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Thursday, December 03, 2020

Trump ha realizzato il primo boom egualitario degli ultimi decenni

QUANDO LE DESTRE FANNO COSE PIÙ DEMOCRATICHE DEI DEMOCRATICI

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 dicembre 2020

Il mensile di sinistra Usa The New Republic ha pubblicato una lunga, scarnificante autocritica che può risultare preziosa anche per la sinistra italiana. L'autore, Christopher Caldwell, scrive che c'è poco da festeggiare per i democratici americani, visto il loro anemico risultato nel voto per il Congresso, derivante da mali strutturali.

Per cominciare, i risultati della presidenza Trump: invisibili dalle città globalizzate, tutte democratiche, dove vive il 90% dei giornalisti Usa. Trump ha realizzato qualcosa di straordinario: il primo boom egualitario degli ultimi decenni. Nel 2019 è riuscito ad abbassare la disoccupazione al 3,7% (praticamente pieno impiego, tranne la quota frizionale di chi sta cambiando lavoro), e soprattutto un aumento del 4,7% dei salari del quarto più basso della popolazione. Anche durante gli ultimi tre anni di Obama i redditi da lavoro erano aumentati, ma soprattutto quelli del decile più alto (del 20%), mentre gli altri strati avevano registrato miglioramenti solo lievi.

Quindi, se non ci fosse stato il virus, Trump probabilmente avrebbe vinto. Ma, anche qui: il crollo del 31% del pil nel secondo trimestre è stato annullato dal rimbalzo del 33% del terzo trimestre. Solo che il dato favorevole al presidente in carica è stato pubblicato appena cinque giorni prima del voto: troppo tardi perché mutasse la percezione di declino economico. Inoltre, buona parte degli elettori aveva già votato: è stata questa la vera distorsione provocata dal voto postale, non gli inesistenti brogli.

Per i democratici è imbarazzante ammetterlo: Trump ha avuto sfortuna. È stato il caso a provocare, più che la sua vittoria quattro anni fa, la sua sconfitta un mese fa. Perché ormai il partito democratico è visto come il difensore del privilegio economico: nove dei dieci stati più ricchi hanno votato Biden, 14 dei 15 più poveri per Trump. Se il distretto di Columbia (la capitale Washington) diventasse uno stato, come vogliono molti democratici, sarebbe il più ricco d'America, con un reddito pro capite superiore del 17% rispetto al secondo, il Connecticut. E a Washington Biden ha battuto Trump 92 a 5. 

I democratici sono il partito dell'economia globale, quindi delle sue due conseguenze aborrite dai ceti popolari: ineguaglianza e diversità etnica. "Per questo il fronte popolare di Biden è destinato a sfaldarsi", sentenzia Caldwell. Come fanno i socialisti Sanders ed Elizabeth Warren a rimanere assieme ai ricconi 'big money' che hanno regalato al partito democratico la sua prima campagna da un miliardo di dollari (il 60% più di quanto ha speso Trump)? Dove sono finiti i piccoli 'donors' da dieci dollari l'uno di Obama? Questa volta hanno coperto solo il 39% dei fondi di Biden, contro il 45% di Trump. Che quindi anche qui è stato più democratico dei democratici.

Nell'analisi di Caldwell c'è posto anche per l'Italia. "Negli anni '60 del diciannovesimo secolo", scrive, "tre grandi Paesi occidentali, Germania, Italia e Stati Uniti, combatterono guerre simili di unificazione, in cui la parte più dinamica di ciascuna nazione soggiogò la parte più bucolica". Oggi negli Usa i democratici sono il partito del progresso tecnologico e demografico (la California della Silicon Valley, New York, Boston), i repubblicani dell'arretratezza. Fino a mezzo secolo fa i repubblicani erano invece il partito del capitale e i democratici quello dei lavoratori. Ma capitale e lavoro hanno bisogno l'uno dell'altro, dinamismo e tradizione no. Quindi l'attuale divaricazione rischia di essere insanabile.

Conclude Caldwell: non abbiamo mai visto mai nulla di simile prima. Ci sarà più instabilità in futuro: "Il conflitto non è più fra due visioni dell'America, ma fra due popoli differenti". Ciascuna delle fazioni è convinta di rappresentare l'incarnazione dell'America, contro l'antiamericanismo degli altri. La vicepresidente Kamala Harris ha detto ai suoi 79 milioni di elettori: "Avete scelto speranza e onestà, scienza e verità". E Michelle Obama: "Abbiamo votato contro bugie, odio, caos e divisione". Cose brutte, che però hanno ottenuto 73 milioni di voti, più di quelli mai presi da suo marito. Cose xenofobe, maschiliste, egoiste: "deplorabili", secondo la famosa definizione suicida di Hillary Clinton. Le quali tuttavia, seppur politicamente scorrettissime, hanno attratto dieci milioni di statunitensi in più rispetto al bottino di Trump nel 2016. 

Cosicché, anche se per ora ha prevalso il fascino ecumenico di Joe Biden, gli Stati Uniti del nuovo presidente sono diventati indecifrabili per tanti dei litigiosi capi della sua corte. Un po' come in Lombardia soltanto due anni fa, quando il democratico Giorgio Gori perse 29 a 49 con il leghista Attilio Fontana alle regionali. Un distacco astronomico. A qualche democratico italiano fischiano le orecchie?

Mauro Suttora

Friday, January 20, 2017

Trump, Putin, Lavrov

di Mauro Suttora

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

Il famoso scrittore norvegese Jo Nesbø ha scritto Okkupert, una serie tv venduta in tutto il mondo (non in Italia) in cui la Russia invade la Norvegia e i Paesi nordeuropei subiscono il ricatto energetico russo e pressioni di ogni tipo, con quinte colonne filorusse interne.

È questo lo scenario inquietante aperto dalla vittoria di Donald Trump, amico di Vladimir Putin, il quale sarà seguito dai due principali candidati presidenti francesi entrambi filorussi (François Fillon e Marine Le Pen). Amici di Putin sono anche i grillini, leghisti e forzisti italiani, e l’antieuropeista Nigel Farage in Inghilterra.

