SCHERZO SU YOU TUBE
di Mauro Suttora
Oggi, 27 agosto 2010
La più sfrontata si chiama Ann Coulter. Adora titillare le fantasie erotiche del maschio reazionario medio americano facendosi fotografare seminuda vicino alla canna di un fucile. Per fare propaganda alla Nra (National Rifle Association), il bastione fascistoide che difende la libertà di portare armi, ossessione degli Stati Uniti.
Ma la Coulter non è l’unica bella donna della destra americana. La più famosa è Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska candidata repubblicana alla vicepresidenza con John McCain alle presidenziali del 2008, vinte dal democratico Barack Obama. Secondo alcuni McCain perse anche perché la Palin è di una destra troppo estrema. Ma invece di essere per questo emarginata dal partito, dopo il ko la pugnace Sarah si è rialzata, ha pubblicato un’autobiografia di successo (oltre due milioni di copie vendute), e adesso minaccia Obama alle elezioni di metà mandato di novembre, sull’onda del successo del movimento antitasse «Tea party».
Qualche giorno fa il responsabile di un sito di propaganda del partito repubblicano ha messo per scherzo su YouTube un video con una sequenza di belle donne di destra come la Coulter, la Palin e varie altre, fra cui l’attrice Bo Derek. In colonna sonora, la canzone di Tom Jones She’s a Lady.
Poi la musica cambia: arriva il brano Who let the dog out? (Chi ha tolto il guinzaglio al cane?), e una serie di foto distorte di donne politiche di sinistra: la segretaria di stato (ministra degli Esteri) Hillary Clinton, Madeleine Albright che la precedette nella stessa carica sotto la presidenza del marito Bill, la ministra Janet Napolitano, ministra dell’Interno e già governatrice dell’Arizona, e perfino la first lady Michelle Obama (contrapposta a un’altra donna di colore, Condoleezza Rice, considerata invece bella perché di destra). Apriti cielo: dopo una valanga di proteste YouTube ha censurato il video, ritenuto offensivo. Negli Usa non è considerato «politicamente corretto» scherzare sull’aspetto fisico delle persone.
In effetti, a destra negli Stati Uniti le bellezze abbondano. Ma non si tratta soltanto di «bionde sciocche», secondo lo stereotipo di Marilyn Monroe. Laura Ingraham, per esempio, ha sei milioni di ascoltatori per il suo programma conservatore alla radio. Ma è anche rimasta in testa alla classifica dei libri più venduti per tutta quest’estate, grazie ai suoi Obama’s Diaries. Lei è una che non le manda a dire: chiamava i gay «sodomiti», fino a quando ha scoperto che pure suo fratello lo è.
Anche i libri molto aggressivi della Coulter diventano subito bestseller. Entrambe hanno inoltre la lingua sciolta, per cui sono la delizia dei talk show politici tv sulla rete Fox di estrema destra di Rupert Murdoch, che scandalizzano ogni sera il popolo di sinistra.
Mauro Suttora
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Thursday, September 09, 2010
Friday, August 01, 2008
Karadzic: parla Francesco Tullio
LA DIFESA SPREZZANTE DI KARADZIC LETTA DA UN COLLEGA PSICHIATRA
Il dottor Tullio ci spiega la strategia del "macellaio di Srebrenica". Il "patto" con Holbrooke e le ripercussioni americane
Il Foglio, 1 agosto 2008
Radovan Karadzic si è presentato davanti al Tribunale dell'Aia, sbarbato e ripulito, e ha deciso di difendersi orgogliosamente da solo dalle accuse di genocidio e crimini di guerra. Ha iniziato, durante l'udienza preliminare, sostenendo di avere un accordo con gli Stati Uniti che gli garantiva la libertà in cambio della sua uscita di scena. Un accordo siglato con Madeleine Albright, allora al dipartimento di stato, e con Richard Holbrooke, la mente degli accordi di pace di Dayton del 1995.
Il diplomatico americano ha seccamente smentito, aggiungendo di essere pronto ad andare a testimoniare all'Aia. Ma già nel pomeriggio di ieri alcuni analisti sottolineavano che la vicenda potrebbe diventare sensibile per la campagna elettorale statunitense: sia Albright sia Holbrooke infatti sono consulenti del candidato democratico Barack Obama, anche se non direttamente coinvolti nella campagna elettorale (fanno parte di quei 300 advisor che aiutano Obama a definire la sua strategia di politica estera, fra cui molti ex clintoniani).
Karadzic persegue un unico obiettivo: la destabilizzazione, per cui getta ombre sul suo arresto. considerato un successo dalla comunità internazionale.
