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Wednesday, August 11, 2010

Cocaina a Milano

DOPO IL SEQUESTRO DELL'HOLLYWOOD, VIAGGIO NELLE NOTTI BIANCHE DELLE DISCOTECHE

Oggi, 4 agosto 2010

di Mauro Suttora

È qui la coca? Mezzanotte, venerdì sera, Milano, parco Sempione. Nel ristorante della discoteca Old Fashion intime coppie e allegre tavolate stanno finendo la cena. Fra un po’ si sposteranno nel dehors sotto il bel palazzo in mattoni rossi della Triennale. Sta per cominciare la musica, o almeno quel ritmo di rumori ossessivi che l’ha sostituita nelle discoteche.

È il primo week-end di agosto, ma ci sono ancora giovani eleganti in giro per Milano. Gli argomenti di conversazione sono due: dove si va in vacanza, e l’Hollywood. Il locale più alla moda della città, appena chiuso per droga. Che ha fatto notizia non per la droga, ovviamente: quella scorre a fiumi e nei fiumi finisce, secondo le analisi delle acque del Po. Gira nei locali notturni dai tempi dello scandalo al Number One, via Turati, primi anni ’70. E non solo: «Diecimila dosi consumate ogni giorno a Milano, 15 mila nei fine settimana, anche da manager», calcola meticolosa la Asl.

Ora però per la prima volta un magistrato svela una verità più imbarazzante: spacciatori (di coca a 50 euro per sniffata) e protettori (di escort a 300 euro per notte) erano protetti da capi di vigili, poliziotti e dirigenti comunali. Quelli che danno le licenze, e le possono togliere in due minuti con qualsiasi scusa (lo storico Nepentha chiuso perché c’era troppa gente).

Come a Chicago sotto Al Capone, ormai in mezza Lombardia comandano i mafiosi: notizia di un mese fa. La ’ndrangheta non solo fa i miliardi con la droga, ma compra direttamente le discoteche e le usa per nasconderci le pistole dei suoi killer. Il tutto a pochi centimetri dai nasi e dai seni della gente più invidiata d’Italia: le donne più belle (Belen Rodriguez, Elisabetta Canalis, Fernanda Lessa), gli uomini più ricchi (industriali, politici, figli di papà), i calciatori più famosi.

Nella penombra attorno all’Old Fashion, e al vicino Just Cavalli, si aggirano arabi e sudamericani. Non spacciano: chiedono cinque euro a ogni auto che parcheggia. Entriamo. L’anno scorso l’Old Fashion, aperto anche d’estate perché provvisto di giardino, aveva aggiunto Hollywood al proprio nome, per indicare un gemellaggio con il più famoso locale solo invernale. Ora la scritta è convenientemente sparita. Sono rimasti gorilla e buttafuori, facce orrende ma necessarie anche per - in teoria - proteggere la «bella gente» proprio da spacciatori e altri malintenzionati. A meno che - come ha scoperto il pm Frank Di Maio - anche loro non facciano parte del «giro», coordinati da poliziotti fuori servizio in vena di arrotondare, offrendo ai clienti ogni piacevole illegalità e impunità.

Nessuna traccia di traffici strani nei bagni dell’Old Fashion. E ci mancherebbe, proprio in queste notti. Anzi, energumeni occhiuti controllano il viavai attorno ai bagni. Stessa scena, più o meno, negli altri sette locali che abbiamo visitato, fino alle quattro del mattino: Just Cavalli e Bar Bianco al parco Sempione, Crazy Jungle in via Cavriana, e all’Idroscalo il Jardin au bord du lac, Papaya, Borgo Karma e Solaire. Quest’ultimo, con una bella terrazza, riaperto e ripulito dopo la passata gestione delle cosche calabresi.

Migliaia di giovani arrivano in auto ogni venerdì e sabato sera, come in tutta Italia. Un’industria da centinaia di milioni di euro. All’Idroscalo servizi d’ordine numerosi ed efficienti chiudono un occhio ed entrambe le narici di fronte a qualche nuvola di fumo dolciastro proveniente da gruppi di ragazzi che spinellano. All’Idroscalo i «privé» (zona riservata per vip, poltrone solo a chi compra bottiglie di champagne da cento euro) sono una simpatica imitazione di quelli di corso Como. Ma ogni disco che si rispetti deve averlo, il privé, per sembrare esclusiva anche se frequentata da proletari, e mai nessun premier ci farà un salto come invece capitò all’Hollywood tre anni fa.

Nell’immenso parcheggio del Papaya, locale popolare per diciottenni dove si entra gratis senza consumazione obbligatoria da 15 euro (negli altri locali mai una ricevuta fiscale, ma questo è un altro discorso, o forse lo stesso), trovo infine un piccolo spacciatore. Gli chiedo cocaina. Ha solo hashish. Droga leggera. Sembra di tornare al liceo, trent’anni fa. È arabo, vuole 50 euro. Trattiamo, compro a trenta.

Niente di più libero e facile: è la farsa del proibizionismo. Che infatti sia a sinistra (Michele Serra) sia a destra (Sergio Romano) è in questi giorni definito inutile. Viene in mente Robert De Niro in C’era una volta in America. Ricordate? Quando il presidente Roosevelt legalizzò i liquori, lui e i suoi amici mafiosi si ritrovarono senza lavoro. E ora vogliamo creare disoccupazione, con la crisi che c’è?...
Mauro Suttora

Friday, June 20, 2008

Festa del cinema a Roma

La Capitale del debito fa pure la Festa del Cinema

Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori

di Mauro Suttora

Libero, 20 giugno 2008

Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.

Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.

Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.

Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.

Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.

Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.

E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).

Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…

Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?

La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?

A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.

Mauro Suttora