GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia
Libero, 20 gennaio 2008
di Mauro Suttora
Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.
Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.
«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».
L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.
«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.
Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».
Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».
Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».
«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»
«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»
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Tuesday, January 20, 2009
Wednesday, November 19, 2008
Leggenda Obama
LA VITA DEL NUOVO PRESIDENTE USA
Oggi, 6 novembre 2008
New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.
Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.
L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.
«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».
«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.
Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.
Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).
Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.
Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.
Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.
Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.
È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».
Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»
In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.
Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.
Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.
Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.
I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.
Mauro Suttora
RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy
Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.
Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.
RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni
L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.
Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».
Mauro Suttora
Oggi, 6 novembre 2008
New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.
Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.
L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.
«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».
«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.
Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.
Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).
Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.
Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.
Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.
Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.
È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».
Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»
In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.
Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.
Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.
Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.
I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.
Mauro Suttora
RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy
Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.
Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.
RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni
L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.
Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».
Mauro Suttora
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