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Thursday, June 13, 2013

Grande Gatsby

90 anni dopo: andiamo vedere i luoghi del film con Leonardo DiCaprio

Anche oggi, bella vita d’estate a New York

Francis Scott Fitzgerald aveva ambientato il suo capolavoro nei fantastici anni 20: feste, alcol, jazz, sesso. E tanti soldi. Ma pure adesso i miliardari di Manhattan nei weekend sciamano agli Hamptons, le spiagge dorate a due ore d’auto dal centro. Scopriamo i loro dolci segreti 

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 29 maggio 2013

Il problema principale è l’elicottero. Perché gli Hamptons sono lontani 170 chilometri da Manhattan (come Portofino da Milano), quindi andarci in macchina è disagevole: due ore, che diventano tre nel traffico dei weekend.

Sono questi i crucci dei miliardari di New York, che quasi un secolo dopo Francis Scott Fitzgerald continuano a fuggire a Long Island appena possono, per darsi alla dolce vita fatta di soldi, alcol, musica e sesso. Proprio come nel libro e nei film (quello con Robert Redford del 1974, l’attuale con Leonardo DiCaprio), il Grande Gatsby è vivo e festeggia assieme a noi. Alla faccia di tutte le crisi economiche ed esistenziali.

Da fine maggio all’inizio di settembre le ville dei quattro Hamptons (South, East, West e Bridge), paesoni affogati nel verde davanti alla spiaggia oceanica, con le propaggini di Sag Harbor e Montauk, si riempiono di bella gente.

McCartney, Calvin Klein, Madonna
Cantanti come Paul McCartney e Madonna, attrici come Gwyneth Paltrow (col marito Chris Martin, capo dei Coldplay), Sarah Jessica Parker di Sex and the City (col marito Matthew Broderick) e Renée Zellweger, stilisti come Calvin Klein, registi come Steven Spielberg, galleristi come Larry Gagosian sono i nomi più noti. Ma centinaia di finanzieri di Wall Street e magnati dell’industria, compresi gli ultimi giovani arricchiti del web come Mark Zuckerberg di Facebook quando lascia la sua California, affollano  ristoranti, club privati, campi di polo, golf, tennis. E feste, tante feste dal giovedì alla domenica.

Perché New York sarà anche la capitale del mondo, ma ha uno dei climi più fetidi della Terra: fredda in inverno, piovosa in primavera, calda e umidissima d’estate. Così i ricconi in cerca di refrigerio scappano agli Hamptons. Che sono ugualmente umidi, ma almeno ventilati dalla brezza atlantica.

Fitzgerald per la verità aveva ambientato il palazzo di Gatsby un po’ più vicino a New York, a Great Neck. Ma quella zona ora è stata occupata dalle mansion dei ricchi ebrei  scappati dalla Persia dopo la caduta dello Scià. Da decenni, ormai, la dolce vita si è spostata agli Hamptons.

Ridicoli colori pastello
Lì i miliardari non si vergognano di addobbarsi con vestiti dai colori ridicoli: rosa, verde pisello, azzurro, turchese: di tutto, purché sia pastello e ricordi gli anni Venti. Il tempo sembra essersi fermato.

Chi pensasse a una vita di spiaggia all’europea, se la scordi. Niente stabilimenti, ristoranti sul mare, ombrelloni, passeggiate sul lungomare, struscio nelle vie dei negozi. Le spiagge sono immense e libere, ma sferzate dal vento. E, soprattutto, l’acqua dell’oceano è gelida. Le nuotate quindi si fanno in piscina, al riparo da occhi indiscreti. E gran parte della vita sociale è nascosta agli occhi dei wannabes («vorrei-ma-non-posso»), i detestati turisti della domenica arrivati col torpedone: si svolge in privatissimi club cui si viene ammessi con estrema difficoltà. Difficile avvistare le celebrità mentre camminano su un marciapiede.

