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Tuesday, January 20, 2009

Obama: gli speechwriter ricordano

GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia

Libero, 20 gennaio 2008

di Mauro Suttora

Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.

Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.

«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».

L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.

«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.

Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».

Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».

Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».

«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»

«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»