Oggetto del contendere sono le sanzioni imposte alla Russia da Usa e Ue nel 2014, dopo l’annessione unilaterale della Crimea e la guerra ucraina. Trump le vuole togliere, anche se sarà difficile convincere il senato statumitense, dove neppure i repubblicani condividono l’aentusiasmo del nuovo presidente per l’autocrate russo.

Trump e Putin non si sono mai incontrati, anche se nel 2013 Donald andò a Mosca per il concorso di Miss Universo che organizza ogni anno, e poi si vantò di averci parlato. Più stretti i rapporti di Trump con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che ha lavorato 17 anni all’Onu a New York e quindi lo conosce bene.

Non è un mistero che Putin abbia tifato Trump al voto Usa, e che la simpatia sia apertamente ricambiata dal nuovo presidente. Controversa invece rimarrà la vicenda delle mail rubate al partito democratico per danneggiare Hillary Clinton. 
La Cia è sicura che siano stati i russi a darle a Wikileaks, e per questo il presidente Obama ha espulso 35 diplomatici russi da Washington. Ma Trump, in nome della comune lotta al terrorismo islamico, riallaccerà i rapporti con Mosca.
Mauro Suttora

Thursday, January 05, 2017

Ultimo duello Obama-Trump

LA TRANSIZIONE TRA I DUE PRESIDENTI USA DIVENTA UN INCUBO

di Mauro Suttora

Washington, 5 gennaio 2017

Nessuno aveva immaginato i fuochi d’artificio degli ultimi due mesi. Barack Obama e Donald Trump se le stanno dando di santa ragione. Fortuna che il 20 gennaio il primo se ne va e il secondo gli subentra alla Casa Bianca, altrimenti la commedia dei due presidenti Usa andrebbe avanti e non si saprebbe più chi comanda negli Stati Uniti.

Obama fa condannare dall’Onu gli insediamenti di Israele in Palestina? «Non preoccupatevi, tenete duro che fra un mese arrivo io», twitta Trump al governo israeliano. 

Il presidente uscente espelle 35 diplomatici russi da Washington, accusati di essere spie? Quello russo fa il magnanimo e rinuncia a vendicarsi, perché sa che dopo il 20 gennaio l’amico Trump annullerà tutto. 

Obama proibisce di estrarre petrolio dall’Artico? Donald nomina ministro dell’Energia un texano lobbista dei petrolieri.

Al di là del colore dei capelli e della pelle, Obama e Trump sono uno l’opposto dell’altro. Per idee politiche, carattere, stile. Un democratico di sinistra e un repubblicano di destra. Un intellettuale compassato e un miliardario esuberante. Un politico riflessivo e un uomo d’affari imprevedibile.

Obama non ha mai nascosto la sua disistima per Trump: «Sfrutta rabbia, frustrazione e paura. È inadatto a fare il presidente. In gioco c’è la democrazia». 
E Trump ha detto peste e corna di Obama (mettendo perfino in dubbio che fosse nato negli Stati Uniti), salvo poi ringraziarlo dopo il primo loro incontro «per la cordialità e l’utilità». 
Ma la faccia schifata di Obama nella foto è sembrata quella di Enrico Letta mentre dava il campanellino a Renzi.

Sepolto ogni galateo. Da 220 anni gli Stati Uniti eleggono il presidente all’inizio di novembre, e dopo 70-80 giorni c’è la cerimonia di inaugurazione. Due mesi e mezzo di interregno che non avevano mai causato problemi. Neanche quando si sono dati il cambio avversari agli antipodi, come Carter e Reagan nel 1980 o Clinton e Bush vent’anni dopo.

Questa volta invece la transizione è drammatica. «Un capo alla volta», la regola che vige a Washington e che viene rispettata perfino a Roma, con l’inedita coabitazione fra due Papi e l’assoluto rispetto dell’emerito Ratzinger per il successore Bergoglio, è saltata. 
Anche perché i democratici sono furibondi: Hillary Clinton in realtà ha avuto quasi tre milioni di voti più di Trump, ma ha perso a causa del sistema elettorale frazionato in collegi.

Luttwak: «Casa Bianca patetica»

Di chi è la colpa della frattura? «Il presidente eletto deve tacere, senza intromettersi nelle ultime decisioni di quello uscente», dice Wolf Blitzer, il giornalista più famoso della Cnn. 
«Però quello uscente deve mostrare eguale rispetto per il successore», ribatte il commentatore Edward Luttwak, «quindi non può prendere decisioni importanti. Obama si è limitato all’ordinaria amministrazione su Israele e Russia? No. Le sue provocazioni sono patetiche».

Ma cos’è successo esattamente? Su Israele, da 40 anni l’Onu condanna le colonie israeliane che continuano a sorgere nel territorio del futuro stato di Palestina. Ma per la prima volta gli Usa non hanno messo il veto, e quindi la risoluzione è passata. Con grande scorno del premier di Tel Aviv, Benjamin Netaniahu.

«Anche gli israeliani più intelligenti sanno che costruire su suolo palestinese allontana la pace», ha rincarato il segretario di Stato John Kerry. 
Trump invece è così vicino alla destra israeliana da avere già annunciato il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme (non riconosciuta come capitale di Israele).

Vladimir Putin è inoltre accusato da Obama di aver mobilitato hacker per danneggiare la campagna elettorale di Hillary Clinton. Un’interferenza gravissima, mai avvenuta neppure al culmine della Guerra fredda. Sono state pubblicate mail in cui i capi democratici favoriscono Hillary contro l’avversario delle primarie Bernie Sanders.