Qualche anno fa suscitò scalpore il biglietto con ricevuta lasciato cadere per terra da un ignoto cliente di bancomat a Southampton: aveva attinto 500 dollari da un conto corrente il cui saldo ammontava a un milione.

Ma l’aspetto più buffo dei weekend di questi personaggi stratosferici, che anche in agosto vanno e vengono furiosamente da Manhattan (negli Stati Uniti non esiste il concetto di vacanza lunga un mese) sono gli spostamenti.

Abituati alle loro limousine con autista, rimangono intrappolati dal traffico dei comuni mortali nelle autostrade di Long Island, dove purtroppo per loro non hanno ancora inventato le corsie riservate ai miliardari. Optano quindi per l’elicottero. Ma anche così, la vita dei vip non è così semplice. Perché i veri ricchi hanno il velivolo privato. Mentre quelli che non possono permettersi esborsi di milioni di dollari devono «accontentarsi» di affittare i voli per qualche migliaio di bigliettoni verdi. E lì scatta, tremendo, il disprezzo dei ricchissimi verso i ricchi.

Esattamente come nel film, in cui il parvenu Gatsby viene snobbato dal giocatore di polo Tom Buchanan. Gatsby si vendica portandogli (quasi) via la moglie. E anche oggi ogni estate le cronache rosa si riempiono di tradimenti, dispetti, invidie. Il tutto innaffiato da fiumi di alcol e altre droghe. Ora come allora. 
Mauro Suttora

Friday, June 20, 2008

Festa del cinema a Roma

La Capitale del debito fa pure la Festa del Cinema

Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori

di Mauro Suttora

Libero, 20 giugno 2008

Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.

Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.

Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.

Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.

Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.

Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.

E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).

Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…

Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?

La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?

A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.

Mauro Suttora

Tuesday, November 22, 2005

Bob Woodward

22 novembre 2005

Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.

Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.

La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.

Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.

Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.

Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.

Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.

Mauro Suttora

Wednesday, January 22, 2003

Attori e guerra in Iraq

Presidente, Hollywood non vuole questo brutto film di guerra

I divi del cinema dicono tanti "no" al conflitto contro l' Iraq

"Appoggio la lotta al terrorismo", spiega Whoopi Goldberg, "ma prima bisogna sconfiggere Al Qaeda". "Agiamo solo su mandato dell'Onu", afferma Martin Sheen. E se gli americani sono convinti che Saddam vada spodestato, il dubbio è sui mezzi da usare. Con la domanda di sempre: un intervento per la libertà o per il petrolio ?

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 22 gennaio 2003

Barbra Streisand e Robert Redford sono contrari. Clint Eastwood e Tom Cruise sono a favore. E con loro tutta Hollywood, tutta l' America è divisa. La guerra contro l' Iraq, fortemente voluta da George Bush, non scalda gli animi. Dove è finita l' unanimità con cui quindici mesi fa gli Stati Uniti occuparono l'Afghanistan?

I sondaggi lo ripetono: la grande maggioranza dei cittadini statunitensi ha fiducia in Bush, ed è convinta che al dittatore iracheno Saddam Hussein vada data una lezione. Sul come darla, però, c' è divergenza di opinioni. Anche e soprattutto tra i vip. "Dobbiamo agire soltanto su mandato Onu, come per la guerra del Golfo nel 1991", sostiene l' attore Martin Sheen, che impersona il presidente in una serie Tv, West Wing. Per un finto presidente pacifista, eccone un altro militarista: Harrison Ford, che si rifiuta di firmare gli appelli per la pace.

Il 67 per cento degli statunitensi è favorevole all' invasione dell' Iraq, ma la percentuale cala al 54 quando si fa presente che molti soldati americani potrebbero non tornare. E la maggioranza diventa minoranza di fronte alla tentazione di agire senza aspettare "le lungaggini di quei burocrati delle Nazioni Unite", come dice il quotidiano New York Post.

