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Saturday, August 20, 2022

Gli under35 capilista sono una disgrazia. Ritirate la candidatura, finché siete in tempo



Se volete fare politica, come diceva mia mamma, prima fatevi una posizione. Non diventate Casta troppo presto. Per rappresentare il loro popolo i giovani dovrebbero aver prima dimostrato qualcosa. Altrimenti sono solo miracolati

di Mauro Suttora

Huffpost, 20 agosto 2022


Ci mancavano gli under 35. Gli studenti di Berkeley sessant'anni fa iniziarono la contestazione urlando "Non fidatevi di nessuno sopra i 30 anni!". Ora invece alcuni giovani funzionari del Pd hanno ottenuto una corsia preferenziale per fare carriera: "Siamo gli unici che possono rappresentare la nostra generazione". Quindi verranno eletti in Parlamento con il solo merito della loro età.

Li scongiuro: no, non fatelo finché siete in tempo. Ritirate la candidatura. E, già che ci siete, lasciate la politica a tempo pieno. Trovatevi un lavoro vero. Non lo dico per qualunquismo: la politica è fra le più nobili delle attività. E ha bisogno di grande professionalità: equilibrio, facondia, intelligenza. Assieme ad amore, arte e religione è ciò che distingue gli uomini dagli animali. Ma proprio per questo non va ridotta a mestiere. 

Chi fa l'amore full time soddisfa l'esigenza più antica del mondo, quindi è comprensibile che le prostitute siano pagate. Praticare l'arte come mestiere è periglioso: difficile trarne sostentamento, uno su diecimila ce la fa, altro che mille. Quanto alla religione, seminari e chiese vuote sono lì a dimostrarci il disastro della sua professionalizzazione. 

Resta la politica. Capisco che stipendi da 9mila al mese (in Regione), 14mila (in Parlamento) o 20mila (Europarlamento) siano appetibili. Ma buttarsi da giovani in questa carriera significa condannarsi alla schiavitù. Dovrete sempre dire di sì al capo di turno per farvi rieleggere. Cambiare partito per sfuggire alla disoccupazione. Umiliarvi per restare a galla. Se verrete trombati sarà una tragedia: è  difficilissimo riciclarsi a 40-50 anni.

Non costringete quindi voi a vivere per sempre di politica, e noi a mantenervi. Non infliggeteci ulteriori reperti museali inestirpabili come Casini o Bonino. Guardate i 60 tapini che hanno seguito Di Maio: appena un mese fa pensavano di aver fatto una scelta furba, abbandonando la nave grillina che affonda. Ora resteranno quasi tutti senza posto. Per non parlare di Renzi, precipitato dal 40 al 2%. 

Insomma, se volete fare politica prima fatevi una posizione, come diceva mia mamma. Scegliete un qualsiasi altro onesto lavoro per mantenervi, e poi praticatela come prezioso hobby o commendevole volontariato. Non diventate Casta troppo presto: i grillini hanno dimostrato che la politica è una fabbrica di spostati.

Chi non ha un proprio lavoro cui tornare in caso di non rielezione, un paracadute, come Moro, Cacciari o Letta, è costretto a elemosinare strapuntini in enti parastatali. Oppure a sventolare il proprio certificato anagrafico in guisa di massima virtù, come gli sventurati pd under 35. Parafrasando Venditti: "Compagno di scuola, ti sei salvato o sei finito in politica pure tu?" 

Non ho niente contro i giovani. Ma per rappresentare il popolo dovrebbero aver prima dimostrato qualcosa. Altrimenti sono solo miracolati. Bonino, per esempio, approdò in Parlamento nel 1976 a 28 anni sull'onda delle sue lotte per l'aborto legale. Robespierre e Saint-Just fecero una rivoluzione a 31 e 22 anni. I Giovani Turchi cacciarono i vecchi ottomani pantofolai; poi però, avendo l'età dell'estremismo fanatico, sterminarono gli armeni.