Chi le ha fornite a Wikileaks? La Cia è sicura: i russi. I quali ospitano a Mosca anche Edgar Snowden, l’ex agente segreto Usa che ha rivelato le manovre della Nsa (National security agency)
.
Anche qui, Trump non si è fatto scrupoli nel contraddire la Cia. Per “ripulirla” ha nominato l’italoamericano del Kansas Mike Pompeo. Un conflitto con pochi precedenti fra un presidente e i propri servizi segreti, che ingoiano ogni anno l’astronomica cifra di 500 miliardi di dollari. 

Obama invece ha ritenuto l’intromissione russa così grave da meritare una rappresaglia immediata: via 35 finti diplomatici di Mosca.

E avanti così, in un’interminabile sequenza di ripicche fra i due presidenti Usa. L’“anatra zoppa” Obama e Trump la scorsa settimana si sono telefonati. Gli addetti stampa assicurano che il colloquio è stato «tranquillo e costruttivo», ma la realtà degli attacchi via tweet di Trump dice il contrario.

Altro che anatre: questi sono due galli che si azzuffano nello stesso pollaio.

Mauro Suttora

Saturday, July 30, 2016

Merkel, vacanze in Italia

Anche quest’anno la cancelliera tedesca sceglie l’Italia per le  ferie: val Venosta in Montagna, Ischia al mare. Ecco le sue abitudini e le piccole manie per rilassarsi. Perché il ritorno a Berlino non sarà facile

di Mauro Suttora

Oggi, 30 luglio 2016

Sveglia ogni giorno alle sette. E alle nove, invariabilmente, si parte. Angela Merkel, cancelliera tedesca, è affezionatissima all’Italia. Mare a Ischia e montagna qui in Val Venosta, ai piedi dell’Ortles. Da quasi dieci anni ormai, con un piccolo “tradimento” fugace nella vicina Val Pusteria.

Quest’anno il tempo è stato così così, ma basta che non piova e frau Merkel  trascina ogni giorno il suo secondo marito, l’imperturbabile Joachim Sauer, docente universitario di chimica, in lunghe passeggiate per i sentieri nei boschi.

Ma non sono camminate qualunque: nordic walking, si chiamano quando si usano due bastoni da sci di fondo per agevolare i passi. Usanza recente, nata meno di vent’anni fa ma diffusa ormai ovunque.

Davanti all’hotel di Solda ogni mattina si raduna un piccolo gruppo di agenti in borghese e in divisa, italiani e tedeschi, che sorveglia uno dei bersagli più appetiti dai terroristi.

Ma è una scorta discretissima, niente a che vedere con i cortei blindati di altri potenti del mondo. Anche perché bisognerebbe bloccare accesso e transito per vari chilometri, visto il continuo movimento della placida coppia.

Spesso Angela studia itinerari più impegnativi, e allora ecco seggiovie e funivie per portarla in quota. Ma il disturbo per gli altri turisti è minimo: gli uomini della scorta occupano soltanto il sedile precedente e il successivo a quello della cancelliera.

La quale approfitta di questi giorni per ritemprarsi, dopo un pesantissimo luglio. Gli attacchi dei terroristi islamici hanno violato la quiete tedesca, e a poco vale precisare che i nove morti di Monaco di Baviera sono stati opera di uno squilibrato afghano-tedesco, senza motivi politici o religiosi.

Anche in questi drammatici frangenti la Merkel ha sfoggiato una calma rassicurante. Non si è lanciata in dichiarazioni immediate, come il francese Hollande: ha aspettato molte ore, a volte giorni, prima di rivolgersi pubblicamente ai propri cittadini. Una discrezione agli antipodi del presenzialismo su twitter e facebook.

Un anno fa la cancelliera ha lanciato il suo storico invito: «Profughi siriani e irakeni, venite in Germania. Vi accoglieremo».

Il bilancio non è stato positivo. Su un milione di rifugiati ospitati dai tedeschi, solo una cinquantina finora ha trovato lavoro in una grande azienda. L’economia va bene ma rallenta, e anche in Germania il partito populista cresce. L’anno prossimo si va al voto. Se Angela Merkel vincerà, il mondo  potrebbe essere guidato da tre donne: Hillary Clinton (Usa), Theresa May (Gran Bretagna) e lei.
Mauro Suttora

Wednesday, September 02, 2015

Ritratto indiscreto di Melania Trump

Sorprese: la moglie del candidato repubblicano alla Casa bianca ha posato nuda. Bella, determinata, disinibita, Melania Knauss scalda già i motori per le presidenziali

AMERICANI, SARO' LA VOSTRA FIRST LADY!

Fra 14 mesi si vota. Il miliardario Donald Trump guida i sondaggi. Sua moglie, ex modella slovena, prima di sposarsi fece qualche peccatuccio fotografico

New York, 26 agosto 2015

di Mauro Suttora



Sarebbe la First lady più bella della storia. Nessuno rimpiangerebbe più Jacqueline Kennedy o Carla Bruni. Se suo marito Donald Trump, 69 anni, diventasse presidente degli Stati Uniti, Melania Knauss, 45 anni, sarebbe anche la prima first lady degli Stati Uniti ad aver posato nuda. Non la prima al mondo: Carla Bruni l’ha anticipata nel 1993.

Poi, essendo slovena, sarebbe la prima inquilina della Casa Bianca a non parlare inglese dalla nascita. Non la prima straniera: John Quincy Adams, presidente nel 1825, era marito di una britannica.

Melania è nata nel 1970 a cento chilometri dall’Italia in un paesino di 5 mila abitanti sul fiume Sava, nella Jugoslavia comunista. E arriva a Milano nel 1988 con mamma Amalia, che la spinge a fare la modella (prima sfilata a 5 anni).

Figlia di un austriaco, arriva a Milano.
Il padre, Victor Knavs, è austriaco e lavora in una concessionaria d’auto. Il cognome cambia quando lei, in carriera, vuole sembrare più tedesca (come Claudia Schiffer e Heidi Klum).


Dopo la facoltà di Architettura a Lubiana, l’educata e timida Melania viene ingaggiata dal milanese Paolo Zampolli, che con la sua agenzia di modelle la porta a New York.


