chiuso subito. I weekend andavano dal venerdì al sabato, ora sono giovedì e venerdì per distinguersi da cristiani ed ebrei. Gruppi di educazione islamica organizzano festival nelle moschee per incoraggiare i giovani a unirsi alla causa. Ai ragazzi sono mostrati video di decapitazioni per abituarli alla violenza, e avvertirli delle conseguenze se resistono ai jihadisti.
 
Nel filmato si vedono uomini armati con fucili d'assalto e kalashnikov andare ovunque in città. Anche una donna, che porta i bambini al parco, è armata di fucile: pronta a difendere, come tutti gli altri, il loro rigido e spaventoso regime. Centocinquanta donne francesi hanno scelto spontaneamente di lasciare la patria per vivere nello Stato Islamico. Entrando in un internet cafè si sente una di esse parlare con la famiglia: «Non voglio tornare indietro, mamma, ve lo dico senza mezzi termini. Dovete farvene una ragione, io non torno. Non c'è nulla di cui aver paura, sto bene qui. Tutto quello che si vede in tv è falso. La tv esagera sempre».

I combattenti stranieri che infestano Raqqa, spesso più crudeli e fanatici dei locali, vengono da Sud Africa, Olanda, Australia, Cecenia, Inghilterra, Germania, Balcani, e anche dagli Stati Uniti. Dicono che siano loro a tenere prigionieri gli ostaggi internazionali, fra i quali potrebbero esserci le due ragazze italiane Greta Ramelli di Varese e Vanessa Marzullo di Bergamo. Ma la voce più agghiacciante è che il boia che ha segato la gola a tre ostaggi opererebbe in periferia, in un campo vicino a un cimitero, non lontano dall’università Altihad, ateneo della città.
Mauro Suttora

Wednesday, October 26, 2011

parla Giovanni Castellaneta

L'EX AMBASCIATORE IN USA, IRAN E AUSTRALIA FA IL PUNTO SULLA PRIMAVERA ARABA E SUGLI ALTRI PROBLEMI INTERNAZIONALI PIU' RILEVANTI

di Mauro Suttora

Oggi, 19 ottobre 2011

Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».

E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».

A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».

La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».

In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».

Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».

E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».

La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».

Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».

Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».

Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».

Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».

Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».

Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».

Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».

La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».

Mauro Suttora