Gli antichi romani, che avevano già capito tutto, facevano l'esatto contrario dell'odierno pseudogiovanilismo: in politica si affidavano alla saggezza dei vecchi senex riuniti nel Senato. Invece questi vorrebbero il Giovinato. 

Wednesday, December 11, 2013

Cgia di Mestre

In teoria dovrebbero limitarsi ad assistere gli artigiani di Venezia. In pratica, i loro comunicati fanno tremare ministri e imbestialire i burocrati romani. Ecco chi sono i «cervelloni» del Centro sudi più citato d'Italia

dall'inviato Mauro Suttora

Mestre (Venezia), 5 dicembre 2013

Gli americani hanno i Nobel del Mit di Boston, gli inglesi i professori di Cambridge, i tedeschi i think tank di Francoforte. Noi abbiamo gli artigiani di Mestre. Altro che Istat, o uffici studi Bankitalia e Bocconi. È la «Cgia di Mestre» quella che da vent’anni fa le pulci, inesorabilmente, a ogni provvedimento del governo italiano.

Letta promette sgravi fiscali? Nei tg la Cgia (sigla misera per un nome altisonante: Confederazione Generale Italiana Artigianato) lo ridicolizza subito, calcolando che sono solo 14 euro al mese. Tremonti annunciava meno tasse? La Cgia lo smentiva dopo poche ore. Monti vedeva «la luce in fondo al tunnel»? La Cgia sghignazzava, scodellando dati pessimi.

Ormai il dibattito politico/economico in Italia vede da una parte i ministeri romani, e dall’altra questa imperscrutabile Cgia. La quale gode di un successo incredibile presso tv e giornali: dal 1994 ha avuto 1.340 suoi comunicati ripresi dall’agenzia Ansa. Solo quest’anno siamo già arrivati a 300. Una cascata di notizie che arrivano sempre al momento giusto. Dopo l’alluvione in Sardegna, per esempio, la Cgia ha denunciato: soltanto l’uno per cento dei 43 miliardi di tasse «ambientali» che paghiamo va alla reale protezione del territorio.

Arruolato pure l’addetto alle paghe
Chi sono questi maghi di Mestre? E i loro dati sono attendibili? Andiamo a trovarli. Scopriamo che stanno in una avveniristica torre di vetro e acciaio alla periferia della città. Lavorano per l’ufficio studi 15 degli 85 dipendenti della Cgia provinciale veneziana. Ma perché mai gli artigiani qui sono così combattivi, e dedicano tante risorse alla polemica politica?

La risposta è tutta in un nome e cognome: Giuseppe Bortolussi. È il 65enne presidente della Cgia, per la quale lavora da un terzo di secolo. Ed è un vero «rompibae», come dicono da queste parti.
Documentatissimo e fluviale nell’eloquio, dirige la sua squadra ormai quasi a memoria. Ogni mattina si riuniscono e individuano i temi al centro dell’attenzione. Poi sfornano dati per giornalisti affamati di notizie, ma troppo pigri per trovarle da soli.
«E non ci vogliono professoroni per fare quattro calcoli», assicura Bortolussi, «basta il nostro funzionario addetto alle paghe o l’esperto sindacale per smascherare le bugie di Roma».

Parla un leghista apostolo degli evasori del Nordest? Macché. Bortolussi era candidato del Pd alle ultime regionali in Veneto nel 2010. Ha preso il 30%, contro il 60 di Lega Nord e Pdl. Ora è consigliere regionale. Prima, è stato a lungo assessore di Venezia nella giunta di sinistra di Massimo Cacciari.
I suoi 2.500 iscritti (a 200 euro l’anno) non protestano per questa sua caratterizzazione politica? «Nessuno. Perché difendiamo bene i loro interessi».