«Era seria, molto professionale. Le piaceva starsene a casa, non era una party girl», ricorda Zampolli. «Il suo viso dominava Times Square in una pubblicità della Camel, ma lei andava solo al lavoro e in palestra».


Nel 1998 in una festa di Zampolli al Kit Kat Club durante la Fashion Week newyorchese incontra Trump, che dopo Ivana (pure lei ex modella slava) aveva lasciato anche la seconda moglie Marla Maples. Melania ha 28 anni, lui 52.

Amore a prima vista per Donald. Non per lei. Lui le chiede il numero di telefono, lei rifiuta. «Era con una donna, non glielo avrei mai dato», racconterà. Si mettono assieme dopo il divorzio da Marla. Fine della vita da playboy di Donald.


«Facciamo sesso in modo incredibile almeno una volta al giorno, a volte an- che di più», dice Melania nel 2000 al mensile GQ che la fotografa svestita su un tappeto di pelle d’orso nel jet privato di Trump. «Lei è molto sexy quando indossa solo mutandine», spiega lui.

Alta un metro e 80, misure 89-61-89, Melania continua a lavorare come modella. A chi la accusa di essere un’arrampicatrice risponde: «Non si può vivere con chi non si ama. Non si può abbracciare un bell’appartamento. Non si può baciare un aereo».

Si sposano nel 2005 in uno dei resort di lusso di Trump in Florida. Lei ha un vestito Christian Dior da 100 mila dollari. In prima fila l’ex presidente Bill Clinton e sua moglie Hillary, allora senatrice di New York, oggi rivale democratica del repubblicano Trump per la Casa Bianca.

A Melania, che è diventata cittadina statunitense, piace inondare i suoi 42 mila followers su Twitter di foto sulla sua vita opulenta nell’attico e superattico della Trump Tower di Manhattan, con il figlio Barron di 9 anni.

Gli ha consigliato lei di non attaccare Bush jr.

Non si interessa di politica, ma da quando Trump (ricchezza personale: 9 miliardi di dollari) è sceso in campo gli dà qualche consiglio. Per esempio, non attaccare Jeb, il terzo Bush candidato presidente, perché lei lo frequenta nel giro dei galà di beneficenza.


La campagna presidenziale è lunga. Le primarie repubblicane sono a febbraio, e lì per ora Trump sembra non avere rivali: gli ultimi sondaggi lo danno al 24%, contro il 13 di Jeb Bush. Tutti gli altri indietro.

Fra 14 mesi, poi, il voto finale. E in questi ultimi giorni, sorpresa: il distacco con Hillary si è ridotto da 16 a soli 6 punti: 51 a 45. Pochi pensano che Donald ce la possa fare. Però nessuno pensava neanche che Ronald Reagan conquistasse la Casa bianca, nel 1980.

«Dopo il primo presidente nero, il primo arancione», scherzano, riferendosi all’incredibile colore dei capelli di Trump. Riporto? Parrucchino? Mistero.

Quel che è certo, è che se il sogno per la bella Melania dovesse realizzarsi, alla Casa Bianca non ci sarà un altro caso Monica Lewinsky: «Se non gli piaccio più, bye bye», dice lei. Insomma, liquiderebbe Trump così come lui fa con i concorrenti del suo talent show tv The Apprentice: «Sei fuori!».

Se eletto, Trump aumenterà le spese militari ma legalizzerà ogni droga: «Combatterle costa troppo». E continua a scandalizzare: ora vuole negare la cittadinanza ai figli dei clandestini nati negli Usa (ius soli).

Melania Knauss Trump non ha mai avuto problemi a farsi fotografare senza veli, fino al matrimonio nel 2005. Le immagini potrebbero danneggiare il marito nella campagna presidenziale, visto che il suo partito repubblicano ha molti elettori conservatori. Ma il ciclone Trump che sta investendo gli Stati Uniti è fatto di provocazioni, e il ricchissimo Donald ne è maestro.

Mauro Suttora


Wednesday, August 19, 2015

Trump: un cafone alla Casa Bianca

FA BATTUTE ORRENDE CONRO DONNE E IMMIGRATI. E VUOLE LA NOMINATION DEI REPUBBLICANI ALLA PRESIDENZA USA. RITRATTO DI DONALD IL MALEDUCATO

di Mauro Suttora

Oggi, 12 agosto 2015 

Con lui non ci si annoia mai. Insulta le donne che non gli piacciono: «Troia grassa, cagna, animale disgustoso». Una giornalista gliel’ha rinfacciato, la scorsa settimana in un dibattito tv. Lui ha risposto: «Il grande problema degli Stati Uniti è la correttezza politica».
Poi ha rincarato, e di quella stessa giornalista ha detto: «Aveva il sangue agli occhi contro di me. Le usciva sangue dappertutto…», alludendo al mestruo. Risultato: espulso dal prossimo dibattito per le primarie.

Donald Trump, 69 anni, vuole diventare presidente degli Stati Uniti. Si è candidato per il partito repubblicano. E più le spara grosse, più avanza nei sondaggi. L’ultimo lo dà al 23%, contro il 10-15 dei migliori fra gli altri sedici candidati alle primarie (Jeb Bush, figlio e fratello degli ex presidenti, il senatore Marco Rubio, il governatore Scott Walker).

«Il Messico ci manda spacciatori e violentatori. Brutta gente, gli immigrati». «Abolirò l’assistenza sanitaria per i poveri introdotta da Obama». «La Cina è nostra nemica, dobbiamo batterla». «Per sterminare gli estremisti islamici, rafforziamo l’esercito». «Se Hillary Clinton non ha soddisfatto suo marito, come può soddisfare l’America?».

