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Friday, January 01, 2021

Dalai Lama, il mondo in campo per 'garantire' la successione

LA CINA VIOLA LA LIBERTA' RELIGIOSA IN TIBET

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 gennaio 2021

Il 6 luglio 2021 il Dalai Lama compie 86 anni. Guida i buddisti tibetani da quando ne aveva 15: batte anche la regina Elisabetta con i suoi 70 anni di durata (in esilio dal 1959). E nella storia è superato soltanto dai 72 anni del regno di Luigi XIV.

Ma nessuno è immortale, quindi è aperta la sua successione. Il regime cinese, che occupa il Tibet dal 1950, pretende di approvare la nomina del prossimo Dalai Lama, così come fa con i vescovi cattolici. Ma mentre il Vaticano ha abbassato la testa in questa anacronistica lotta per le investiture in ritardo di nove secoli sull'Europa, i tibetani non ne vogliono sapere di sottostare ai diktat comunisti.

I precedenti sono agghiaccianti. L'ultima volta che i buddisti hanno osato designare un Lama da soli, nel 1995, la Cina lo ha rapito, nominandone un altro fedele al regime. Non si sa più nulla dello sventurato Panchen Lama, che allora aveva sei anni e oggi ne avrebbe trenta.

Per evitare che il misfatto si ripeta, il 27 dicembre negli Stati Uniti è entrato in vigore il Tpsa (Tibetan policy and support Act), legge bipartisan che protegge il diritto dei buddisti tibetani a scegliere il loro prossimo Dalai Lama senza interferenze da parte della Cina. I governanti di Pechino che cercassero di nominarlo saranno colpiti da sanzioni. È auspicata una soluzione negoziale fra la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama, ma intanto si vieta l'apertura di nuovi consolati cinesi negli Usa finché Pechino continuerà a vietare un consolato statunitense a Lhasa, capitale del Tibet. Vengono finanziati progetti umanitari dentro e fuori dal Tibet. E si elogia la democratizzazione del governo tibetano in esilio: il Dalai Lama dal 2011 ha trasferito l'autorità politica a Lobsang Sangay, primo premier laico regolarmente eletto. Il quale ha ribadito che non chiede più l'indipendenza del Tibet, ma soltanto l'autonomia.

Fra i principali artefici del Tibet Act, il primo dopo quello del 2002 che dettava la politica statunitense sulla regione oppressa, c'è l'Ict (International Campaign for Tibet), la fondazione di Richard Gere guidata da sette anni da un italiano: il 45enne Matteo Mecacci, deputato radicale fino al 2013, ora nominato segretario generale per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Gere è stato invitato dal Senato Usa in giugno a parlare sull'argomento.

"Sappiamo che il governo cinese non cambierà il suo atteggiamento sul Tibet solo per questa legge", commenta Mecacci, "ma il Tpsa chiarisce che la libertà religiosa è importante, e che ci saranno conseguenze concrete se Pechino continuerà a violarla".    

Nel 2007 la Cina ha introdotto nuove regole sulla nomina dei Lama 'reincarnati', e i governanti di Pechino ripetono in ogni occasione che spetta a loro selezionarli. Ma il Dalai Lama ha avvertito che la reincarnazione potrà avvenire solo in un contesto di libertà, come quello dell'India dove vive in esilio dopo la fuga dalla dittatura. E che nessuno rispetterà un eventuale futuro Dalai Lama imposto dalla Cina.     

Lo scorso luglio per la prima volta Washington ha vietato l'entrata negli Usa ai gerarchi cinesi accusati di avere impedito a cittadini statunitensi l'accesso al Tibet. In settembre Joe Biden ha dichiarato che anche la sua amministrazione difenderà il popolo tibetano, che lui incontrerà il Dalai Lama, finanzierà i programmi in lingua tibetana di Radio free Asia e Voice of America, e che assieme agli alleati premerà su Pechino affinché riprenda il dialogo diretto con i rappresentanti tibetani per arrivare a una "genuina autonomia".

Cosa farà ora l'Europa? Josep Borrell, capo della politica estera Ue, ha dichiarato che anche l'Unione si oppone a ogni interferenza cinese sulla successione al Dalai Lama. Ma finora soltanto Belgio, Germania e Olanda hanno espresso posizioni simili. Manca l'Italia, e soprattutto mancano strumenti concreti ed efficaci per prevenire la malefatta annunciata.

Mauro Suttora

Wednesday, December 22, 2010

La guerra mondiale di Wikileaks

Ecco perché i corsari informatici sono forti e imprendibili

di Mauro Suttora

Oggi, 15 dicembre

È scoppiata la terza guerra mondiale e non ce ne siamo accorti? Da quando, il 28 novembre, Wikileaks ha cominciato a svelare i 251 mila cablogrammi segreti inviati negli ultimi anni dai diplomatici degli Stati Uniti in tutto il mondo, ogni giorno scoppia un putiferio. Perché, molto furbamente, i seguaci di Julian Assange hanno deciso di centellinare le rivelazioni. L’ultima, che ha provocato grande costernazione in Vaticano, riguarda il segretario di Stato Tarcisio Bertone, numero due del Papa, definito «inadeguato» dai diplomatici americani. Ma molti altri imbarazzanti segreti verranno alla luce nelle prossime settimane: basti dire che finora sono stati pubblicati appena 1.340 documenti sul quarto di milione in possesso dei pirati informatici.