L’ufficio di Bortolussi, al quinto piano, è in cucina. Una cameretta con frigo, lavabo e gas progettata come foresteria. Ma a lui piaceva: ha aggiunto un tavolo, una sedia, e da lì fa tremare i ministri dell’Economia. Su uno scaffale i libri dei suoi economisti preferiti: Peter Drucker e Philip Kotler.
La sua apoteosi è arrivata il 15 novembre, quando il ministro Fabrizio Saccomanni ha dovuto smentire il proproprio dipartimento Finanze sui lavoratori dipendenti che pagherebbero più tasse degli imprenditori. «Non era mai successo che facessero marcia indietro su carta intestata», gongola Bortolussi.

Per conquistare valanghe di citazioni sui media la Cgia usa alcuni accorgimenti. Il principale è quello di sfornare i propri comunicati di sabato e domenica, quando spesso i giornalisti non sanno come riempire pagine e tg. «Ma non è un trucco», avverte Bortolussi, «lo facciamo perché molti nostri associati non hanno tempo di leggere i giornali quando lavorano, durante la settimana, e quindi lo fanno soprattutto nei week-end».

Bortolussi non è laureato (gli mancava la tesi di Legge). Ma, se è per questo, non lo sono neppure Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook).
In compenso l’ufficio studi abbonda di titoli accademici e ha trenta collaboratori esterni, con molti docenti universitari. Paolo Zabeo coordina l’ufficio stampa, Catia Ventura i ricercatori.

Poca dimestichezza con le cifre
In un Paese come l’Italia, con scarsa dimestichezza per i numeri, abbondano i cialtroni (specie fra certe «associazioni dei consumatori») che spesso spacciano cifre clamorose ma infondate. Per esempio, le tredicesime che sarebbero quasi completamente ingoiate dalle tasse.
«Noi controlliamo i dati cinque volte», assicura Bortolussi, «non spariamo alla cieca per poi essere smentiti».

Unica fortuna dei burocrati statali: il «rompibae» non abita a Milano o Roma. Quindi le sue apparizioni in tv sono limitate dalla lontananza fisica dagli studi. E i collegamenti in video con Mestre non sono così efficaci come la presenza fisica.
Mauro Suttora 

Wednesday, November 13, 2013

Barbara Berlusconi

di Mauro Suttora

Oggi, 6 novembre 2013

Negli sprint di ciclismo di solito vince il secondo, che sbuca da dietro all’improvviso infilando l’apripista. Lo stesso farà Barbara Berlusconi, ai danni della sorellastra Marina?
Missione impossibile, all’apparenza. Marina B. è sugli scudi di tutti i berlusconiani. Da tre mesi, dopo la condanna del padre, è diventata una dei suoi consiglieri più stretti in politica. Materia che le è totalmente indifferente, presa com’è dalla presidenza Mondadori. Lei e papà continuano a smentire una sua discesa in campo nei palazzi romani. Ma più negano, meno i forzisti ci credono: addirittura due su tre, dice qualche sondaggio, scommettono su di lei come erede politica.

E Barbara freme. Alla soglia dei trent’anni, la terzogenita di Silvio vuole farsi strada. Il solco è tracciato: per lei c’è il Milan, quarta gamba dell’impero di famiglia dopo Mediaset (andata al fratellastro Pier Silvio), Mondadori (Marina) e Forza Italia. Due anni fa, dopo la laurea breve in filosofia (Marina invece non è laureata), B.B. è stata nominata consigliere d’amministrazione della squadra di calcio.
«Immagino un mio futuro in Mondadori», aveva osato dichiarare, causando sconcerto nel padre e ira nella sorellastra che vedeva minacciato il feudo acquisito dal 2003. Provocazione? Invasione di campo? «Sarà manovrata dalla madre», sussurrarono i maligni. Veronica Lario, già in tempestosa rotta con l’ex marito e gran paladina della sorte dei propri tre figli.

Ma in questi anni Barbara ha imparato a giocare in proprio. E ormai le va stretto il seggiolino da consigliere d’amministrazione del Milan con cui era stata tacitata dopo quella sua prima alzata di testa.

Il giocattolo non le basta più. «Ci vuole un cambio di rotta nella società», ha annunciato dopo l’umiliante sconfitta in casa del Milan con la Fiorentina. Protesta con il padre, naturalmente precisa che non ce l’ha con Adriano Galliani. Ma vale di più il vicepresidente quasi 70enne che sta perdendo tutto o la figlia arrembante del presidente? Pagherà, come sempre, l’allenatore: Massimiliano Allegri. Pagherà anche per aver trattato male Alexander Pato, il baby-fidanzato di Barbara (cinque anni in meno) usato e buttato come tanti altri giovani simboli mancati dell’ex squadrone (Kaka, Stephan El Shaarawy).

La capricciosa Barbara, invaghita del «papero», ci aveva progettato casa assieme: si era fatta dare dal babbo 9,3 milioni per mezzo migliaio di metri quadri di attico e superattico in centro a Milano. Ora, dopo il mesto ritorno di Pato in Brasile a gennaio e la fine della storia a luglio, Barbara si è messa con un altro 24enne: lo studente di economia Lorenzo Guerrieri, barman a tempo perso nell’enoteca monzese Mulino dove si sono conosciuti. Addominali scolpitissimi, praticamente un sosia di Pato. Anche lui di Monza come Giorgio Valaguzza, dal quale senza sposarlo B.B. ha avuto i figli Alessandro (che ha appena compiuto sei anni) ed Edoardo. Gira e rigira, insomma, le berluschine nelle cose importanti sempre attorno alla loro Brianza ruotano.

Fra Barbara e Marina i rapporti sono agrodolci. Il gelo durato anni, dopo il mancato arrembaggio di B.B. alla Mondadori, pare si sia stemperato di recente. Ora tutti i figli, di primo e secondo letto, accorrono presso il padre 77enne nelle occasioni importanti: feste, compleanni e condanne penali.
Ma Barbara rimane il terrore degli addetti stampa Fininvest e la delizia dei giornalisti: le sue interviste, contrariamente a quelle di Marina, non sono concordate. Quindi ogni volta escono affermazioni clamorose e imprevedibili. Come quando disse che mai e poi mai avrebbe fatto vedere ai figli certi programmi delle tv Mediaset, e Maurizio Costanzo si offese. Nel 2007 ammise di aver fatto comprare dal padre per 20 mila euro certe imbarazzantissime foto scattatele da un paparazzo davanti a una discoteca di Milano. E dovette spiegare al pm Henry John Woodcock (detestato da Berlusconi) il ricatto subìto da Fabrizio Corona.

Nulla di più lontano dalla tranquilla vita privata di Marina. La quale al massimo convoca lei i paparazzi per farsi ritrarre a bordo piscina in foto «finte rubate». Dopo un fidanzamento durato dieci anni ma finito male, ha sposato il padre dei suoi due figli (Gabriele e Silvio), l’ex ballerino Maurizio Vanadia.

Come finirà il confronto/duello fra le due primedonne dell’impero di Arcore? Barbara, contrariamente a Marina, non ha mai detto che non le piace la politica. Dopotutto, suo padrino di battesimo nel 1984 fu Bettino Craxi, allora premier all’apice della gloria. «È bravissima, meglio lei di Marina», assicura il filosofo Massimo Cacciari. Che è di sinistra, ma era anche il rettore dell’università San Raffaele dove B.B. si è laureata.
Mauro Suttora

Wednesday, December 28, 2011

Una brutta fazenda

DON VERZE' IN BRASILE

Cos'è successo al San Raffaele

di Mauro Suttora

Oggi, 21 dicembre 2011

Costa venti milioni di euro il jet intercontinentale di lusso Challenger con cui don Luigi Verzè e il suo vice Mario Cal volavano in Brasile. A Salvador di Bahia il padrone del San Raffaele aveva costruito un ospedale, con 17 miliardi di lire della Cooperazione italiana. Ma aveva anche due «fazendas», fattorie con piantagioni di cocco, mango, banane e uva senza semi. E nella più bella, con piscina in riva all'oceano, invitava spesso amici dall'Italia. Come l'attore Renato Pozzetto, suo socio nella compagnia aerea che gestiva gli elicotteri del pronto soccorso dell'ospedale milanese.