Queste sono alcune delle sue “perle”, che attraggono gli spettatori tv. Le elezioni sono ancora lontane: primarie a gennaio, presidenziali a novembre 2016. Ma i capi repubblicani sono preoccupati. Se Trump vince le primarie, perderà il confronto col candidato democratico (probabilmente la Clinton) perché è troppo a destra. Ma se verrà sconfitto fra i repubblicani si presenterà come indipendente, e li farà egualmente perdere togliendo loro voti. Come accadde nel 1992 con Ross Perot, che consegnò la vittoria a Bill Clinton contro il presidente Bush padre.

Trump è alla ribalta da 40 anni. Costruttore edile figlio di costruttore edile, ricco sfondato (patrimonio di nove miliardi), sposa la modella cecoslovacca Ivana nel 1977. Dopo il divorzio del 1990 altre nozze glamour con l’attrice Marla Maples. Ivana invece si dà agli italiani. Ne sposa due: Riccardo Mazzucchelli, poi Rossano Rubicondi. Ora sta con Marcantonio Rota.

Donald si acquieta con un’altra modella slava, Melania Knauss. Da tredici anni vivono nel superattico della Trump Tower sulla Quinta Avenue di Manhattan. Dove ci sono altri tre grattacieli col nome Trump: quello nero e altissimo di fronte all’Onu (262 metri, 72 piani, appartamenti di Sophia Loren, Valentino Rossi, Bill Gates, Harrison Ford, Madonna), l’hotel a Columbus Circle e l’ex hotel Delmonico sulla Park Avenue. L’impero Trump si estende poi su innumerevoli palazzi a Chicago, Las Vegas, Atlantic City e in Florida.

Ma nella cultura pop Trump è famoso anche come patron dei concorsi Miss Usa e Miss Universo, attore in film e serial tv (Sex and The City) e infine, come seviziatore di giovani ambiziosi nel reality The Apprentice.
In effetti, Donald è un misto fra Flavio Briatore (il boss dell’Apprentice italiano), Silvio Berlusconi e Ronald Reagan. Anche quest’ultimo era un outsider, attore disprezzato come politico, quando arrivò alla Casa Bianca nel 1980. Difficilmente Donald eguaglierà Ronald. Ma almeno per qualche mese ci divertiremo.
Mauro Suttora


Wednesday, January 11, 2012

2012: rivincita per Aung San Suu Kyi?

Nel 1990 la signora della nonviolenza vinse le elezioni in Birmania con l’82 per cento. Finì agli arresti, isolata per 21 anni. Ma ora è libera, e il nuovo presidente promette un nuovo voto entro giugno

di Mauro Suttora

Rangoon, 4 gennaio 2012

Nelson Mandela è rimasto in prigione 27 anni. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è arrivata a 21 (seppure agli arresti domiciliari). I dittatori birmani la arrestarono nel 1990, dopo che vinse le prime elezioni libere conquistando l’82 per cento dei seggi. Lei non ha più potuto riabbracciare neppure il marito inglese, morto a Londra nel 1999.

Da qualche mese, però, le cose in Birmania sembrano cambiate. C’è una specie di Gorbaciov, il generale Thein Sein, presidente dallo scorso marzo, che sta liberalizzando il regime. Ha promesso nuove elezioni per il 2012. La signora Suu Kyi ha riacquistato la libertà, e questa volta il suo partito parteciperà al voto. Tutto sembra cambiato rispetto alle sanguinose proteste del 2007 guidate dai monaci buddisti, che emozionarono il mondo intero.

La signora è figlia del Garibaldi birmano: Aung San combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947. Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, anche perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.

Lei andò in esilio con la famiglia nel ’62, quando i generali si impadronirono di questo stupendo Paese di 50 milioni di abitanti Tornò nell’88 a Rangoon solo perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader.

I generali non l’hanno liberata neanche dopo il 1991, quando le diedero il Nobel per la pace. La dittatura birmana sta in piedi solo grazie all’appoggio della vicina Cina, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si è sempre opposta a sanzioni dell’Onu, e perfino la democratica India, che trova conveniente commerciare con la Birmania.

Ma adesso i generali cominciano a temere lo strapotere della Cina, e per la prima volta dal 1955 hanno invitato un segretario di Stato statunitense (Hillary Clinton) in visita ufficiale.

Mai una parola di odio

Restano ancora in prigione un migliaio di prigionieri politici, ma il clima è migliorato e Aung San Suu Kyi ha accettato di partecipare alle prossime elezioni. Lei da 22 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca: «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello.

Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che nel 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone Walk On (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco (For the Lady), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting. Il 2012 potrebbe essere l’anno della svolta.

Wednesday, May 18, 2011

Obama e Osama

PERCHE' GLI AMERICANI HANNO UCCISO E NON ARRESTATO BIN LADEN

di Mauro Suttora

Oggi, 8 maggio 2011

Per una settimana il mondo intero ha discusso se il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dovesse pubblicare la foto di Osama Bin Laden morto. «Ce l’abbiamo, ma è troppo raccapricciante per mostrarla», è stata la puerile scusa accampata da Washington. Come se centinaia di immagini di guerra o di lager nazisti non fossero altrettanto orrende.

Alla fine gli autoeletti guardiani dei nostri stomachi presunti minorenni hanno mostrato non una foto, ma interi video del capo terrorista quand’era ancora vivo. Colpo da maestri: queste immagini hanno ucciso Osama più del colpo in fronte forse illegale che lo ha giustiziato.

Avete presente i «fuori onda» di Striscia la notizia? Anche i personaggi più rispettabili sprofondano nel ridicolo se li si sorprende a dire sciocchezze o a mettersi le dita nel naso pensando di non essere inquadrati. Non sapremo mai il nome dell’attendente di Al Qaeda che ha filmato il suo capo mentre ammira i propri video su una sgangherata tv. Ma dovrebbero dargli una medaglia. Egli è infatti un involontario eroe, quasi quanto i veri eroi del commando che è volato di notte con gli elicotteri in Pakistan per eliminare il «most wanted» dopo ben dieci anni di caccia.

