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Wednesday, November 10, 2004

Tristi per la vittoria di Bush

DISPERAZIONE A HOLLYWOOD

di Mauro Suttora

10 novembre 2004

MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».

BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.

REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.

CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.

BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.

WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.

Wednesday, January 22, 2003

Attori e guerra in Iraq

Presidente, Hollywood non vuole questo brutto film di guerra

I divi del cinema dicono tanti "no" al conflitto contro l' Iraq

"Appoggio la lotta al terrorismo", spiega Whoopi Goldberg, "ma prima bisogna sconfiggere Al Qaeda". "Agiamo solo su mandato dell'Onu", afferma Martin Sheen. E se gli americani sono convinti che Saddam vada spodestato, il dubbio è sui mezzi da usare. Con la domanda di sempre: un intervento per la libertà o per il petrolio ?

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 22 gennaio 2003

Barbra Streisand e Robert Redford sono contrari. Clint Eastwood e Tom Cruise sono a favore. E con loro tutta Hollywood, tutta l' America è divisa. La guerra contro l' Iraq, fortemente voluta da George Bush, non scalda gli animi. Dove è finita l' unanimità con cui quindici mesi fa gli Stati Uniti occuparono l'Afghanistan?

I sondaggi lo ripetono: la grande maggioranza dei cittadini statunitensi ha fiducia in Bush, ed è convinta che al dittatore iracheno Saddam Hussein vada data una lezione. Sul come darla, però, c' è divergenza di opinioni. Anche e soprattutto tra i vip. "Dobbiamo agire soltanto su mandato Onu, come per la guerra del Golfo nel 1991", sostiene l' attore Martin Sheen, che impersona il presidente in una serie Tv, West Wing. Per un finto presidente pacifista, eccone un altro militarista: Harrison Ford, che si rifiuta di firmare gli appelli per la pace.

Il 67 per cento degli statunitensi è favorevole all' invasione dell' Iraq, ma la percentuale cala al 54 quando si fa presente che molti soldati americani potrebbero non tornare. E la maggioranza diventa minoranza di fronte alla tentazione di agire senza aspettare "le lungaggini di quei burocrati delle Nazioni Unite", come dice il quotidiano New York Post.

Il falco dei falchi di Hollywood, questa volta, non è Arnold Schwarzenegger, l' unico repubblicano della famiglia Kennedy. "Terminator" ha dichiarato: "Mi devono ancora convincere che invadere l' Iraq sia l' unica soluzione". Ammansitosi il muscoloso marito di Maria Shriver Kennedy, il divo più bellicoso è Harvey Keitel. L' ex marine ha riproposto la leva: "Non penso sia una buona idea avere forze armate composte solo da volontari. Tutti dovrebbero fare il servizio militare. Ogni giovane deve rendersi conto che talvolta è necessario combattere per difendere le libertà che ci stanno a cuore".

Tra i pacifisti, il più cattivo è Harry Belafonte. Il cantante ha attaccato il segretario di Stato Colin Powell, di colore come lui: "Powell è come uno schiavo della piantagione ammesso dal padrone (il presidente Bush, ndr) a frequentare il suo palazzo, e che ora, per riconoscenza, ripete a pappagallo le sue opinioni". I dubbi di Hollywood riflettono quelli del Paese. Un parallelismo non casuale per un popolo abituato a guardare la politica come una scena sul grande schermo. Così, il direttore della rivista di cinema Variety spiega perché l' opinione pubblica è fredda sull' invasione dell' Iraq: "Al pubblico piacciono i film lineari, senza rimaneggiamenti dell' ultimo momento. Invece, a un certo punto Osama Bin Laden è sparito e Saddam lo ha sostituito nella parte del cattivo".

Ecco, quindi, il commento di Whoopi Goldberg: "Appoggio la guerra contro i terroristi, ma vorrei che prima si finisse il lavoro con Al Qaeda. Poi si potrà portare la democrazia in Iraq con i carri armati". Un anno fa, all' indomani dell' 11 settembre, quasi nessuno a Hollywood osava schierarsi contro la politica estera americana. Anche oggi, però, chi critica Bush qualcosa rischia. I dubbi, infatti, riguardano i mezzi più che il fine, che per l' americano medio si riassume in "Kill Saddam".

Ecco perché molte star, per non diventare impopolari, evitano di prendere posizione: "Sono solo un' attrice", si schermisce Gwyneth Paltrow, "non vedo perché si debba sapere la mia opinione". Per farsi un' opinione, viceversa, c' è chi è andato a Baghdad. Come l' attore Sean Penn, che però, tornato nel continente americano per passare le vacanze di Natale in un lussuoso resort messicano, è stato preso in giro: "Sean, come sta il tuo amico Saddam ?". Penn non s' è limitato al turismo politico: in ottobre ha sborsato 56 mila dollari (circa 56 mila euro) per pagarsi una pagina di pubblicità pacifista sul Washington Post, in cui ha sostenuto che "un attacco preventivo contro una nazione sovrana provocherebbe vergogna e orrore".

