Showing posts with label bob kennedy. Show all posts
Showing posts with label bob kennedy. Show all posts

Thursday, September 14, 2017

Clooney presidente Usa?

di Mauro Suttora
Oggi, 14 settembre 2017
«La vita dei politici è un inferno. So com’è, ne conosco diversi. Chi mai vorrebbe vivere così?» Era l’ottobre di due anni fa. George Clooney veniva indicato per l’ennesima volta come possibile candidato per le presidenziali Usa appena iniziate. E smentì di voler arrivare alla Casa Bianca.
Ma in politica, mai dire mai. Soprattutto negli Usa, dove sono diventati (ottimi) presidenti un coltivatore di arachidi (Jimmy Carter) e un attore di serie B (Ronald Reagan). Per non parlare di Donald Trump, su cui nessuno avrebbe scommesso un cent.
Clooney è da un quarto di secolo attore di serie A. Sarebbe il nuovo Cary Grant, brillante e di charme, se la sua passione politica non lo spingesse a confezionare (da attore, regista o produttore) film di impegno sociale tanto osannati dai critici quanto snobbati dal grande pubblico.
Ora ha 56 anni, e anche il matrimonio con l’avvocatessa libanese Amal Alamuddin è all’insegna delle cause nobili e planetarie che lei difende. Quindi ai democratici Usa, dopo la batosta Clinton, non resta che aggrapparsi alla speranza di una sua candidatura nel 2020. Altri presidenziabili progressisti non sono in vista. 
E la politica è una passione della famiglia Clooney. Sua zia Rosemary, cantante (Mambo Italiano), era accanto a Bob Kennedy quando questi venne assassinato in California nel 1968. Ma è un ricordo che certo non avvicina George alla candidatura.

Monday, March 02, 2009

Obama taglia i charity gala

LA BENEFICENZA PRIVATA USA

di Mauro Suttora

Libero, sabato 28 febbraio 2009

Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).

Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.

Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.

Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.

Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.

Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…

Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)

Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.

Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.

Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.

Mauro Suttora

Wednesday, September 10, 2008

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Saturday, March 02, 1985

Se sei verde ti tirano la Petra

Germania Ovest/La leader degli ecologisti contesta il suo movimento

Opportunisti. Bugiardi. Noiosi. Petra Kelly descrive in questa intervista esclusiva i difetti dei verdi tedeschi. E rivela sorprendenti progetti

dal nostro inviato a Bonn (Germania Ovest) Mauro Suttora

Europeo, 2 marzo 1985


“Cincinnato? No, veramente non ricordo chi sia…” Petra Kelly sorride, minuta e pallida, nel suo ufficio al settimo piano nel palazzo del parlamento a Bonn. È l’unica, fra i 27 deputati verdi eletti due anni fa, che in marzo non si dimetterà a metà mandato per far posto ai primi dei non eletti, in omaggio al principio di rotazione delle cariche in uso fra gli ecologisti tedeschi.

Tale privilegio, secondo i maligni, le è stato concesso anche perché se abbandonasse i Grünen, come ha minacciato, imitando il generale antiatomico Gert Bastian che lo già fatto un anno fa, essi non raggiungerebbero più il numero minimo necessario per formare un gruppo parlamentare, con relativa perdita di finanziamenti e guarentigie varie.


Signora Kelly, Cincinnato è quell’antico capo romano che lasciò il potere per il suo podere in campagna senza pretendere ricompense: il simbolo del disinteresse. Non dite anche voi verdi di essere il partito dei cittadini normali, contro i politici di professione?


“Ma io sono favorevole alla rotazione. Però ogni quattro anni, a fine legislatura. Dopo soli due anni è un disastro: c’è troppo poco tempo per imparare le cose”.