Lo squallore di quelle inquadrature, la piccineria di un assassino esibizionista che si tinge la barba bianca per rivendicare le sue stragi, il suo sguardo perso quando guarda fuori campo chiedendo «Come sono venuto?», sono le vere armi letali che hanno distrutto in pochi secondi il mito del Male. Più di due intere guerre in Afghanistan e Iraq, più di migliaia di soldati (anche italiani) uccisi, più dei centomila civili arabi innocenti morti come «danni collaterali».

Ricordate il film Il grande dittatore di Charlie Chaplin? Hitler e Mussolini furono sepolti dalle risate, prima di finire annientati nel conflitto da loro provocato. Così oggi Osama perde qualsiasi «aura» fra i suoi miseri cavi tv e cenci ad Abbottabad, e nel 2003 l’altro Grande cattivo Saddam finì la carriera quando venne estratto da un buco e gli furono esaminati i denti come come ad un animale.

Piccoli dettagli che fanno la grande storia. Perché non c’è dubbio che la data del 2 maggio 2011 sarà ricordata come la fine dell’incubo mondiale che ci ha attanagliato per tutto il decennio degli «anni Zero». Andatelo a dire ai parenti delle migliaia di vittime di Osama, dell’11 settembre 2001 a New York ma anche del 2008 a Bombay, del 2002 a Bali, del 2003 a Nassirya, del 2004 a Madrid, del 2005 a Londra, fino ai poveri diciotto squartati vivi due settimane fa nella più bella terrazza con vista di Marrakesh, che il boia di Al Qaeda non doveva essere ucciso ma catturato vivo per poi venire sottoposto a regolare processo e naturalmente non essere condannato a morte perché noi europei siamo civili, e quindi contro la pena capitale. In ogni caso, se «pietà non l’è morta», la salma di Osama non doveva essere gettata in mare bensì sepolta dopo funerale. A costo di subire per un secolo sia un effetto Predappio (pellegrinaggi di aficionados), sia un rischio Mike Bongiorno (bara trafugata).

«Nessuno tocchi Caino?» Gli americani, compreso il democratico e raffinato Obama, hanno una concezione più biblica della giustizia: «You get what you give», prima o poi ti tocca quello che hai dato agli altri.

Sbagliano? Può darsi. Però, anche qui, proviamo a osservare i dettagli. Guardate le facce delle persone nella grande foto della pagina precedente. Non mostrano la stolidità di un Bush, l’arroganza di un Cheney. Sono quelle che abbiamo tutti noi quando siamo preoccupatissimi per un avvenimento pericoloso. I visi di Obama, di Hillary Clinton, del vicepresidente Joe Biden e degli altri dirigenti della superpotenza che ha violato il diritto internazionale, che ha invaso lo spazio aereo di uno stato sovrano per «fare giustizia», sembrano quelli di gente normale e perbene. Il più importante fra loro, il presidente, pare addirittura capitato lì per caso: se ne sta appartato, senza poltrona. Passava in corridoio una segretaria, era curiosa: hanno fatto entrare anche lei, però ora le tocca allungare il collo per vedere meglio...

Ma andiamo sul concreto. D’ora in poi saremo più sicuri? Certo che no. Continueremo a tribolare prima di salire sugli aerei, anche se proprio da qualche giorno - prima della morte di Osama - molti aeroporti hanno attenuato il divieto un po’ incomprensibile di portare qualsiasi liquido a bordo (sì, quel tizio si era confezionato una bombetta, ma guardateci: sembriamo tutti terroristi?). Nel covo del capo di Al Qaeda sono stati scoperti piani per far deragliare treni. Quindi, sono pericolosi anche quelli. Però lo sapevamo già da sette anni, dopo l’attentato alla stazione spagnola di Atocha. Idem per metrò e bus, dopo le bombe inglesi del 2005.

«Nelle prossime settimane e mesi potrebbero entrare in azione cellule di terroristi dormienti per vendicare la morte del loro capo», avvertono i servizi segreti occidentali. Insomma, abbiamo schiacciato la testa del serpente, ma forse abbiamo anche risvegliato un nido di vipere.

Ci sono però tre motivi di ottimismo. Innanzitutto la «primavera araba». Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen dimostrano che anche l’Islam vuole libertà e democrazia. Non si crede più alla favola degli estremisti religiosi, che davano tutte le colpe agli «infedeli» e dirottavano la rabbia popolare su Israele, Usa e Occidente. Per la prima volta nella storia i musulmani si ribellano ai propri dittatori. È una novità epocale, come il crollo del comunismo nel 1989.

Seconda buona notizia: Osama era ancora il capo operativo di Al Qaeda. Molti analisti pensavano che fosse rimasto una figura simbolica, ma staccata dalla gestione concreta degli attentati. Invece la grande quantità di documenti trovati a casa sua dimostra che il mascalzone comandava e decideva ancora. Quindi è stata decapitata la testa funzionante di Al Qaeda. E nelle organizzazioni verticistiche gli adepti si demoralizzano, quando i vertici scompaiono.

Il terzo motivo per ben sperare, infine, sta nella messe di «file» segreti portati via dal commando: ci vorranno settimane per tradurli tutti dall’arabo, ma sono in vista altri clamorosi arresti e blitz. È già partito un drone americano contro il capo di Al Qaeda nello Yemen. Obiettivo mancato, ma le fila dei terroristi sono ormai scompaginate, impaurite e frustrate. Prossimo bersaglio: Al Zawahiri, il vice-Osama egiziano.

Mauro Suttora

Thursday, September 09, 2010

Usa: belle a destra, brutte a sinistra?

SCHERZO SU YOU TUBE

di Mauro Suttora

Oggi, 27 agosto 2010

La più sfrontata si chiama Ann Coulter. Adora titillare le fantasie erotiche del maschio reazionario medio americano facendosi fotografare seminuda vicino alla canna di un fucile. Per fare propaganda alla Nra (National Rifle Association), il bastione fascistoide che difende la libertà di portare armi, ossessione degli Stati Uniti.

