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Thursday, April 28, 2011

I libri di scuola sono comunisti?

Gabriella Carlucci all'attacco dei testi di storia «faziosi»

Venti deputati Pdl chiedono una commissione d'inchiesta per alcuni passaggi "cruciali". Gli storici insorgono. Ma qualcuno ammette: «Il problema esiste». Giudicate voi

di Mauro Suttora

Oggi, 20 aprile 2011

Palmiro Togliatti? «Uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali». Ma nessun riferimento al fatto che il segretario del Pci fino al 1964 fosse stato, negli anni Trenta a Mosca, uno dei principali collaboratori del dittatore Josip Stalin nell'Internazionale comunista, durante il peggior periodo delle purghe e dei gulag.

Enrico Berlinguer? «Uomo di profonda onestà intellettuale e morale, misurato e alieno alla retorica». Il che è certamente vero. Ma, anche qui, sottacendo, per esempio, la mancata condanna, da parte del partito comunista di cui era dirigente, delle invasioni sovietiche in Cecoslovacchia o Afghanistan. Oppure la critica alla dittatura dell'Urss che però non divenne mai rottura.

E i gulag, i famigerati campi di lavoro comunisti? «La loro ignominia non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto, o peggio dalla conversione di Stalin all'imperialismo». Fino ad arrivare a Rosy Bindi, lodata perché vent'anni fa «combatté gli inquisiti» di Tangentopoli.

Alcune definizioni contenute nei manuali di storia per l'ultimo anno delle scuole superiori hanno fatto arrabbiare la deputata Gabriella Carlucci e una ventina di suoi colleghi del Pdl, che hanno chiesto l'istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici.

Ecco il passo «incriminato» del libro Camera-Fabietti sul 1994: «Berlusconi, nonostante le ricorrenti promesse di vendite, cessioni e altri provvedimenti radicali, non sembrava ansioso di superare l' anomalia senza precedenti di un capo del governo che era grande imprenditore, monopolista o quasi delle reti tv private: un'anomalia denunciata dalla Lega e dalle opposizioni, e ammessa dallo stesso Berlusconi. L'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi di Berlusconi (...)»

Un altro libro messo sotto accusa dalla Carlucci è l'Ortoleva-Revelli. Qui appare un giudizio positivo sull'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, detestato dai berlusconiani perché nel 1995 non concesse il voto anticipato, aprendo la strada al governo Dini e alla vittoria di Prodi del '96. Ancor oggi il 92enne Scalfaro è più antiberlusconiano che mai, e non lo nasconde.

«In Italia negli ultimi cinquant'anni lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico», sostiene la Carlucci. «Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' ideologia comunista i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali, anzi si rafforzano. E si scagliano non solo contro gli attori della storia che hanno combattuto l'avanzata del comunismo, ma anche contro la parte politica che oggi è antagonista della sinistra».

Nel mirino della Carlucci sono finiti in particolare due libri: il Camera-Fabietti (edizioni Zanichelli) e La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra della casa editrice Le Monnier che, per ironia della sorte, appartiene al gruppo Mondadori, di proprietà di Silvio Berlusconi.

Il quale Berlusconi viene così maltrattato a pagina 1.682 del Camera-Fabietti: «Nel 1994 l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal governo alle pensioni, alla sanità e alla previdenza sociale».

«Ognuno ha diritto ad avere il suo punto di vista e anche la sua faziosità», dice la Carlucci, «può scrivere articoli o libri, poi li comprerà chi vuole. Ma si può essere così di parte in libri di testo che migliaia di studenti devono, per forza, comprare e studiare? Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano e anche fazioso, spesso superficiale?».

«Il vero problema è che non si discute più di storia nella società, per colpa soprattutto della tv», risponde Pino Polistena, professore di storia prima di diventare preside del liceo civico Manzoni di Milano. «Ma la tv non è il solo imputato: sociologi come Norbert Elias ci spiegano che è la modernità stessa a privilegiare il presente. Per questo la storia è in sofferenza, non per i travisamenti dei libri di testo. È vero, alcuni di essi sfiorano il dogmatismo storico. Ma anche se a questi testi si associano docenti altrettanto dogmatici, non esiste un vero problema didattico. Perché ovunque si discuta di storia si determina un effetto positivo, per il fatto stesso di discuterne».