Nel 2007 don Verzè, in preda a una delle sue imbarazzanti megalomanie, si regalò quel costoso giocattolino per evitare i fastidiosi check-in degli aeroporti. Poi però i debiti della Fondazione San Raffaele peggiorarono, le banche non rinnovavano più i fidi, e il prudente Pozzetto l'anno scorso si è ritirato dalla società, l'Airviaggi. In perdita: la sua quota del 30 per cento svalutata ad appena 3 mila euro, praticamente zero.

Solo una briciola, in confronto al gigantesco «buco» provocato dal sacerdote veronese. Sembrava fosse di un miliardo nove mesi fa, quando è stato svelato. Ora è salito a un miliardo e mezzo. Il Vaticano ha estromesso don Verzè. Cal si è suicidato. Centinaia di fornitori premono furibondi per essere pagati. Il faccendiere Piero Daccò è in carcere per bancarotta fraudolenta e associazione per delinquere. La scorsa settimana è finito al fresco anche l'ex direttore finanziario.

L'accusa: tangenti del 3-5 per cento sugli appalti. Il sospetto: che le buste alte centimetri piene di biglietti da 500, rivelate dalla segretaria di Cal, finissero a politici e dirigenti della regione Lombardia. La quale copre quasi tutto il bilancio dell'ospedale: più di mezzo miliardo l'anno. Ancora lo scorso agosto, 41 milioni per «premi di eccellenza». In totale, 3,3 miliardi di soldi pubblici finiti al San Raffaele negli ultimi cinque anni. Ma la pioggia di finanziamenti non ha evitato il crac.

Com'è potuto accadere? Nessuno si era accorto di nulla? Il San Raffaele è una fondazione, quindi non deve esibire i bilanci. Daccò nega di avere pagato pubblici ufficiali. Però conosceva tutti. Ospitava perfino il governatore lombardo Roberto Formigoni sul suo yacht Ad Maiora a Porto Cervo. Ma il vero «amico di tutti» era l'incredibile don Verzè, ammirato da tutti i premier: Giulio Andreotti (che andò in Brasile a inaugurare l'ospedale), Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Il San Raffaele è nato 40 anni fa, accanto alla Milano Due della Fininvest. Assieme riuscirono a far deviare le rotte degli aerei su Linate.

Ultimo estimatore del vulcanico prete bipartisn: il governatore pugliese Nichi Vendola, sponsor del nuovo San Raffaele a Taranto. Anche un altro ex comunista è stato sedotto da don Verzè: Massimo Cacciari, primo rettore della facoltà di Filosofia dell'università privata San Raffaele nel 2002. Lì si è laureata Barbara, figlia di Berlusconi.

«Io vado avanti, la provvidenza seguirà», rispondeva don Verzè a chi gli chiedeva se non facesse passi più lunghi della gamba. Anche quando ha speso 200 milioni di euro per l’enorme cupola accanto alla tangenziale Est di Milano. Sotto la quale in luglio si è suicidato il suo braccio destro Cal. Che disperazione, appena due anni dopo queste foto di «dolce vita» in piscina. E che tristezza, sentire il socio veneto della fazenda brasiliana confessare in tv a Report di rapporti sessuali con ragazze 14enni: «Pedofila, prostituzione? Ma no, qui ci vanno tutti. Sennò loro, poverine, cosa fanno?».

«Don Verzè si presentava come un miliardario con jet privato, circondato da donne e ragazzi», ha raccontato Pedro Lino, consigliere della corte dei conti dello stato di Bahia. Per anni console onorario italiano a Salvador, città di quattro milioni di abitanti, è stata Liliana Ronzoni, direttrice dell’ospedale brasiliano. Riservato a chi ha un’assicurazione, cioè non i poveri. Per loro il San Raffaele brasileiro ha aperto ambulatori esterni. Così non paga le tasse, perché è considerato «umanitario».