Ma la Coulter non è l’unica bella donna della destra americana. La più famosa è Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska candidata repubblicana alla vicepresidenza con John McCain alle presidenziali del 2008, vinte dal democratico Barack Obama. Secondo alcuni McCain perse anche perché la Palin è di una destra troppo estrema. Ma invece di essere per questo emarginata dal partito, dopo il ko la pugnace Sarah si è rialzata, ha pubblicato un’autobiografia di successo (oltre due milioni di copie vendute), e adesso minaccia Obama alle elezioni di metà mandato di novembre, sull’onda del successo del movimento antitasse «Tea party».

Qualche giorno fa il responsabile di un sito di propaganda del partito repubblicano ha messo per scherzo su YouTube un video con una sequenza di belle donne di destra come la Coulter, la Palin e varie altre, fra cui l’attrice Bo Derek. In colonna sonora, la canzone di Tom Jones She’s a Lady.

Poi la musica cambia: arriva il brano Who let the dog out? (Chi ha tolto il guinzaglio al cane?), e una serie di foto distorte di donne politiche di sinistra: la segretaria di stato (ministra degli Esteri) Hillary Clinton, Madeleine Albright che la precedette nella stessa carica sotto la presidenza del marito Bill, la ministra Janet Napolitano, ministra dell’Interno e già governatrice dell’Arizona, e perfino la first lady Michelle Obama (contrapposta a un’altra donna di colore, Condoleezza Rice, considerata invece bella perché di destra). Apriti cielo: dopo una valanga di proteste YouTube ha censurato il video, ritenuto offensivo. Negli Usa non è considerato «politicamente corretto» scherzare sull’aspetto fisico delle persone.

In effetti, a destra negli Stati Uniti le bellezze abbondano. Ma non si tratta soltanto di «bionde sciocche», secondo lo stereotipo di Marilyn Monroe. Laura Ingraham, per esempio, ha sei milioni di ascoltatori per il suo programma conservatore alla radio. Ma è anche rimasta in testa alla classifica dei libri più venduti per tutta quest’estate, grazie ai suoi Obama’s Diaries. Lei è una che non le manda a dire: chiamava i gay «sodomiti», fino a quando ha scoperto che pure suo fratello lo è.

Anche i libri molto aggressivi della Coulter diventano subito bestseller. Entrambe hanno inoltre la lingua sciolta, per cui sono la delizia dei talk show politici tv sulla rete Fox di estrema destra di Rupert Murdoch, che scandalizzano ogni sera il popolo di sinistra.

Mauro Suttora

Wednesday, April 15, 2009

Le gaffes di Berlusconi

Oggi, 15 aprile 2009

«Ogni volta che Berlusconi combina queste cose, e le combina spesso, ho sempre la stessa impressione: di un tycoon, un magnate dei media, che i soldi e il successo hanno reso così trascendentemente sicuro di se stesso, talmente abituato a persone che vanno in deliquio di fronte a lui, da fargli quasi smarrire il senso di ciò che è appropriato».

La scenetta del nostro premier che al G20 si fa fotografare fra Barack Obama e il russo Dimitri Medvedev, e che viene redarguito dalla regina Elisabetta per la sua rumorosità, ha fatto il giro del mondo. E così la commenta con Oggi il vicedirettore del settimanale americano Newsweek, Tony Emerson. Che aggiunge: «Si può notare la stessa eccentricità in molti tycoon, ma è particolarmente acuta in Berlusconi. E soltanto in Italia la si vede nel capo del governo. Per questo lo amiamo: è una copia unica».

«Berlusconi mette in atto questi meccanismi per richiamare l’attenzione su di sè, astutamente, e riuscendoci», spiega Maria Latella, autrice del libro su Berlusconi Come si conquista un Paese (Rizzoli). «L'Italia non è un Paese di prima grandezza, ma Silvio non può sopportare che gli venga riservato un trattamento di serie B. Così trova sempre il modo di attirare l’interesse. Lui stesso mi ha spiegato che la famosa scena del cucù fatta a Trieste ad Angela Merkel nacque per sbloccare una situazione di tensione con la cancelliera tedesca. Si parlava di banche, e lui riuscì a instaurare un clima diverso cogliendo tutti di sorpresa.

A Londra la cosa gli è riuscita a metà. E' andata benissimo per la photo opportunity, nel senso che è riuscito addirittura a spostare il baricentro della foto finale del summit G20. Ma Berlusconi non aveva calcolato la potenza mediatica e la reazione della regina Elisabetta, che ha innescato l’altra metà della scenetta. Ovviamente la regina d’Inghilterra ha un'immagine mondiale assai più forte di quella del nostro premier, ed è bastato vederla sbattere nervosamente la borsetta, rimproverandolo stizzita, per diminuire in parte il beneficio del ritratto trionfante fra Osama e Medvedev».

E la bandana in Sardegna del 2004? «Quello è un episodio diverso, non appartiene alla stessa categoria dei gesti calcolati per guadagnare simpatia: lì aveva bisogno di nascondere un trapianto di capelli, non lo fece per Tony Blair. Restano invece indimenticabili le corna esibite al vertice europeo di Caceres nel 2002, sempre durante la foto di gruppo finale: quelle le eseguì per far ridere un gruppo di ragazzi spagnoli che assisteva alla scena».

Ma per l’Italia è positivo avere un premier così esuberante? Le battute possono essere più o meno riuscite. A volte si trasformano in gaffes, come quella del 2005 sulla non molto avvenente presidente finlandese, a proposito della quale Berlusconi si vantò di «avere esercitato tutte le mie armi di playboy» per dirottare l’Agenzia europea dell'alimentazione da Helsinki a Parma.
«Provi a scherzare con Hillary Clinton, e poi vediamo», commenta Maria Latella.