«La ex soubrette Gabriella Carlucci propone addirittura una commissione d'inchiesta parlamentare per purgare i libri di storia?», sbotta Pasquale Chessa, già vicedirettore di Panorama (settimanale della Mondadori) e storico lui stesso. «Nemmeno Orwell aveva pensato una cosa del genere. Verrebbe voglia di interrogare in storia la Carlucci. Ma da che pulpito parla, da quale cattedra? La politica stia lontana dalla cultura. La signora studi la storia, e non si permetta di interferire con il libero dibattito delle idee».

Ma lodare Togliatti senza accennare ai suoi demeriti non è scorretto?
«Incompletezze e imprecisioni non si possono punire per legge. Nemmeno sotto l'Inquisizione il giudizio positivo su una persona era considerato un insulto alla storia. Per fortuna , dico io, ci sono queste frasi che possono essere messe a confronto con altri giudizi. Io per primo da trent'anni, come giornalista, m i sono sempre battuto contro il conformismo storico di sinistra. Per esempio evidenziando i famosi strafalcioni filosovietici dell'enciclopedia Garzantina negli anni Ottanta, che per questo avevamo soprannominato "Garzantova". Ed è ovvio che Tranfaglia aveva torto quando accusò De Felice per i suoi libri sul fascismo considerati "revisionisti". Ma, ripeto: lontano dalla politica».

Marco Revelli, docente universitario, è uno degli autori presi di mira dalla Carlucci. Nel suo L'età contemporanea, scritto con Peppino Ortoleva, c'è il giudizio troppo laudatorio espresso su Oscar Luigi Scalfaro che abbiamo evidenziato a pagina 49. «Non ho creduto ai miei occhi quando ho letto la critica al passo su Scalfaro», dice a Oggi. «Fra tutti i personaggi possibili, sono andati a pescare un giudizio positivo su un democristiano, non su un comunista. Attenzione: un giudizio, non un fatto. E, come insegna Benedetto Croce - un liberale, non un comunista - le interpretazioni sono necessariamente libere».

Ma non ci vorrebbe più equilibrio, professore?
«Certo, però solo un ministro come la Gelmini può dire che i libri di storia devono essere "oggettivi". Nessun testo può offrire l'unica verità. Io esorto sempre i miei studenti a ricercare le verità, al plurale, leggendo decine di testi. Il problema vero, in realtà, è Berlusconi. È lui la questione del contendere. Siamo arrivati al punto che non solo non si possono criticare i suoi vizi, ma qualcuno vorrebbe vietare perfino le lodi alle virtù dei suoi avversari. Certi berlusconiani hanno in testa solo il bunga-bunga, e misurano tutto con metro da tifosi. Cercano di guadagnare punti agli occhi del loro capo, o meglio del loro Dio. Perfino il ministro fascista Gentile aveva maggiore tolleranza nei confronti delle eterodossie».

Ma perché per gli storici è così difficile equiparare la svastica alla falce e martello, fra le disgrazie del secolo scorso?
«Esiste una robusta corrente storiografica che lo fa, accomunando fascismi e comunismi sotto la categoria del totalitarismo. È un dibattito molto interessante. Ma, appunto, è un dibattito. Che non può essere deciso da un decreto ministeriale...»

«Sì, molti manuali sono faziosi», ammette Lorenzo Strik Lievers, docente di storia all'università di Milano. «Ma il peggio è che sono noiosi, e così allontanano gli studenti».

Alcuni libri sono scritti in sociologhese, più che in italiano...
«Come strumenti didattici sono in gran parte deplorevoli», dice Strik Lievers. «Il risultato è che quasi tutti gli studenti che arrivano all'università di storia sanno poco. Il problema riguarda soprattutto i docenti. Sono loro a scegliere i libri di testo più o meno faziosi. E non riescono ad appassionare alla materia i propri studenti. Non fanno nemmeno sospettar loro che sulla storia ci possa essere dibattito. Nessun libro di testo ha al proprio centro il concetto della discutibilità della storia. Quindi, mentre trent'anni fa gli studenti politicizzati cercavano nella storia conferme alle proprie idee, oggi che l' interesse per la politica è quasi nullo anche lo studio della storia ne soffre».

Ma forse tutta questa polemica è inutile, perché raramente nei licei, per ragioni di tempo, si studiano gli ultimi decenni. E se la soluzione fosse proprio questa? Evitare gli ultimi trent'anni, che suscitano troppe polemiche? «Idea infantile», obietta Revelli, «perché per qualcuno anche Menenio Agrippa era un comunista...»