Funzionaria Cee a Bruxelles, 37 anni, studi nelle migliori università statunitensi, collaboratrice di Martin Luther King e Bob Kennedy, Kelly è da sempre (cioè dal 1979, anno della loro fondazione) la leader carismatica dei verdi tedeschi. Assieme all’avvocato Otto Schily, il Saint-Just che ha provato la corruzione dell’ex presidente della Repubblica democristiano Rainer Barzel, e allo ‘spontaneista’ Joschka Fischer, autore secondo il Nobel Heinrich Böll dei migliori discorsi pronunciati ultimamente al Bundestag (nonché espulso dallo stesso per aver gridato “buco di culo” al presidente), è lei la testa pensante del partito ecopacifista che sta mettendo a soqquadro la politica tedesca.

Le prossime elezioni a Berlino Ovest e nella Saar nel marzo 1985 vedranno con tutta probabilità un altro loro successo. Per quelle di maggio in Renania-Vestfalia i verdi non avranno neanche bisogno di fare campagna elettorale: quale miglior propaganda per loro del recente allarme smog che ha sconvolto tutta la Ruhr?

A Tubinga i Grünen hanno già il 21%, a Heidelberg il 18%, in alcune città hanno scalzato i socialdemocratici come secondo partito, in altre hanno il vicesindaco. A Wuppertal, 350mila abitanti, il sindaco.

Migliaia di studenti, pensionati, casalinghe e altri dilettanti della politica sono entrati nei consigli comunali, condizionando l’azione del governo in ogni campo: dall’inquinamento (il dc di destra Friedrich Zimmermann, ministro dell’Interno nel governo Kohl, è costretto a litigare con i partner europei per imporre la benzina senza piombo) al censimento (per bloccare il quale, e siamo in Germania perbacco, ai verdi è bastata una semplice minaccia di boicottaggio condotta con le loro tipiche armi ‘straccione’: spille, adesivi, volantini), fino alla politica estera. Secondo il settimanale Usa Newsweek la sofferta installazione de missili atomici Pershing in Germania Ovest è stata per la Nato una ‘vittoria di Pirro’, visto che molti tedeschi scivolano sempre più verso il neutralismo.

Niente di più facile quindi che alle prossime elezioni politiche del 1987, scomparsi i liberali, i Grünen diventino l’ago della bilancia fra Spd (socialdemocratici) e Cdu (democristiani). Ma già adesso il loro 6% ha un peso specifico sproporzionatamente maggiore.

Eccola qua Petra Kelly, in una delle rare interviste che concede. Non perché faccia le bizze, ma perché nel firmamento dei verdi alle stelle è vietato brillare: gli ecologisti vedono con diffidenza i mass media, e accusano di esibizionismo chiunque di loro diventi troppo famoso. “Nell’ultimo anno non sono mai apparsa in tv, eppure molti continuano a criticarmi perché mi metterei in mostra. E questo capita anche a Schily. È una sindrome verde, una malattia infantile: punire le persone che sono state elette come rappresentanti”.


Non rimarrà nessuno con lei, degli attuali deputati?


“Sì, a Schily è stata concessa una proroga, ma solo fino alla fine dei lavori della commissione d’inchiesta sulle tangenti Flick. E Milan Horacek, esule cecoslovacco, resterà a Bonn fino a settembre perché ha sostituito Hecker

[Klaus Hecker è il deputato verde che palpava le segretarie. Allontanato, è stato ridotto a neologismo: le ragazze ‘alternative’ indossano magliette con la scritta ‘Don’t hecker me’ sul seno, ndr]. Questa della rotazione in realtà è una questione importante. Però noi la vendiamo al mondo come una nuova cultura politica, mentre la realtà che vedo al nostro interno è un po’ diversa, piena di bugie e ipocrisie”.


Perché è così dura con i suoi compagni di partito?


“Alcuni di loro vorrebbero letteralmente rispedirmi subito al mio lavoro alla Cee di Bruxelles. Ma pretendono che continui, contemporaneamente, a occuparmi di politica. Il che è semplicemente ridicolo: l’ho fatto per cinque anni, è impossibile. Me ne andrò fra due anni, al termine del mio mandato. Mentre tanti altri si dimettono adesso, ma solo per farsi rieleggere nell’87: sono degli opportunisti, mi disgustano. Io voglio finire il mio lavoro qui al Parlamento di Bonn, in particolare nel campo dei tumori infantili [la sorella di Kelly morì di cancro da piccola, ndr], del disarmo e dei diritti umani”.