Mauro Suttora

Wednesday, September 10, 2008

Sarah Palin

Mossa vincente di McCain: lancia la bella Sarah Palin

Oggi, 30 agosto 2008

John McCain, 72 anni, era stufo di sentirsi dare del vecchio da Obama. Così il candidato repubblicano, con una mossa a sorpresa, si è scelto come candidata vicepresidente Sarah Palin, 44 anni, governatrice dell' Alaska. Il personaggio non poteva essere più azzeccato. Innanzitutto una donna, e dopo la delusione dei 18 milioni di donne che hanno votato Hillary Clinton alle primarie può darsi che anche qualche democratica voti per la Palin, anche se è del campo avverso?

Il secondo motivo della candidatura Palin è che si tratta di una vera conservatrice: contraria all' aborto, cinque figli, ha voluto l' ultimo, nato quattro mesi fa, nonostante abbia la sindrome di Down. E poi è una vera ragazza del West: le piace sparare ed è favorevole al porto d' armi per tutti

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Wednesday, June 18, 2008

Obama vince le primarie

Elezioni usa. Cosa significa la vittoria di Obama

A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008

Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.

"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".

Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.

Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.

"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.

La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".

Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.

La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.

Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.


Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.

Mauro Suttora

Wednesday, November 28, 2007

Hillary Clinton lesbica?

VOCI DI UN FLIRT CON LA SEGRETARIA

Washington, 27 novembre 2007

Oggi

La prima a insinuarlo era stata Gennifer Flowers, l’ex amante di Bill Clinton che per poco, con lo scandalo delle sue rivelazioni, non gli impedì l’elezione a presidente degli Stati Uniti nel 1992: «Hillary è lesbica», scrisse nella sua autobiografia del ’95, «e Bill una volta mi ha detto scherzando: “Ha avuto più donne lei di me...”».

Poi, quest’estate, lo ha scritto Michael Musto, re del gossip di New York, sul settimanale Village Voice: «Hillary ha una storia con la sua segretaria personale, la bellissima Huma Abedin, dea indopakistana. Passa così tanto tempo con lei che l’Observer l’ha soprannominata “guardia del corpo di Hill”».

Musto è gay, conosce tutto di quel mondo, e i sussurri si sono moltiplicati. La Abedin è single, non le si conoscono amicizie intime maschili, e per di più è stata fotografata con la Clinton e la conduttrice tv Ellen DeGeneres (la lesbica più famosa d’America) durante una loro serata a tre a New York.

Quale pettegolezzo potrebbe essere più appetitoso? Siamo a un anno esatto dalle elezioni presidenziali. Hillary è in testa a tutti i sondaggi. A gennaio cominciano le primarie per il voto di novembre. Il presidente George W. Bush non è più rieleggibile dopo due mandati, e fra i candidati repubblicani soltanto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani riesce a non farsi distanziare troppo dalla Clinton.

Fra i democratici Hillary spopola. Il suo rivale Barack Obama è di pella nera, e anche se nessuno osa dirlo, gli Stati Uniti non sembrano ancora maturi per eleggere il primo presidente di colore. I repubblicani hanno già i fucili puntati: «Avremo un presidente quasi islamico che si chiama quasi Osama?», scherzano rischiando querele per diffamazione, perché il padre di Osama, ex pastore di capre immigrato dal Kenya, era agnostico e comunque divorziò quando lui aveva solo due anni.

Ma gli americani sono pronti per il loro primo presidente donna? E proprio «quella» donna, uscita massacrata dagli scandali sexy del marito quand’era first lady? «Non pensavo che Hillary potesse superare Bill in fatto di avventure sessuali», scrive acido il commentatore Robert Morrow. Per di più, i sondaggi danno sì la Clinton in testa, però oltre che la candidata più amata risulta anche la più odiata. Insomma, non lascia nessuno indifferente.

Anche Mary Cheney, figlia del vicepresidente Dick, è omosessuale. Non solo: lo scorso maggio è diventata mamma con la propria compagna, grazie all’inseminazione artificiale. Ma gli Stati Uniti, per quanto tolleranti, difficilmente manderebbero alla Casa Bianca una lesbica. Lo era Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin. Ma non si è mai candidata. Per i repubblicani, quindi, queste voci su Hillary sono manna dal cielo. La Clinton è corsa ai ripari. Improvvisamente, Huma Abedin è scomparsa. Non la si vede più accanto a lei. Licenziata? Diplomaticamente «malata»? L’argomento è tabù.

Hillary non ama i giornalisti. Fredda e altezzosa, non risponde alle domande sgradite. Però come senatrice (eletta a New York nel 2000, rieletta trionfalmente l’anno scorso) è brava.
Ma chi è Huma Abedin? Nata a Kalamazoo (Michigan) 32 anni fa da padre indiano e madre pakistana, musulmana, a due anni ha seguito i genitori che si erano trasferiti a Gedda, in Arabia Saudita. È tornata negli Stati Uniti solo a 18 anni, per frequentare la George Washington University. «È sempre perfetta, elegante, con le sue borsette Yves Saint-Laurent, non suda mai»: così la descrive ironicamente il New York Observer.

Ha iniziato a lavorare con i Clinton alla Casa Bianca undici anni fa come stagista, proprio come Monica Lewinski che mise nei guai Bill. Così la lodava in agosto Hillary in un articolo su Vogue: «Huma ha l’energia di una ventenne, la sicurezza di una trentenne, l’esperienza di una quarantenne e la grazia di una cinquantenne: non ha orari, la sua combinazione di gentilezza e intelligenza sono senza pari e sono fortunata ad averla nella mia squadra»

Huma era la prima a rispondere al telefono al mattino dalla sua casa di Washington, l’ultima a salutarla la sera. Su un rapporto così intimo nessuno probabilmente saprà mai la verità. D’altra parte, anche di Condoleezza Rice, segretaria di Stato repubblicana, si dice che sia lesbica. Che questa diceria sia una «vendetta» per qualsiasi donna «colpevole» di arrivare ai vertici?

Mauro Suttora

Wednesday, March 05, 2003

parla Joe Biden


INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Foglio, 5 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".

Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".

Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."

Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo