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Friday, May 05, 1989

Nella Siria cacciata dal Libano

Perché Hafez Assad non vuole ritirarsi dal Libano

IL LEONE DI DAMASCO

Ha saputo giostrare contro 1000 avversari. Ha fatto della Siria la maggior caserma del Medio Oriente. Ma oggi che le sue folli spese militari hanno dissanguato il Paese, tutto il mondo arabo lo sta isolando. E l'Irak pensa già alla vendetta

dal nostro inviato a Damasco Mauro Suttora

Europeo, 5 maggio 1989

Il tassista ferma la sua grande e scassata Chrysler gialla anni Sessanta, si volta e sorride. Fa quel gesto, con le dita della mano riunite all'insù, che da noi significa "che vuoi?" e fra gli arabi "aspetta". Apre la portiera, esce dalla macchina e se ne va a contrattare il prezzo di due caschi di banane da un ambulante lungo la strada. 

Siamo a Chtaura, nella verde vallata libanese della Bekaa. Stiamo fuggendo da Beirut insanguinata in quattro, io e tre musulmani libanesi, su un taxi collettivo. Andiamo verso Damasco, verso un tetto sicuro, insieme a centinaia di altri profughi di Beirut ovest, stanchi della roulette russa dei bombardamenti. 

Anche Chtaura viene bombardata dai cannoni del generale cristiano Michel Aoun, che da un mese e mezzo osa sfidare i 40 mila soldati siriani in Libano. I missili e le bombe dei mortai da Beirut est, superato il monte Libano, piombano anche qui, nella speranza di colpire le postazioni siriane che da 13 anni controllano la grande vallata, la Bekaa di fatto annessa alla Siria: mezzo Libano. Chtaura ne porta i segni. Muri sfondati attraverso cui occhieggia il cielo, sacchetti di sabbia davanti alle vetrine, nastri di scotch che cercano di impedire che i vetri cadano a pezzi. 

Il tassista siriano torna indietro con le sue banane Dole, "product of Ecuador", molto più grosse delle banane locali. Forse le bananine mediorientali rimangono così rachitiche perché non sono trattate con tiabendazolo, come indicato sulle Dole. Fatto sta che queste ultime finiscono nel bagagliaio del taxi, confondendosi con i nostri bagagli. 

Prima della frontiera, nello spazio di 20 chilometri, il tassista ci pregherà di aspettare altre quattro volte: per comprare due taniche metalliche d'olio, una confezione gigante di fazzoletti di carta, altre banane, una stecca di sigarette. Smette solo quando nel bagagliaio non sta più neppure uno spillo. Proprio questa sua spesa forsennata spiega molte cose: le ragioni per cui la Siria si è impadronita del Libano (il 70 per cento del territorio e tutte le città più importanti: Beirut ovest, Tripoli, Tiro, Sidone), come mai non voglia andarsene e anche perché sia in perenne crisi economica. I beni di consumo che il tassista si è assicurato, infatti, sono un po' un simbolo: quello di una Siria per cui era insopportabile avere, tra sé e il mare, un paese piccolo, libero e ricco come il Libano. 

I soldati siriani, calati dalle montagne del Jebel Ansarié (la patria alauita del dittatore di Damasco , Hafez Assad), o arruolati fra i beduini del deserto, si sono impadroniti del raffinato Libano con la stessa fame, la stessa rabbia, lo stesso complesso di inferiorità di un barbaro di fronte a Roma. Beirut, ex emporio miliardario, dopo 14 anni di martirio riesce ancora ad offrire ben più della Siria. 

Una conferma mi verrà, arrivato a Damasco, da una visita al suk nella città vecchia. Quello che un tempo era il bazar più ricco e sfavillante del Medio Oriente dopo il Gran Bazar di Istanbul è ridotto a due misere gallerie maleodoranti. Poca e povera la merce esposta. Solo i tessuti di cotone e gli abiti tradizionali vi portano una nota multicolore. Già: è grazie all'industria tessile che la Siria può assicurarsi ancora le forniture di armi sovietiche; Mosca gliele dà in cambio di prodotti di cotone, mentre considera la valuta siriana carta straccia. Come il resto del mondo. 