Don Verzè e i suoi amici spesso arrivavano alla fazenda in elicottero, per evitare le cinque ore in suv nero cilindrata 3.000 con aria condizionata da Salvador a Conde. Lì trovavano tre piscine, campi da tennis, ponies, gabbie con scimmie. Una fissa , quella del «don» per le gabbie. All’ultimo piano sotto la cupola di Milano, che aveva preteso tutto per lui e addobbato con arredamenti per quattro milioni, teneva una voliera per i pappagalli.

Gli ospiti in Brasile stavano in bungalows. Alle 8 della domenica mattina don Verzè celebrava messa. Superata, quindi, la sospensione a divinis subìta nel 1973 dall’arcivescovo di Milano. Prima di mangiare, a tavola, segno della croce per tutti.

Don Verzè ha fondato una propria congregazione, i «Sigilli». Quasi tutti i dirigenti (soprattutto donne) del San Raffaele ne fanno parte. Pronunciano voto di castità, devozione, purezza. Non di povertà. Una decina di loro, compreso il don, vivono in una lussuosa ex cascina ristrutturata vicino al San Raffaele. Con tre cuochi e tre chef, pagati dalla fondazione col buco miliardario.
Mauro Suttora

Tuesday, June 13, 2000

Gay Pride: parla Sergio Lo Giudice, capo dei gay italiani

di Mauro Suttora

Il Foglio, 13 giugno 2000

«Ostentazione? Provocazione? No, cerchiamo soltanto visibilità, senza arroganza. Le marce dell’orgoglio gay sono una risposta a secoli di vergogna».

Sergio Lo Giudice, 39 anni, professore di storia in un liceo scientifico di Bologna, dal 1998 è presidente nazionale dei 90mila iscritti all’Arcigay, la più grande organizzazione degli omosessuali in Italia. 

«La triste novità di quest’anno è che per la prima volta non c’è un atteggiamento di accoglienza piena da parte delle autorità della città in cui si svolge il Gay Pride. Quando in passato abbiamo sfilato a Napoli, Venezia o Bologna, i sindaci Antonio Bassolino, Massimo Cacciari e Walter Vitali sono sempre scesi in piazza assieme a noi, e hanno parlato dal palco. A New York perfino il ‘duro’ della destra Rudolph Giuliani ha marciato in prima fila nei nostri cortei, il vicepresidente Al Gore ci ha mandato messaggi di auguri, il candidato repubblicano alla presidenza George Bush junior ha ricevuto una nostra delegazione».

Perché tutta questa voglia di riconoscimento istituzionale, quest’ansia da patrocinio? Anche voi omosessuali siete diventati parastatali, senza soldi pubblici non fate più nulla?

«Il problema non sono i finanziamenti, ma la marcia indietro del sindaco di Roma Francesco Rutelli che prima ci ha concesso senza problemi il patrocinio, con un anticipo di anni, come fa abitualmente con centinaia di manifestazioni, e poi all’ultimo, un mese prima dell’evento, improvvisamente cambia idea prendendo a pretesto una supposta nostra non volontà di collaborazione. Mi pare evidente la malafede del Comune di Roma, che ha preferito piegarsi alle pressioni del Vaticano. I politici si preoccupano più dei voti degli elettori cattolici che non di far rispettare la Costituzione, la quale garantisce libertà di pensiero, parola, riunione e manifestazione. Nessuno di noi pensa di venire a Roma per oltraggiare il Papa...».

Beh, la vostra scelta della capitale della cristianità proprio nell’anno giubilare non è certo casuale.

«Sì, ma non vogliamo contrapporci alla Chiesa cattolica. Non cerchiamo un conflitto sui valori, anche perché noi ci guardiamo bene dal volere imporre i nostri. Semplicemente, Roma è una città di tutti, e resta libera anche nell’anno del Giubileo. Chiediamo al Vaticano soltanto di rispettarci, e ricerchiamo un dialogo con i cattolici. Mi associo a chi ha richiesto al Papa una parola di apertura su questi temi».