Il falco dei falchi di Hollywood, questa volta, non è Arnold Schwarzenegger, l' unico repubblicano della famiglia Kennedy. "Terminator" ha dichiarato: "Mi devono ancora convincere che invadere l' Iraq sia l' unica soluzione". Ammansitosi il muscoloso marito di Maria Shriver Kennedy, il divo più bellicoso è Harvey Keitel. L' ex marine ha riproposto la leva: "Non penso sia una buona idea avere forze armate composte solo da volontari. Tutti dovrebbero fare il servizio militare. Ogni giovane deve rendersi conto che talvolta è necessario combattere per difendere le libertà che ci stanno a cuore".

Tra i pacifisti, il più cattivo è Harry Belafonte. Il cantante ha attaccato il segretario di Stato Colin Powell, di colore come lui: "Powell è come uno schiavo della piantagione ammesso dal padrone (il presidente Bush, ndr) a frequentare il suo palazzo, e che ora, per riconoscenza, ripete a pappagallo le sue opinioni". I dubbi di Hollywood riflettono quelli del Paese. Un parallelismo non casuale per un popolo abituato a guardare la politica come una scena sul grande schermo. Così, il direttore della rivista di cinema Variety spiega perché l' opinione pubblica è fredda sull' invasione dell' Iraq: "Al pubblico piacciono i film lineari, senza rimaneggiamenti dell' ultimo momento. Invece, a un certo punto Osama Bin Laden è sparito e Saddam lo ha sostituito nella parte del cattivo".

Ecco, quindi, il commento di Whoopi Goldberg: "Appoggio la guerra contro i terroristi, ma vorrei che prima si finisse il lavoro con Al Qaeda. Poi si potrà portare la democrazia in Iraq con i carri armati". Un anno fa, all' indomani dell' 11 settembre, quasi nessuno a Hollywood osava schierarsi contro la politica estera americana. Anche oggi, però, chi critica Bush qualcosa rischia. I dubbi, infatti, riguardano i mezzi più che il fine, che per l' americano medio si riassume in "Kill Saddam".

Ecco perché molte star, per non diventare impopolari, evitano di prendere posizione: "Sono solo un' attrice", si schermisce Gwyneth Paltrow, "non vedo perché si debba sapere la mia opinione". Per farsi un' opinione, viceversa, c' è chi è andato a Baghdad. Come l' attore Sean Penn, che però, tornato nel continente americano per passare le vacanze di Natale in un lussuoso resort messicano, è stato preso in giro: "Sean, come sta il tuo amico Saddam ?". Penn non s' è limitato al turismo politico: in ottobre ha sborsato 56 mila dollari (circa 56 mila euro) per pagarsi una pagina di pubblicità pacifista sul Washington Post, in cui ha sostenuto che "un attacco preventivo contro una nazione sovrana provocherebbe vergogna e orrore".

Anche Robin Williams è partito per l'Asia. La sua meta è stata l'Afghanistan, per far divertire le truppe americane, sulle orme di John Wayne, ai tempi del Vietnam. E per quanto Warren Beatty consideri assurdo "che chi esprime riserve venga liquidato come non patriottico", silenziosi rimangono i giovani pesi massimi: Julia Roberts, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Sandra Bullock o Cameron Diaz.

Pure Bruce Willis, amico di Bush, questa volta tace. Insomma, la gente dello spettacolo sa di muoversi su un terreno minato, e che il radicalismo non paga. Lo sanno il regista Oliver Stone e l' attore Alec Baldwin, che hanno visto le carriere danneggiate dalle sparate anti Bush. O Jessica Lange, che del presidente, chissà perché, ha detto: "Lo odio". O Eric Roberts, il fratello scapestrato di Julia, che si è lanciato in congetture da delirio: "Bush è un fascista e cospira con Osama per distruggere l' economia". Woody Harrelson, sul quotidiano inglese Guardian, ha stigmatizzato "la guerra razzista e imperialista condotta dai guerrafondai che si sono rubati la Casa Bianca". Debole in geografia la Streisand, che ha definito iraniano Saddam.