“Nell’ex Jugoslavia oggi circolano altri diecimila assassini che hanno torturato e ucciso a sangue freddo, a Srebrenica e altrove. Ottima quindi la cattura di Radovan Karadzic, a meno che non se ne faccia il solito capro espiatorio, e liberatorio per tutti gli altri. Compresi noi occidentali che a Srebrenica non siamo intervenuti, e quindi siamo stati suoi complici passivi”.
Il dottor Francesco Tullio è uno psichiatra, ma impegnato da trent’anni sul fronte opposto a quello di Karadzic.
Parlando con il Foglio spiega quel che è successo e la psicologia di Karadzic, la sua difesa, il "patto col diavolo" denunciato per destabilizzare la comunità internazionale.
“Nel ’94 ero il responsabile medico della marcia di Sarajevo, 500 pacifisti italiani guidati dal vescovo di Molfetta Tonino Bello. Andammo dal generale serbo Velibor Veselinovic, che comandava gli assedianti. Quello promise di non spararci, e mantenne la parola”.
Così cominciò la carriera di peacekeeper del dottor Tullio: “Ganic, vicepresidente dei bosniaci musulmani assediati, ci mandò dai serbi per chiedere di riaprire i tubi dell’acqua. Quelli di Karadzic ci risposero: ‘Ok, ma per farlo abbiamo bisogno dell’elettricità, che invece hanno loro’. Tornammo da Ganic per proporre questo scambio. Ma non ci fu risposta”.
Tullio, militante pacifista, ha pubblicato studi studi per il Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa italiano, è stato visiting professor all’università di Belgrado e ha collaborato con l’ufficio Onu della Farnesina. Il suo ultimo libro, ‘Il brivido della sicurezza - Psicopolitica del terrorismo’ (ed. Franco Angeli), è stato recensito un mese fa dall’Osservatore Romano. “Partendo dal conflitto dell’ex Jugoslavia ho descritto la relazione fra capo e massa nelle situazioni di polarizzazione bellica. E il rapporto fra crisi politico-economica, crisi psichica e attivazione distruttiva quando gli impulsi collettivi prevalgono sull razionalità”.
Niente di nuovo: la spirale perversa di Karadzic è simile a quella di Hitler ampiamente analizzata da Erich Fromm e tanti altri. Ma i ‘volenterosi esecutori’ del capo serbo sono ancora in Bosnia,e con gli estremisti delle altre fazioni rendono impossibile la partenza del contingente militare internazionale. Il generale genocida Ratko Mladic è latitante.
“La Serbia”, aggiunge Tullio, “è tuttora spaccata fra i nazionalisti e gli europeisti del presidente Tadic, che sperano di superare i revanscismi con l’entrata nell’Unione. Ma il complicato rapporto capo/massa rimane. I nazionalisti di Seselj cavalcano la tigre dei risentimenti esattamente come fece Karadzic, alimentando il circolo vizioso vittimismo-frustrazione-aggressività. Lo fanno tutti i politici del mondo, d’altronde. Ma in un contesto di crisi economica, come quello della Bosnia negli anni ’90, infiammare gli odi era un gioco da ragazzi. I serbi vedevano che l’intero ricco Occidente inondava di soldi Slovenia e Croazia, e siccome nessuno li ascoltava reagivano col fucile”.
Perché, i serbi avevano qualche ragione? “Non avevano ragione, ma noi occidentali dovevamo ascoltarli. Tutti i conflitti, anche i peggiori, si disinnescano con l’ascolto attivo. Altrimenti resta solo la violenza, che chiama altra violenza”.
Mauro Suttora
Il dottor Tullio ci spiega la strategia del "macellaio di Srebrenica". Il "patto" con Holbrooke e le ripercussioni americane
Il Foglio, 1 agosto 2008
Radovan Karadzic si è presentato davanti al Tribunale dell'Aia, sbarbato e ripulito, e ha deciso di difendersi orgogliosamente da solo dalle accuse di genocidio e crimini di guerra. Ha iniziato, durante l'udienza preliminare, sostenendo di avere un accordo con gli Stati Uniti che gli garantiva la libertà in cambio della sua uscita di scena. Un accordo siglato con Madeleine Albright, allora al dipartimento di stato, e con Richard Holbrooke, la mente degli accordi di pace di Dayton del 1995.
Il diplomatico americano ha seccamente smentito, aggiungendo di essere pronto ad andare a testimoniare all'Aia. Ma già nel pomeriggio di ieri alcuni analisti sottolineavano che la vicenda potrebbe diventare sensibile per la campagna elettorale statunitense: sia Albright sia Holbrooke infatti sono consulenti del candidato democratico Barack Obama, anche se non direttamente coinvolti nella campagna elettorale (fanno parte di quei 300 advisor che aiutano Obama a definire la sua strategia di politica estera, fra cui molti ex clintoniani).