Dopo cosa farà?


“Mi piacerebbe trasferirmi e andare a vivere per un po’ a Mosca o in Germania Est. Voglio lavorare con gruppi femministi e di difesa nonviolenta. Ma prima devo terminare il mio impegno con la Cee: ancora un anno e mezzo a Bruxelles”.


Lei appartiene alla corrente ‘fondamentalista’ dei verdi. Cosa significa?


“Significa che vogliamo operare una rivoluzione nonviolenta. Ma per far questo, e spesso i verdi lo dimenticano, ci vuole forza spirituale, e non lotta per il potere. La nostra regola principale dev’essere: non obbligare mai qualcuno a fare qualcosa che non vuole, di cui non è convinto. Sono delusa, perché invece i verdi ex marxisti hanno un atteggiamento ancora molto cinico nei confronti del potere, della manipolazione, e ridono quando si parla di spiritualità”.


Ma uno dei vostri filosofi, Rudolf Bahro, sembra addirittura pervaso da un furore religioso: grida al tracollo della civiltà industriale, con i verdi nuovi monaci che salvano il salvabile.


“Ho parlato di spiritualità, non di religione. Dico che bisogna essere onesti, non predicare una cosa e farne un’altra, come capita anche ad alcuni ‘fondamentalisti’ di Francoforte che si dicono per la rotazione a tutti i costi, ma poi si scopre che loro siedono in consiglio comunale da cinque anni filati. ‘Fondamentalismo’ significa fedeltà ai nostri principi fondamentali, senza pensare ad andare al potere o ad allearci con la Spd. Un ministro verde sarebbe la nostra morte”.


Il suo non è l’odio degli ex?


“Sono stata socialista negli anni ’70, come molti altri verdi. Ma vedo con dispiacere, giorno dopo giorno, nelle decisioni concrete prese in Parlamento, che la Spd è ancora molto indietro. Loro sono a favore della Nato, vogliono un’Europa terza superpotenza… Faccio un esempio: l’altro ieri in commissione rimanevano alcuni fondi per il Costa Rica. Benissimo, dico io, finanziamo gli ospedali. E invece no, i socialisti li hanno dati alla polizia del Costa Rica, capisce, alla polizia!”


Tutti i movimenti nonviolenti della storia hanno avuto un grande leader: Gandhi, Luther King, Walesa in Polonia…


“Sempre uomini, naturalmente”.


… i verdi tedeschi invece hanno quasi la mania di eliminare chiunque assomigli a un capo.


“È vero, in Germania c’è paura dei leader, paura dei führer. Per questo cerchiamo sempre di avere coordinatori, di non dare mai troppo potere a una sola persona per troppo tempo. Nonviolenza vuol dire prendere su di sé la sofferenza di un’eventuale punizione. Per esempio, anche in un gruppo di poche persone ci sarà sempre qualcuno che dovrà assumersi la responsabilità di coordinare, ma senza dominare. Quando protestammo in piazza Rossa a Mosca l’anno scorso, all’ultimo momento qualcuno aveva un po’ paura: c’era la polizia, la delegazione sovietica diventava nervosa. Ho dovuto prendere in mano tutto io, altrimenti non si faceva niente”.


Una leader donna.


“Le donne subiscono violenza per tutta la loro vita, pensiamo che sia quasi naturale per loro essere nonviolente, passive. Mentre se un uomo soffre, allora diventa un eroe. Molte donne, come Barbara Demming negli Stati Uniti, o Dorothy Day, avevano grandi qualità, ma non sono diventate famose. Gandhi scrisse cose molto belle sull’emancipazione femminile, ma la sua posizione personale verso le donne giovani era maschilista. Questo però è vietato dirlo, fra i nonviolenti”.


Avete tre donne alla presidenza del gruppo parlamentare.


“Ma anche noi abbiamo ancora molti problemi. Per esempio, alle nostre assemblee spesso non c’è un servizio di baby-sitting per i bambini. Dobbiamo fare una fatica tremenda per trovare donne che parlino in pubblico. Non posso parlare sempre io!”


Vi accusano di essere più rossi che verdi. Un’organizzazione comunista tedesca, la Kb, si è sciolta per confluire tra voi.


“Sì, c’è ancora qualcuno che sogna il gruppuscolo sessantottino. Mi preoccupano alcune tendenze collettiviste che deresponsabilizzano l’individuo. Per esempio, noi deputati dobbiamo versare gran parte del nostro stipendio - troppo, secondo me, io ho problemi ad arrivare a fine mese - in un fondo comune. Invece sarebbe meglio che ciascuno desse i propri soldi per un progetto che lo interessa personalmente, in modo da sentirsi motivato. C’è troppa centralizzazione. Un’altra cosa che mi preoccupa è che in alcune nostre riunioni locali poche persone abili manipolano la gente non politicizzata, che dopo un po’ si stufa e se ne va a casa. Così alla fine decide solo chi resta. Devo dire che tutte le riunioni dei verdi sono lunghe e noiose. Dopo sei anni, sono stufa marcia”.


Come mai in Germania, anche fra i giovani, c’è un grande complesso di colpa nei confronti dell’Urss? Dopotutto, fino a cinque minuti prima di essere attaccato, Stalin era alleato di Hitler.


“È vero. Ogni volta che incontriamo una delegazione sovietica, questi cominciano subito: ‘Voi avete ucciso venti milioni di russi…’ È imbarazzante. Io sono nata nel 1947, non mi sento personalmente colpevole”.


Anche in Italia si stanno formando i verdi. Come li giudica?


“Quand’ero a Bruxelles, degli ecologisti italiani ho conosciuto personalmente solo Marco Pannella ed Emma Bonino. Ma Pannella vuole sempre fare il capo assoluto e questo, specie alle donne, non piace”.


Qual è il suo obiettivo principale in questo momento?


“Fare in modo che lo stato tedesco usi il 20 per cento del suo bilancio militare per preparare una difesa non armata, nonviolenta”.



DOVE VOLA LA PASIONARIA

Tutte le provocazioni dei verdi nel mondo


La cosa che gli ambasciatori della Germania Ovest in giro per il mondo temono di più, è che un giorno arrivi Petra Kelly nella loro città in visita ufficiale. Com’è successo a Belgrado, dove la deputata ha rischiato l’espulsione pochi mesi fa assieme all’ex generale verde Gert Bastian per essersi intromessa negli affari interni jugoslavi criticando il processo agli intellettuali dissidenti da parte del regime comunista.

Come in Australia, dove nel maggio 1984 la pasionaria è volata a dar man forte agli oppositori dell’estrazione di uranio i quali, galvanizzati, hanno formato a loro volta un partito antinucleare che ha preso l’8% alle elezioni in dicembre.

E come a Berlino Est, Mosca e Praga, dove i verdi hanno inscenato incredibili manifestazioni con fiori e cartelli nei luoghi più sacri alle dittature orientali.

Quando non è impegnata al Parlamento, Kelly è sempre in viaggio. I pacifisti statunitensi la invitano regolarmente alle loro riunioni, e così le femministe irlandesi o ‘Los Verdes’ di recente formazione a Madrid, dove l’indomabile Petra è andata a presentare il suo libro tradotto in spagnolo. In Belgio, Olanda e Austria invece non c’è bisogno dell’aiuto dei Grünen tedeschi: gli ecologisti locali sono autosufficienti e in crescita.

La Francia è l’unico Paese impermeabile al fascino di Kelly: in un dibattito con lei il filosofo André Glucksmann l’ha accusata nientemeno che di pensare troppo a Hiroshima e poco ad Auschwitz.