Per reperire opinioni più meditate, gli americani devono rivolgersi ai giornali. Scalpore ha suscitato la copertina del supplemento domenicale del New York Times dal titolo "Impero americano: facciamoci l' abitudine". Per la prima volta un quotidiano "di sinistra" prendeva atto che ormai gli Stati Uniti sono un impero come quello romano, senza rivali al mondo, e che quindi tocca a Washington mantenere pace e ordine, a costo di apparire imperialisti. Altre verità sulle motivazioni di Bush sono troppo scottanti per poterle pubblicare sulla stampa americana. E così c' è chi si è rivolto all' estero, ai giornali di Londra, patria del "compagno di battaglia" Tony Blair. Come l' anonimo alto funzionario del Pentagono che ammette, sul Sunday Express, come il motivo più pressante della campagna d' Iraq sia la necessità americana di conservare la leadership mondiale: "È reale la minaccia che Saddam disponga di armi di distruzione di massa e le usi. Ci sono, quindi, motivi fondati per affrontarlo. Ma alcuni sono importanti per il presente, altri per il futuro. A lungo termine, il nostro grande rivale sarà la Cina. Il modo migliore di contenere Pechino è rafforzare i nostri alleati in Estremo Oriente: Giappone e Corea del Sud. Le cui economie si basano in gran parte sull'industria petrolchimica. Se controlliamo le riserve di petrolio irachene, possiamo garantire ai nostri alleati la prosperità necessaria per controbilanciare l'espansionismo economico cinese".

Altrettanto esplicita, sul Mirror, Sara Flounders, pacifista dell' American International Action Center: "Le compagnie petrolifere angloamericane vogliono accesso illimitato ai giacimenti iracheni". Non è difficile, ragiona il quotidiano, capire perché Washington ammassi truppe nel Golfo, perché l'esercito statunitense sia presente in ogni Paese produttore di petrolio o confinante con un produttore, perché il 20 per cento dell' enorme bilancio militare americano sia destinato alla difesa di giacimenti petroliferi. Basta ricordare il '91 quando Bush senior, padre dell' attuale presidente, veleggiava su indici di gradimento altissimi dopo la vittoria su Saddam. Pochi mesi dopo, la sua carriera politica era finita: colpa di un rincaro della benzina che gli americani, popolo di automobilisti, non gli perdonarono.

Il Bush di oggi non dimentica e, per tenere stabili i prezzi del petrolio, evitando picchi ma anche crolli, ha fatto accumulare nelle miniere abbandonate del Texas e della Louisiana enormi riserve. Non sufficienti, però, per fare a meno della collaborazione dei sauditi che, con i loro 300 miliardi di barili, fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato. Tutto bene, finché sono alleati. Ma, come sottolineano gli esperti di politica ed economia mondiale della Rand Corporation al Pentagono, esiste il rischio che i fondamentalisti islamici spodestino il filoamericano Re Fahd e chiudano i rubinetti, con conseguenze catastrofiche.

Perciò Bush ha fretta di affrancarsi dalla dipendenza verso i sauditi. E lo può fare solo installando a Baghdad un governo amico e mettendo le mani sui giacimenti di Saddam che, come ha osservato il vicepresidente Dick Cheney, "ha sotto il suo sedere il dieci per cento delle riserve mondiali". Paradossalmente, oggi sono proprio i militari i più riluttanti a invadere l'Iraq. Temono di rimanerci invischiati per anni, come capitò in Vietnam e come accade in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Ma, visto che Bush ha aumentato le spese militari da 300 miliardi di dollari a quasi 400 in due anni, è fatale che prima o poi una guerra scoppi. "Anche se sarebbe più economico eliminare Saddam con una sola pallottola", scherza macabro Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca, alludendo all'ingaggio di un possibile sicario. Quanto a chi accusa il petroliere Bush di far guerra per il petrolio, Peter Beinart del prestigioso settimanale New Republic risponde drastico: "E allora? Ci mancherebbe che non difendessimo i nostri interessi. A tutti piace pagare poco la benzina".
Mauro Suttora