Nella galleria principale del suk, quella che porta alla grande moschea degli Ommayadi, i commercianti disponibili a scambiare quattro chiacchiere sono pochi. La polizia politica di Assad è assai occhiuta, i militari sono dappertutto. Il regime non tollera critiche e lamentele. Ha dovuto risparmiare di malavoglia il comico Duraid Laham che lo mette alla berlina, perché è protetto da una popolarità a prova di bomba. Finalmente, mentre compro di che radermi in una misera bottega di chincaglieria, il negoziante sibila in francese: "Il nostro problema? Che buttiamo il 65 per cento delle spese di bilancio nella difesa". 

Sono forze armate ipertrofiche, quelle siriane: mezzo milione di soldati su nove milioni di abitanti. Un modo per impiegare disoccupati che sarebbero cronici, ma anche un grande serbatoio di popolarità e un cuscinetto di sicurezza per Assad. "Questa gente", spiega un diplomatico occidentale, "Assad doveva pure impiegarla. Non potendo farlo contro Israele, dopo le batoste del '67 e dell'82, ha pensato bene di offrire 'un aiuto fraterno' al Libano".

La Siria ha sempre considerato il Libano parte della "Grande Siria": non ha mai aperto ambasciate a Beirut, né richiesto passaporti per passare la frontiera. Lo stesso Assad ha goduto dell'ospitalità libanese ai tempi in cui era un giovane militante del partito Baas che complottava per impadronirsi del potere a Damasco. All'indomani del golpe fallito, nel marzo del '62, fu però arrestato a Tripoli, tenuto in prigione 9 giorni e infine estradato.

C'è chi dice che questa disavventura gli abbia messo in corpo il desiderio di vendetta. Ma sono voci, interpretazioni che filtrano attraverso la pesante cortina di un culto della personalità da antico satrapo d'Oriente. "In realtà", lo descrive Karim Pakraduni, un dirigente libanese che ha negoziato a lungo con lui, "Assad è molto razionale. Da buon pilota militare abbraccia le cose dall'alto: con un colpo d'occhio individua dettagli e bersagli. E dopo aver colpito, si ferma a riflettere, negoziare, esplorare. Fino al colpo successivo". 

Proprio grazie a questa tecnica, otto secoli dopo Saladino, Damasco ha ritrovato un padrone assoluto. Nato nel 1928 sulle aride montagne della regione alauita, allora autonoma dalla Siria e governata dai francesi, Assad scende a studiare sulla costa, a Latachia. A 24 anni, come molti altri membri della minoranza alauita, fulcro dell'esercito siriano, entra all'accademia militare di Homs. Stages in Urss, espulsione dall'esercito, esilio al Cairo dove vive il suo idolo, Nasser. 

Nel '66, dopo un colpo di Stato, torna e viene nominato ministro della Difesa. E nel 1970, "grazie" ai palestinesi, diventa presidente: rifiuta infatti di difendere i fedayn sterminati dalla Giordania durante il Settembre Nero, e ciò offre al presidente Salah Jedid il destro di sostituirlo; ma Assad è più rapido e sostituisce lui il presidente. 

"C'e' da stupirsi?", si chiede il diplomatico con cui parliamo di tutto ciò. "Il Medio Oriente abbonda di questi colpi di scena… Certo, nella vita di Assad ce ne sono più che nella media. Basta pensare allo scherzo che il destino ha fatto al Libano, dove nel 1976 furono i cristiani a chiamare Assad perché eliminasse i fortini costruiti dall'Olp intorno a Beirut, dopo l'espulsione dalla Giordania. Assad distrusse il campo profughi palestinese di Tall el Zataar, ma subito dopo tradì i cristiani libanesi. Fece anche eliminare il capo dei drusi, Kamal Jumblatt. E non è vero che oggi il figlio di Kamal, Walid, è il miglior alleato di Assad? Assad vuol dire leone in arabo".

La parte del leone si attaglia perfettamente alla Siria, che è oggi, dopo la dichiarata intenzione del Vietnam di andarsene dalla Cambogia, l'unico Paese al mondo ad occupare un altro Paese: appunto il Libano, preda che non intende mollare. Naturalmente questo ha isolato la Siria anche nel contesto arabo. 