Per la verità soltanto Gad Lerner su «Repubblica» si illude che quel pulpito si appresti a contraddire un’omofobia bimillenaria.

«Ma noi stessi abbiamo distribuito nel 1997 a Bologna, durante la settimana eucaristica di preparazione al Giubileo, un volantino in cui chiedevamo un’interlocuzione ai cattolici. Rimane drammaticamente significativa la vicenda di Piero Ormando, l’omosessuale che si è dato fuoco in piazza San Pietro due anni fa. E sappiamo bene che fra gay e cattolici una contrapposizione non può esserci, per il semplice motivo che non pochi fra i partecipanti alla manifestazione dell’8 luglio saranno cattolici, e che viceversa molti fra i cattolici sono omosessuali».

Ci sono vari modi per ostacolarvi: patrocinî a parte, adesso la partita si gioca sull’itinerario del corteo. Vogliono confinarvi in periferia. 

«Giuliano Amato desiderava tenerci fuori da Roma, e ci sta riuscendo. Noi abbiamo accettato tutto, sul percorso».

E mentre l’autorità pubblica temporeggia, voi promettete una disponibilità quasi commovente: l’impegno di fare i rispettosi ogni volta che passerete davanti a una chiesa, per esempio, rischia di rivelarsi una promessa difficile da mantenere, visto che a Roma c’è una chiesa ogni cento metri.

«Il rischio grosso è che, senza una decisione chiara e definitiva sul percorso, il temporeggiamento incoraggi le manifestazioni contro di noi dei gruppi estremisti che ormai fioccano ogni giorno: da Forza Nuova al Ccd, dal Msi-Fiamma tricolore ad An. Si attende, si fa salire la tensione, e poi magari viene la tentazione di proibire il percorso del corteo: lontano da piazza San Pietro, lontano dalle basiliche, lontano dal Parlamento, lontano dal centro, niente via del Corso, niente piazza Navona, niente piazza del Popolo, niente piazza Venezia: abbiamo fatto marcia indietro su tutto e con grande spirito di disponibilità. Che ci concedano almeno il Colosseo. Mi preoccupa soprattutto il dilazionamento dei tempi per la decisione sul percorso. Non è una decisione politica, ma amministrativa: dipende dal prefetto e dal questore. Ma alla fine il responsabile è politico: il ministro dell’Interno Enzo Bianco».

Quali sono le vostre richieste politiche al governo italiano? 

«L’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge. Oggi la questione omosessuale è come quella femminile di un secolo fa, o quella razziale prima dell’abolizione della schiavitù. Uno Stato laico deve garantire pari opportunità a tutti i propri cittadini, quindi occorre approvare come in Francia la legge sui Patti civili di solidarietà, i Pacs, o quella sulle unioni affettive presentata da Antonio Soda dei Ds e da Lucio Colletti di Forza Italia».

A parte Colletti, Tiziana Maiolo, Vittorio Sgarbi, Raffaele Costa e Sergio Scalpelli, Forza Italia considera «inopportuno» il corteo, come ha detto Silvio Berlusconi.

«Invece gli altri partiti di centrodestra in Europa non ci sono contrari: il 16 marzo l’Europarlamento, a maggioranza di centrodestra, ha approvato una risoluzione che ci appoggia».  

Monday, July 19, 1999

Il cognato di Di Pietro e i Democratici

di Mauro Suttora

Il Foglio, 20 luglio 1999

Milano. «Non ci faremo pillitterizzare!»: un borbottio di protesta accoglie l’introduzione dell’onorevole Gabriele Cimadoro alla prima assemblea regionale dei Democratici della Lombardia dopo le elezioni. Il cognato di Antonio Di Pietro (che ricorda il leggendario sindaco-cognato milanese di Bettino Craxi, Paolo Pillitteri) suscita malumore innanzitutto perché, ancora una volta, il nome di Tonino è stato usato come specchietto per le allodole allo scopo di attirare gli attivisti.