Mauro Suttora

Friday, April 04, 1997

Pannella e l'Ordine dei giornalisti

CINQUANT'ANNI DI ROSE E PUGNI TRA PANNELLA E I GIORNALISTI

IL REFERENDUM CONTRO L'ORDINE È L'ULTIMA FASE Dl UN RAPPORTO CONTRASTATO. L'ANTAGONISMO CON SCALFARI

Il leader radicale si innamorò della stampa a quindici anni. Comprava due copie al giorno di Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli da dove Einaudi attaccava la corporazione. Gli anni del Mondo, del Giorno, e la comune militanza politica con il direttore di Repubblica

Di Mauro Suttora

Il Foglio, 4 aprile 1997

Milano. I milioni di italiani che andranno a votare per il referendum sull'Ordine dei giornalisti lo ignorano, ma quel voto è il risultato finale di un intenso rapporto di amore-odio: quello che da più di mezzo secolo lega Marco Pannella a giornali e giornalisti, e in particolare al più ricco (di gloria e di miliardi) fra loro, Eugenio Scalfari. 

I giornali Marco li ha sempre amati. Da quando, studente 15enne al liceo classico Giulio Cesare di Roma nel '45, si imbatte in Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli. Già eccessivo allora, non si limita a comprarne una copia: "Mi interessò talmente, che da quel giorno ne ho sempre prese due: una per me e una per i miei compagni di scuola". 
Proprio su Risorgimento liberale Luigi Einaudi sferrava quelli che a oggi rimangono i più lucidi attacchi alla corporazione dei giornalisti. 

Marco nel '49 viene folgorato da un secondo giornale: il Mondo, appena fondato da Mario Pannunzio. Pannella si affaccia sempre più spesso nella redazione a Campo Marzio. Ma non è l'unico giovane a essere attratto da quel cenacolo di galantuomini i quali, oltre a confezionare il settimanale più sofisticato dell'epoca, trasformano la redazione in un salotto intellettuale perenne. 
In concorrenza con Marco per farsi notare dagli 'anziani' della cultura liberale italiana infatti c'è Scalfari. E come Marco anche Eugenio, più vecchio di sei anni, è un attivista della corrente di sinistra del Pli.

La competizione fra i due giovani galli nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale è inevitabile. Pannella negli anni 50 diventa il capo degli universitari italiani. Scalfari invece va a lavorare nella banca Commerciale a Milano, scrive articoli per l'Europeo di Arrigo Benedetti e sposa la figlia del direttore della Stampa. Nel 1955 fonda sia l'Espresso con Benedetti, sia il partito radicale con Valiani, Carandini e tanti altri. Compreso Pannella. 

Intanto anche Marco nel '59 debutta nel giornalismo con una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera. Però esagera, calca troppo i toni e viene bocciato: dal Migliore, che lo liquida tre giorni dopo, sempre sul Paese ("Non accettiamo queste polemiche"), ma soprattutto da Scalfari che emette addirittura un comunicato pubblico per sconfessarlo, e perfino dal Mondo che gli dà del "cretino". 

Disgustato, Marco lascia l'Italia. Approda a Parigi dove, a corto di soldi, si presenta alla redazione del Giorno in rue Saint Simon, 7° arrondissement. Comincia a collaborare con la corrispondente in carica Elena Guicciardi. Copre il turno di notte. 
"Era già polemico - ricorderà l'allora caporedattore Angelo Rozzoni - invece di mandare il servizio richiesto inviava tre-quattro cartelle di 'controinformazione'. Era molto bravo e diligente, gli avrei dato un sette, ma aveva l'inveterata abitudine di fare a modo suo".

Nel dicembre '62, dopo i rituali 18 mesi di praticantato, Marco diventa giornalista professionista. Poi contesterà sempre l'Ordine e rifiuterà gli sconti su aerei, treni e autostrade. Il suo stipendio a Parigi è di 20 mila lire il mese. 

Di politica non si può occupare, c'è già la Guicciardi. Ma nelle pagine di cronaca riesce a infilare un'intervista a Jean-Paul Sartre sulla tortura, viene inviato a Cannes al festival del cinema, va a Tolosa per un'inchiesta sulle caserme, si occupa di Dalida.