Se si considerano i complicati rituali che regolano la cosiddetta "nazione araba", non è senza significato che Damasco non faccia parte di alcuna organizzazione economica. Passi per il Magreb, per cui valgono considerazioni territoriali (ne fanno parte Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania) e passi, per analoghe ragioni, il Consiglio di cooperazione del Golfo nato nel 1980 (Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Bahrein, Emirati e Qatar). Ma la Siria non è stata neppure chiamata a far parte del Mashrek , l'organizzazione nata nel febbraio 1989 tra Irak, Egitto, Giordania e Yemen del Nord. 

L'accordo di formazione è stato siglato a Bagdad e si dice che l'Irak l'abbia condizionato alla non partecipazione della Siria. Il che è comprensibile, data l'inimicizia tra i due partiti Baas. Ma è abbastanza grave per il regime di Assad (ormai legato solo all'Iran, musulmano ma non arabo e di volubili alleanze). Infatti, attraverso le anodine alleanze economiche passano sotterranee correnti politiche: per esempio l'Irak ha fornito alla Giordania 150 carri armati per mantenere l'ordine interno, e dire Giordania vuol dire Arabia Saudita. Non solo: sempre in Irak ci sono molti campi militari di Fatah, la corrente dell'Olp che fa capo ad Arafat. Il che vuol dire, per Assad, trovarsi contro anche l'Egitto. 

Ma il regime non sembra preoccuparsene. Damasco, dopo l'inferno di Beirut, è un'oasi di calma. Passeggiare per i suoi verdi giardini è un piacere. All'Hadykat Zanoubie, sulla riva del laghetto nel parco, un gruppo di soldatesse scherza. Altre ragazze, nessuna porta il chador in un momento di fervore islamico, camminano a braccetto. Sono un altro indice dell'abilità di Assad: qui la donna ha gli stessi diritti, almeno sulla carta, dell'uomo.

I radicali musulmani sono solo un ricordo (Assad provvide a farne eliminare migliaia in una sanguinosa purga ad Hama, nel 1982). La libertà di culto è assicurata. Perfino la minoranza cristiana, il 12% della popolazione, vive in pace. Tanto che quando vado, di domenica, a cercare un funzionario cristiano amico al ministero degli Esteri, sicuro di trovarlo (la giornata di festa canonica dei musulmani è il venerdi), mi dicono che non c'è: è a messa. 

Parlo con un suo collega musulmano e gli chiedo provocatoriamente come mai dappertutto a Damasco si incontrino militari. "È solo perché siamo in zona di confine", mi spiega un po' confuso. Comunque è vero. Israele è lì, sul Golan occupato dal 1967 e annesso nel 1981, ad appena 90 chilometri. Nel 1982 ha distrutto in pochi minuti tutte le postazioni di missili sovietici installate dai siriani nella Bekaa. E ancor oggi lancia indisturbato, ogni due-tre settimane, raid chirurgici punitivi contro le basi militari palestinesi che i siriani tollerano nel Libano del sud. "Da qui", mi dice un cameriere in un bar sul monte Cassiun che domina Damasco (dove Assad vorrebbe farsi costruire un faraonico palazzo presidenziale, bloccato dall'86 per mancanza di fondi), "ogni tanto si vedono bagliori lontani. I razzi israeliani". 

Sono 41 anni che la Siria combatte Israele. E questo perfino per uno Stato caserma, privo degli elementari diritti civili (parola, stampa, riunione, associazione, da tutte le copie dei giornali stranieri venduti negli hotel vengono sforbiciati gli articoli sulla Siria), è troppo. "Se non fossimo in guerra con Israele", s'era lasciato sfuggire al ministero degli Esteri il funzionario musulmano, "il mio stipendio sarebbe cinque volte superiore". 