Arrivati in duecento sabato 17 nella sala del quartiere periferico Barona (non c’è nessun giornalista: tutti sono da Walter Veltroni, in contemporanea anche lui a Milano per consolare i ds), la sorpresa è che, come sempre più spesso accade, il senatore del Mugello non c’è. Il che, in un gruppo carismatico come quello dell’Asinello, equivale a negare la Madonna ai fedeli giunti a Lourdes.

Ma l’imposizione del cognato come surrogato dipietresco, a parte il sapore familistico, ha anche un significato politico di gravità quasi surreale: da un mese infatti l’unica proposta politica dei Democratici a livello nazionale sembra essere quella di escludere dall’Ulivo i «traditori» Clemente Mastella e Rocco Buttiglione, in quanto eletti tre anni fa nel Polo di Silvio Berlusconi. 

E chi si ritrovano gli adepti lombardi dell’Asinello ad aprire la loro riunione? Proprio Cimadoro, anch’egli fresco transfuga dal Ccd. Però, a differenza dei suoi due ex capi oggi così detestati dal surrogato di Prodi, Arturo Parisi, il cognato è stato non solo accolto con gioia fra i Democratici (che si autoproclamano «lievito dell’Ulivo»), ma ne è addirittura diventato subito un dirigente nazionale. È stato infatti nominato «garante» (cioè commissario politico) per il Molise: una delle ultime regioni italiane come numero di abitanti, ma la più importante per i Democratici come quota di elettori (28 per cento).

Così le truppe Democratiche, già demoralizzate dal magro risultato lombardo (6% alle europee, attorno al 5% nelle provinciali), si sono irritate e hanno accolto freddamente il cognato bergamasco. L’unico che ha avuto il coraggio di criticarlo apertamente è stato l’avvocato Pierluigi Mantini, ma nei corridoi i commenti erano quasi tutti democristianamente velenosetti. 

Intanto, in barba al proprio nome, i Democratici continuano a essere l’unico partito italiano senza dirigenti (più o meno) democraticamente eletti: il primo congresso nazionale è stato rinviato a fine anno, perché i prodiani sperano che in settembre il congresso Ppi si concluda con la fuga nell’Asinello di molti popolari. Prodi avrebbe voluto far slittare tutto addirittura al Duemila, ma gli altri dirigenti che già cominciano ad averne abbastanza della gestione «provvisoria» di Parisi hanno strappato un anticipo a novembre.

Gli ex democristiani (prodiani, pattisti e, adesso, anche diniani) sembrano comunque avere già conquistato l’Asinello, in barba ai vari Di Pietro, Francesco Rutelli e Massimo Cacciari: come «garante» per la Lombardia, ad esempio, Prodi è riuscito a imporre la fedele Albertina Soliani, ex dc reggiana, direttrice didattica, già sottosegretaria all’Istruzione nel suo governo. Così, mentre la base è ancora composta quasi tutta da dipietristi (i militanti della prima ora che un anno fa diedero l’anima per raccogliere il mezzo milione di firme per il referendum), i vertici stanno diventando in maggioranza prodiani.

Se in Lombardia la Soliani (che assomiglia impressionantemente a Rosy Bindi) ha subito scelto come sua principale collaboratrice la prodiana Viviana Guerzoni, infliggendo così un altro colpo alla leadership del dipietrista Giorgio Calò, in altre regioni le cose stanno anche peggio. 

Disastri in Puglia: «Il garante Mario Monaco», protesta il dirigente foggiano Filippo Fedele, «ha spartito i subgaranti secondo la miglior logica democristiana». Un altro prodiano, il neoeurodeputato Giovanni Procacci, è andato a combinar guai a Modena, mentre nel Lazio c’è il caso di Raffaele Fellah, imbarazzante primo dei non eletti a Strasburgo dopo Rutelli grazie all’appoggio di Cl e degli andreottiani.

«Tutti questi passi falsi ci sono costati almeno quattromila aderenti in meno», commenta sconsolato Elio Veltri, dipietrista ante marciam. E «il nuovo modo di fare politica» dov’è finito?