Una volta, da Milano lo incaricano di cercare Gina Lollobrigida a Parigi. "Le ho lasciato un messaggio in albergo", risponde sbrigativo con un telex che trasuda disinteresse. 

Nel gennaio '63 Pannella si dimette dal Giorno. "Mi licenziarono dopo un'inchiesta sull'Eni e Mattei - è la sua versione - dopodiché fui messo all'indice. Ero vietato da tutti, sia come firma che come notizia". 

Iniziano così 30 anni di giustificata paranoia, con giornali e tv sempre ossessivamente nel mirino. All'interno del Pr, Pannella guida l'opposizione a Scalfari con la propria corrente "Sinistra radicale", di cui fanno parte gli ex goliardi Massimo Teodori (futuro editorialista di Messaggero e Giornale), Gianfranco Spadaccia (giornalista dell'agenzia Italia) e Angiolo Bandinelli, collaboratore del Mondo.

Nel '63 Pannella conquista il partito radicale. Vuoto, però. In quegli anni l'attività ruota attorno a una battagliera agenzia di notizie, visto che la maggior parte del gruppo dirigente è formata da giornalisti. Memorabili le campagne contro l'Eni di Eugenio Cefis e il sindaco di Roma Petrucci (che finirà in galera), oltre a quelle per l'obiezione di coscienza (vinta nel '72) e per il divorzio (vinta nel '70 con la legge, e quattro anni dopo col referendum). 

Ma quest'ultima, iniziata nel '65, ottiene solo l'appoggio del settimanale plebeo-erotico Abc, e anche le altre iniziative radicali vengono snobbate dalla grande stampa. Così lievita il livore di Pannella verso i "colleghi".

La direzione di Lotta continua

La situazione non migliora negli anni 70. Il Pci vede come il fumo negli occhi il referendum sul divorzio, perché rischia di "spaccare le masse" e ostacolare il "compromesso storico" con la Dc. Invece Pannella accentua il suo impegno anticlericale e si riavvicina a Scalfari. 

Nel '71 fondano assieme la Lega per l'abrogazione del Concordato (cui aderiscono Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone) e tengono comizi anticoncordatari in giro per l'Italia. 

Sarà anche a causa di questa eccessiva vicinanza al libertario Pannella, oltre che per l'ostilità di Craxi, che nel 72 Scalfari perderà il seggio di deputato socialista conquistato nel '68 (per sottrarsi al processo sul caso Sifar). 

Intanto a Pannella arrivano una ventina di denunce per avere diretto il giornale sessantottino Lotta continua. Lui concedeva la propria firma a qualsiasi pubblicazione avesse bisogno di un direttore responsabile. Unica condizione: "Non voglio vedere una riga di quel che pubblicate".

Per Lotta continua vengono incriminati anche Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio. Umberto Eco, Lucio Colletti, Giovanni Raboni, Paolo Mieli, Natalia Ginzburg e altri intellettuali firmano un appello a favore degli imputati. 

Ma il bastian contrario Pannella prende le distanze anche da loro: "Dubito che di 'pensiero', marxista o no, ce ne sia molto in chi pensa di 'fare la rivoluzione impugnando le armi contro lo Stato' [una delle frasi incriminate, ndr]. Questo non un reato: è un'imbecillità, coeva più alle spedizioni fiumane di D'Annunzio che alla lotta politica odierna". 

Nel '73 Pannella torna alla professione di giornalista. Segue per l'Espresso le elezioni in Francia. Ma si arrabbia per i tagli e alcune censure subite dai suoi articoli. Due anni dopo l'Espresso aiuterà il partito radicale a raccogliere le firme per il referendum sull'aborto, e affiderà una rubrica settimanale a Pannella. Ma Marco la interrompe per protesta dopo il licenziamento da via Po del suo amico Lino Jannuzzi. 

Nella seconda metà del '73, in vista del referendum sul divorzio, Pannella fonda il quotidiano Liberazione, sull'esempio del neonato Libération parigino diretto da Sartre (vent'anni dopo cederà la testata a Rifondazione). 
Ma il compito è sovrumano, perché la redazione è composta soltanto da Pannella stesso, da Vincenzo Zeno-Zencovich (poi docente universitario, editorialista sul Sole 24 Ore, avvocato e autore del pamphlet 'Contro la libertà di stampa'), Rolando Parachini e Roberto della Rovere (poi al Corriere della Sera).
Dopo un mese Liberazione diventa bisettimanale, ma nel febbraio '74 chiude. 