È un altro elemento per capire la determinazione della Siria a non andarsene dal Libano, pompa d'ossigeno per dare un po' di respiro a un moribondo economico. "S'e' mai chiesto", mi domanda un diplomatico francese, "come mai la causa scatenante dell'ultima guerra in Libano, l'8 marzo, sia stato il tentativo di Aoun di ripristinare il controllo statale sui porti? Significava il blocco del contrabbando, dell'import-export illegale. Ha fatto infuriare un po' tutti, ma specialmente drusi e siriani. Probabilmente perché sono proprio loro ad esercitare il traffico di droga e armi. Secondo la polizia inglese, i due terzi della droga sequestrata in Gran Bretagna vengono dai porti turco ciprioti, proprio di fronte a Tripoli, controllata dai siriani. Del resto, a fine marzo è stata sequestrata in Mediterraneo una nave siriana carica di stupefacenti. Veniva dal Libano? Sa, la Bekaa è piena di coltivazioni di hashish e papavero". 

Una storiaccia. Non peggiore, però, di tante altre che circolano qui a Damasco. Dove si è addirittura calcolato che la metà della produzione annuale di grano siriana viene venduta illegalmente in Turchia, invece di affluire nei magazzini dello Stato "socialista". La gente così fa la coda per accaparrarsi beni di consumo primario e la valuta al mercato nero ha valore di un quarto rispetto al cambio ufficiale. 

Per soffocare il malcontento, lo spettro del grande nemico, Israele, serve a meraviglia. Perfino ad Assad, che non viene certo da una famiglia antisionista. Ecco infatti quel che scriveva il nonno di Assad, Solimano, il 15 giugno 1936 in un appello al premier francese Leon Blum: "I bravi ebrei hanno portato civiltà e pace agli arabi musulmani". 

Solimano cercava di convincere i francesi a proteggere le minoranze presenti in Siria e Palestina sotto l'occupazione franco-inglese. E fra le minoranze, oltre agli ebrei, c'era allora anche la famiglia del piccolo Assad: gli alauiti, l' 11 per cento dei siriani, che avrebbero voluto anche loro l'indipendenza dalla Siria o, al massimo, l'inclusione nel Libano. Ma in questo modo la Siria avrebbe perso ogni sbocco al mare. 

Dispute storiche che gettano la propria ombra anche sulle vicende di oggi. Per quanto tempo la minoranza alauita di Assad riuscirà a tenere in pugno la Siria con la sua maggioranza sunnita? L'uomo forte di Damasco è al potere da 19 anni, ma oggi tutto sembra congiurare contro di lui: il mondo intero si commuove alla tragedia di Beirut, la diplomazia è in movimento, perfino la Lega araba sembra rinnegare Damasco. 

E la Siria, per di più, appoggia gruppi palestinesi come quello di Ahmed Jibril sospettato di aver fatto esplodere l'aereo Pan Am a Natale. I rapporti con la Gran Bretagna sono ancora interrotti dopo l'"affare Hindaui" dell' 86 (attentato fallito contro un aereo El Al a Londra, commissionato dal capo dei servizi segreti siriani). Soprattutto, adesso a Mosca c'è Gorbaciov. E se i sovietici hanno bisogno della base navale siriana di Tortosa (Tartus), non è detto che vogliano continuare per sempre ad armare la caserma più bellicosa del Medio Oriente. 

Nella hall del mio albergo, lo Sham, c'è una carta geografica. Il nome di Israele non compare neppure. Vi compare invece quello dell'Irak, con il quale è molto più probabile che la Siria si trovi a fare presto i conti. Saddam Hussein non ha dimenticato che Assad è stato l'unico alleato arabo dell'Iran nella guerra del Golfo, né che tra l'80 e l'81 una decina di diplomatici iracheni nella zona musulmana di Beirut hanno subito attentati; il 15 dicembre '81 veniva addirittura ucciso l'ambasciatore Razzak Lafta. 

"Allora", mi ha detto a Beirut un comandante cristiano, "Saddam Hussein era impelagato nella guerra del Golfo. Oggi non più. E ha già cominciato a saldare i conti mandando ai falangisti cristiani di Samir Geagea un centinaio di carri sottratti agli iraniani". "Se i siriani non se ne andranno, chiameremo gli iracheni", aveva avvertito il generale Aoun. C'è da chiedersi se la questione libanese non verrà regolata da Bagdad dall'altro "ragazzo terribile" del Baas, capo di un'altra grande caserma del Medio Oriente.
Mauro Suttora