Solo spagnoli, greci e portoghesi guadagnano meno degli italiani
di Mauro Suttora
Roma, 24 ottobre 2007
C’è un malessere generale in Italia. Molti, moltissimi, hanno la sensazione che il loro lavoro non venga compensato adeguatamente. La scorsa estate un’indagine della Od&m su 5.600 dipendenti ha rivelato che l’80 per cento ritiene troppo basso il proprio stipendio rispetto al ruolo e all’esperienza accumulata.
Ancora peggio la valutazione rispetto all’impegno profuso: l’87 per cento si dichiara insoddisfatto. E non sono le solite lamentele, perché la rabbia aumenta guardando ai risultati delle aziende in cui si lavora: quasi tutte hanno ottenuto ottimi risultati, accumulando decine di milioni di profitti per gli azionisti. Insomma, l’economia va a gonfie vele, ma il ricco bottino non viene diviso equamente.
«È una situazione insostenibile», dichiara a Oggi Raffaele Bonanni, segretario Cisl, «che rischia di rompere il patto sociale di equità previsto dalla nostra Costituzione. Per questo il sindacato a metà novembre adotterà un’iniziativa molto forte». Scioperi? Rivendicazioni salariali? Richieste d’aumento ai padroni? No, precisa Bonanni: «Dobbiamo convincere il governo ad abbassare le aliquote dei lavoratori. In Italia sul lavoro dipendente pesa l’80 per cento dell’intero carico fiscale. Si tratterà di una vera e propria battaglia per l’equità».
Insomma, inutile chiedere aumenti se poi, ogni cento euro ottenuti, oltre la metà se ne va fra Irpef (che ora si chiama Ire, Imposta sul reddito) e contributi pensionistici, i quali però servono a pagare le pensioni di oggi: poco viene accantonato per quelle di domani. E non è finita qui, perché sui 40-50 euro rimanenti dobbiamo pagare un’Iva media del venti per cento ogni volta che compriamo qualcosa: le imposte sui consumi variano infatti dal quattro per cento su generi agevolati come alimentari e giornali, all’incredibile 65% della benzina (cominciò Mussolini a tassarla nel 1935, con la scusa che bisognava finanziare la guerra d’Etiopia).
Stretta nella tenaglia fra stipendi troppo bassi e tasse troppo alte, la classe media sta scomparendo. «Oggi in Italia, sempre di più, o si è ricchi o si è poveri», ha sintetizzato l’ultimo rapporto Censis. La fine del ceto medio: il titolo del libro scritto due anni fa da Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi si è rivelato profetico. Guardate la tabella che pubblichiamo (qui accanto): professioni che fino a 20-30 anni fa garantivano una buona posizione sociale (professori, impiegati, bancari) sono pian piano scivolate in fondo alla classifica.
«Il malcontento che si registra tra i lavoratori dipendenti deriva dagli aumenti vertiginosi di prezzi al consumo e delle tariffe», spiega Bonanni, «con ricadute pesantissime sui bilanci familiari. Ma nessuno ha avuto la forza di contrastare i monopoli. Per questo vogliamo sgravi già in questa finanziaria per tutti i lavoratori dipendenti».
E pensare che molti lavoratori autonomi e tutti quelli precari invidiano chi ha comunque un posto fisso. Che vuol dire tranquillità psicologica, possibilità di programmare le spese, imposte e contributi Inps pagati dal datore di lavoro. Niente rischi, insomma, e lo stipendio garantito a fine mese.
«Ma ormai le buste paga sono ridotte a una miseria», denuncia Elio Lannutti dell’associazione consumatori Adusbef, «dopo la crisi innescata dall’euro. In questi sei anni, dal 2001 a oggi, si è verificata una speculazione senza precedenti da parte di chi ha potuto alzare indisturbato i prezzi, ai danni dei percettori di reddito fisso. Che quasi non se ne sono accorti, perché i commercianti hanno ottenuto di eliminare quasi subito i doppi prezzi in lire ed euro. Abbiamo calcolato in settanta miliardi di euro il trasferimento di ricchezza forzoso da questi ultimi ai primi».
È uno stillicidio che prosegue anche in queste settimane. Chiunque di noi, andando a fare la spesa, si accorge dei nuovi aumenti. Che ci costerano in media 700 euro all’anno, hanno calcolato le associazioni dei consumatori: dai venti euro in più per la revisione obbligatoria dell’auto (passata da 40 a 60 euro), all’aumento del bollo anche per auto piccole come la Panda (15 euro), fino al raddoppio per la pasta. «Le speculazioni più odiose avvengono nella filiera agroalimentare e nelle banche», avverte Lannutti. «Le intermediazioni di trasportatori e grossisti, per esempio, fanno aumentare l’uva da tavola pugliese dai 35 centesimi al chilo pagati ai produttori ai due euro dei nostri negozi. Quanto alle banche, basta osservare i loro utili record per accorgersi di quanti soldi prelevano dai nostri conti correnti e mutui».
Che fare, allora? «Il governo Prodi deve abbassare le aliquote Irpef», dicono sia Bonanni che Lannutti, «e non limitarsi a diminuire il prelievo sulle imprese». Particolarmente odiosa risulta l’aliquota minima del 23 per cento, che colpisce quei due italiani su tre che guadagnano meno di 1.300 euro al mese, e perfino i pensionati da poche centinaia di euro al mese. Poi, non deve più allargarsi la disparità fra gli stipendi: come si legge nella tabella, oggi gli impiegati in media quadagnano un quarto rispetto ai dirigenti. Ma fino a sei anni fa la differenza era di un terzo: si è quindi verificato un crollo dei redditi più bassi.
«Ho avvertito i rappresentanti delle banche: “Vi correranno dietro con i forconi”», minaccia Lannutti, «quando scopriranno che nei vostri forzieri conservate decine di miliardi di euro di fondi dormienti. Sta aumentando l’insofferenza contro la casta, non solo dei politici, ma anche di banche, assicurazioni e aziende che ottengono dal governo gli sgravi fiscali su Ires e Irap negati ai comuni cittadini».
Le detrazioni previste dalla Finanziaria, infatti, sono minime. Per esempio, quelle tanto sbandierate per i ventenni che affittano una casa (i «bamboccioni» derisi dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) si riducono a 40-80 euro al mese, a fronte di monolocali affittati a 500 euro e più al mese nelle grandi città. Giovani e studenti, come tutti, si aspettano misure più consistenti.
Mauro Suttora