Anche Robin Williams è partito per l'Asia. La sua meta è stata l'Afghanistan, per far divertire le truppe americane, sulle orme di John Wayne, ai tempi del Vietnam. E per quanto Warren Beatty consideri assurdo "che chi esprime riserve venga liquidato come non patriottico", silenziosi rimangono i giovani pesi massimi: Julia Roberts, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Sandra Bullock o Cameron Diaz.

Pure Bruce Willis, amico di Bush, questa volta tace. Insomma, la gente dello spettacolo sa di muoversi su un terreno minato, e che il radicalismo non paga. Lo sanno il regista Oliver Stone e l' attore Alec Baldwin, che hanno visto le carriere danneggiate dalle sparate anti Bush. O Jessica Lange, che del presidente, chissà perché, ha detto: "Lo odio". O Eric Roberts, il fratello scapestrato di Julia, che si è lanciato in congetture da delirio: "Bush è un fascista e cospira con Osama per distruggere l' economia". Woody Harrelson, sul quotidiano inglese Guardian, ha stigmatizzato "la guerra razzista e imperialista condotta dai guerrafondai che si sono rubati la Casa Bianca". Debole in geografia la Streisand, che ha definito iraniano Saddam.

Per reperire opinioni più meditate, gli americani devono rivolgersi ai giornali. Scalpore ha suscitato la copertina del supplemento domenicale del New York Times dal titolo "Impero americano: facciamoci l' abitudine". Per la prima volta un quotidiano "di sinistra" prendeva atto che ormai gli Stati Uniti sono un impero come quello romano, senza rivali al mondo, e che quindi tocca a Washington mantenere pace e ordine, a costo di apparire imperialisti. Altre verità sulle motivazioni di Bush sono troppo scottanti per poterle pubblicare sulla stampa americana. E così c' è chi si è rivolto all' estero, ai giornali di Londra, patria del "compagno di battaglia" Tony Blair. Come l' anonimo alto funzionario del Pentagono che ammette, sul Sunday Express, come il motivo più pressante della campagna d' Iraq sia la necessità americana di conservare la leadership mondiale: "È reale la minaccia che Saddam disponga di armi di distruzione di massa e le usi. Ci sono, quindi, motivi fondati per affrontarlo. Ma alcuni sono importanti per il presente, altri per il futuro. A lungo termine, il nostro grande rivale sarà la Cina. Il modo migliore di contenere Pechino è rafforzare i nostri alleati in Estremo Oriente: Giappone e Corea del Sud. Le cui economie si basano in gran parte sull'industria petrolchimica. Se controlliamo le riserve di petrolio irachene, possiamo garantire ai nostri alleati la prosperità necessaria per controbilanciare l'espansionismo economico cinese".

Altrettanto esplicita, sul Mirror, Sara Flounders, pacifista dell' American International Action Center: "Le compagnie petrolifere angloamericane vogliono accesso illimitato ai giacimenti iracheni". Non è difficile, ragiona il quotidiano, capire perché Washington ammassi truppe nel Golfo, perché l'esercito statunitense sia presente in ogni Paese produttore di petrolio o confinante con un produttore, perché il 20 per cento dell' enorme bilancio militare americano sia destinato alla difesa di giacimenti petroliferi. Basta ricordare il '91 quando Bush senior, padre dell' attuale presidente, veleggiava su indici di gradimento altissimi dopo la vittoria su Saddam. Pochi mesi dopo, la sua carriera politica era finita: colpa di un rincaro della benzina che gli americani, popolo di automobilisti, non gli perdonarono.

Il Bush di oggi non dimentica e, per tenere stabili i prezzi del petrolio, evitando picchi ma anche crolli, ha fatto accumulare nelle miniere abbandonate del Texas e della Louisiana enormi riserve. Non sufficienti, però, per fare a meno della collaborazione dei sauditi che, con i loro 300 miliardi di barili, fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato. Tutto bene, finché sono alleati. Ma, come sottolineano gli esperti di politica ed economia mondiale della Rand Corporation al Pentagono, esiste il rischio che i fondamentalisti islamici spodestino il filoamericano Re Fahd e chiudano i rubinetti, con conseguenze catastrofiche.

Perciò Bush ha fretta di affrancarsi dalla dipendenza verso i sauditi. E lo può fare solo installando a Baghdad un governo amico e mettendo le mani sui giacimenti di Saddam che, come ha osservato il vicepresidente Dick Cheney, "ha sotto il suo sedere il dieci per cento delle riserve mondiali". Paradossalmente, oggi sono proprio i militari i più riluttanti a invadere l'Iraq. Temono di rimanerci invischiati per anni, come capitò in Vietnam e come accade in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Ma, visto che Bush ha aumentato le spese militari da 300 miliardi di dollari a quasi 400 in due anni, è fatale che prima o poi una guerra scoppi. "Anche se sarebbe più economico eliminare Saddam con una sola pallottola", scherza macabro Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca, alludendo all'ingaggio di un possibile sicario. Quanto a chi accusa il petroliere Bush di far guerra per il petrolio, Peter Beinart del prestigioso settimanale New Republic risponde drastico: "E allora? Ci mancherebbe che non difendessimo i nostri interessi. A tutti piace pagare poco la benzina".
Mauro Suttora