Le dimissioni del presidente della Rai 

Nel 1974, sull'onda del referendum vittorioso che conferma la legge sul divorzio, i radicali propongono otto referendum. Uno di questi è contro l'Ordine dei giornalisti. Aderiscono Norberto Bobbio, Arrigo Benedetti, Adele Cambria, Gigi Ghirotti, Adriano Sofri, Giovanni Russo. Ma le firme raccolte si fermano a 170 mila.

In compenso, quell'estate Pannella è il primo a pronunciare alla tv italiana le parole "aborto", "lesbiche" e "omosessuali". Nonostante gli sforzi del capufficio stampa Rai Giampaolo Cresci (poi direttore del Tempo), lo scandalo è enorme. Alla fine il potentissimo presidente Rai Ettore Bernabei si deve dimettere.

Sul caso Pannella intervengono sul Corriere della Sera Pasolini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini e Maurizio Ferrara, sull'Espresso Sciascia, Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Il leader radicale diventa un personaggio nazionale, e nel '76 deputato. 

Nelle liste del Pr abbondano i giornalisti: Enzo Marzo, Massimo Alberizzi, Riccardo Chiaberge e Cesare Medail del Corsera, Valter Vecellio (oggi inviato del Tg2) e Marco Taradash (per anni al mensile Prima Comunicazione), inventori delle rassegne stampa su Radio radicale. 

Stefano Rodotà, allora editorialista della neonata Repubblica, simpatizza. Ma è l'attuale commentatore di punta del Corriere della Sera Angelo Panebianco, assieme a Teodori, Piero Ignazi (poi editorialista di Repubblica) e al docente universitario Lorenzo Strik Lievers, il teorico più raffinato del radicalismo.

I1 culmine dello scontro tra Marco ed Eugenio

Nelle politiche del '79 alla pattuglia radicale si aggiungono sul versante giornalistico Maria Antonietta Macciocchi, Gigi Melega, Gianni Vattimo, Alfredo Todisco, Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Scalfari appoggia Pannella nella battaglia contro la fame nel mondo.

Ma l'ennesima rottura (mai più ricomposta) fra i due avviene nel 1981, sulla "linea della fermezza" durante il sequestro Br del magistrato D'Urso. Pannella scatena i militanti radicali, i quali mandano in tilt i centralini di Repubblica che rifiuta di pubblicare i comunicati brigatisti, condizione per la liberazione. Svela perfino i numeri di casa di Scalfari. 

"I brigatisti hanno definito Pannella 'sciocco demagogo' - risponde furibondo Scalfari in un editoriale - demagogo lo è certamente, sciocco assolutamente no, come può testimoniare chi lo conosce da trent'anni. (...) Pannella è un sovversivo, ne più ne meno delle Br. Le Br usano le pistole, Pannella le parole e lo psicodramma di massa". 

"Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, si è ricostituito il partito della forca, come ai tempi di Moro. Hanno bisogno di un cadavere per fare un golpe", replica Pannella da Radio radicale mobilitata giorno e notte dal direttore Jannuzzi. 

Nell'84 Scalfari viene condannato a risarcire Pannella con 70 milioni per un articolo diffamatorio sul caso Cirillo. Il direttore di Repubblica si vendica tre anni dopo, attaccando Pannella per la candidatura di Cicciolina. 

Ma è soprattutto su Bettino Craxi che i due hanno posizioni opposte: Pannella lo corteggia; Scalfari, innamorato del segretario dc Ciriaco De Mita, lo detesta. 
Il culmine dello scontro fra Marco ed Eugenio viene raggiunto nel '93, quando Pannella organizza addirittura un convegno ad hoc contro Scalfari, Caracciolo e De Benedetti: "Sono associati per delinquere - spara - Scalfari è un libertino mascherato da tartufo, che con una mano indica il dio della democrazia e con l'altra tocca le cosce dell'autoritarismo e della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava". 

Finirà mai la rivalità fra il politico 67enne che non è riuscito a fare il giornalista e il giornalista 73enne che non è riuscito a fare il politico (anche se il primo si illude di distruggere i giornalisti con il referendum, e il secondo spera in un posto da ministro o da senatore a vita)?
Mauro Suttora