Karadzic persegue un unico obiettivo: la destabilizzazione, per cui getta ombre sul suo arresto. considerato un successo dalla comunità internazionale.
“Nell’ex Jugoslavia oggi circolano altri diecimila assassini che hanno torturato e ucciso a sangue freddo, a Srebrenica e altrove. Ottima quindi la cattura di Radovan Karadzic, a meno che non se ne faccia il solito capro espiatorio, e liberatorio per tutti gli altri. Compresi noi occidentali che a Srebrenica non siamo intervenuti, e quindi siamo stati suoi complici passivi”.
Il dottor Francesco Tullio è uno psichiatra, ma impegnato da trent’anni sul fronte opposto a quello di Karadzic.
Parlando con il Foglio spiega quel che è successo e la psicologia di Karadzic, la sua difesa, il "patto col diavolo" denunciato per destabilizzare la comunità internazionale.
“Nel ’94 ero il responsabile medico della marcia di Sarajevo, 500 pacifisti italiani guidati dal vescovo di Molfetta Tonino Bello. Andammo dal generale serbo Velibor Veselinovic, che comandava gli assedianti. Quello promise di non spararci, e mantenne la parola”.
Così cominciò la carriera di peacekeeper del dottor Tullio: “Ganic, vicepresidente dei bosniaci musulmani assediati, ci mandò dai serbi per chiedere di riaprire i tubi dell’acqua. Quelli di Karadzic ci risposero: ‘Ok, ma per farlo abbiamo bisogno dell’elettricità, che invece hanno loro’. Tornammo da Ganic per proporre questo scambio. Ma non ci fu risposta”.
Tullio, militante pacifista, ha pubblicato studi studi per il Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa italiano, è stato visiting professor all’università di Belgrado e ha collaborato con l’ufficio Onu della Farnesina. Il suo ultimo libro, ‘Il brivido della sicurezza - Psicopolitica del terrorismo’ (ed. Franco Angeli), è stato recensito un mese fa dall’Osservatore Romano. “Partendo dal conflitto dell’ex Jugoslavia ho descritto la relazione fra capo e massa nelle situazioni di polarizzazione bellica. E il rapporto fra crisi politico-economica, crisi psichica e attivazione distruttiva quando gli impulsi collettivi prevalgono sull razionalità”.
Niente di nuovo: la spirale perversa di Karadzic è simile a quella di Hitler ampiamente analizzata da Erich Fromm e tanti altri. Ma i ‘volenterosi esecutori’ del capo serbo sono ancora in Bosnia,e con gli estremisti delle altre fazioni rendono impossibile la partenza del contingente militare internazionale. Il generale genocida Ratko Mladic è latitante.
“La Serbia”, aggiunge Tullio, “è tuttora spaccata fra i nazionalisti e gli europeisti del presidente Tadic, che sperano di superare i revanscismi con l’entrata nell’Unione. Ma il complicato rapporto capo/massa rimane. I nazionalisti di Seselj cavalcano la tigre dei risentimenti esattamente come fece Karadzic, alimentando il circolo vizioso vittimismo-frustrazione-aggressività. Lo fanno tutti i politici del mondo, d’altronde. Ma in un contesto di crisi economica, come quello della Bosnia negli anni ’90, infiammare gli odi era un gioco da ragazzi. I serbi vedevano che l’intero ricco Occidente inondava di soldi Slovenia e Croazia, e siccome nessuno li ascoltava reagivano col fucile”.
Perché, i serbi avevano qualche ragione? “Non avevano ragione, ma noi occidentali dovevamo ascoltarli. Tutti i conflitti, anche i peggiori, si disinnescano con l’ascolto attivo. Altrimenti resta solo la violenza, che chiama altra violenza”.
Mauro Suttora
Tuesday, April 22, 2003
Onu/2: disastro Unesco
L’Unesco colleziona critiche, sprechi e quintali di carta griffata Onu. Tornano gli Stati Uniti. Basterà?
Il Foglio, 22 aprile 2003
di Mauro Suttora
New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.
La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).
Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.
L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.
Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.
Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.
L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.
Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.
Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).
Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.
Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.
L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.
L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.
“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora
Il Foglio, 22 aprile 2003
di Mauro Suttora
New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.
La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).
Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.
L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.
Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.
Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.
L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.
Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.
Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).
Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.
Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.
L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.
L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.
“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora
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