“Pericolosi come Osama”

Ma come funziona Wikileaks? E chi c’è dietro a questi «guerrieri della trasparenza» che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha definito «pericolosi quanto Osama Bin Laden»? Diciamo subito che, proprio come Al Qaeda, la struttura di Wikileaks è decentrata. Si illudono, quindi, coloro che pensano di bloccarla incarcerando il capo, Assange, o chiudendo fisicamente i computer. I due server ospitati a Stoccolma nel bunker antiatomico della società Prq, infatti, sono solo una goccia nel mare di internet.

Qualche nostro tg li ha mostrati, spacciandoli per il «cervello» di Wikileaks. Ma è solo sensazionalismo. Quella stessa società, infatti, ospita altri 8mila server. E Wikileaks può contare su centinaia di «siti-specchio» che entrano automaticamente in funzione appena ne viene disattivato uno. Lo stesso Assange ha avvertito: «Altre centinaia di militanti, oltre a me, posseggono l’intero file di 251 mila documenti, e lo rilasceranno se dovesse capitarmi qualcosa».

“Contenuto esplosivo“

Ma qual è il vero valore di questi documenti segreti? È vero che riscrivono la storia contemporanea, o sono soltanto una rimasticazione di articoli di giornale copiati da pigri incaricati di affari nelle ambasciate? In alcuni casi il contenuto è esplosivo, e quindi e' giusto il paragone con una guerra mondiale. Non però la terza: quella è già stata vinta dall’Occidente contro il comunismo nel 1989. E neanche la quarta, cominciata nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle da parte dei fanatici islamici, e ancora in corso. È la quinta o sesta, assieme all’altro grande conflitto dei nostri giorni: quello fra mondo libero e Cina.

Però i ragazzi di Wikileaks sono occidentali, quindi la definirei una guerra civile, anche se nonviolenta. È un conflitto interno alle democrazie, fra chi pensa che anche i nostri stati debbano conservare segreti, e chi invece vuole esporre tutto.

Non dimentichiamo però che fra i fondatori di Wikileaks, nell’ottobre 2006, ci sono anche importanti dissidenti cinesi: Wang Dan, leader degli studenti di Pechino massacrati in piazza Tian an men nell’89, e Xiao Qiang. Inizialmente, quindi, l’intento di Assange e soci era quello di smascherare i segreti di tutti i governi. Ed è ovvio che le dittature ne hanno molti di più, e più sanguinosi, dei regimi democratici.

Perché, allora, quasi tutte le rivelazioni finora riguardano gli Stati Uniti? Prima ci fu il filmato in cui si vedono le truppe Nato uccidere un giornalista in Afghanistan. Poi, l’estate scorsa, i documenti del Pentagono con l’ammissione ufficiale di avere ammazzato 60 mila civili innocenti nella guerra d’Iraq. E se dietro Wikileaks ci fosse la Cina o la Russia, o qualche altro avversario degli Usa?

Non credo che gli hackers di Wikileaks siano manipolati. Politicamente sono anarchici che si battono contro il potere a 360 gradi. Hanno già preannunciato rivelazioni sulle grandi banche. E se avessero documenti segreti cinesi sulla repressione in Tibet o contro Falun Gong, non esiterebbero a divulgarli. Il problema è che finora non c’è stato nessun funzionario pentito di Pechino che gliel’ha passati.

Sì, perché in realtà Wikileaks non ha mai rubato alcun documento. Si limita, come da statuto, a pubblicare, dopo averli verificati, quelli in arrivo (gratis) da persone che per un qualsiasi motivo decidono di tradire il vincolo di segretezza che li lega all’organizzazione per cui lavorano. Quindi, il vero colpevole dell’attuale terremoto è il soldato americano 22enne che ha passato i files ad Assange, e che è in carcere per spionaggio.

Giuridicamente, Wikileaks è colpevole di un unico reato: ricettazione. Magari di ricettazione attiva, o di istigazione al furto e allo spionaggio, perché invita pubblicamente i dipendenti pentiti a rivelare le magagne della propria azienda, o ministero. E si può immaginare quanti siano coloro disposti a farlo, magari per vendicarsi di essere stati licenziati, o frustrati per una mancata promozione o aumento di stipendio... E sapere che c’è lì Wikileaks pronta a fare giustizia rappresenta un incentivo formidabile.

Coinvolgere i principali giornali mondiali è stata la mossa più intelligente di Assange. Li ha coinvolti - ed è preoccupante che ce ne sia uno spagnolo, El Pais, ma nessuno italiano - ottenendo così una patente di veridicità che non avrebbe avuto da solo. Li ha anche messi uno contro l’altro, suddividendo equamente il materiale. Cosicché, per la legge della concorrenza, nessuno si è sognato di censurare parzialmente o di non pubblicare: lo avrebbe fatto qualcun altro.

Il direttore del New York Times Bill Keller ha fatto vedere i documenti al governo Usa prima di pubblicarli, e ha cancellato alcuni nomi. Il NY Times è il più esposto, perché è l’unico giornale americano. Ma, a proposito di mandanti, non mi meraviglierei se dietro alla fuga di notizie più imponente della storia ci fosse qualche repubblicano che vuole danneggiare il presidente Obama e Hillary Clinton.

Mauro Suttora

Wednesday, August 27, 2008

Pechino, bilancio politico

Nessuna medaglia per i diritti civili
L' organizzazione è stata impeccabile, ma la libertà resta un miraggio

dal nostro inviato Mauro Suttora

Pechino, 25 agosto 2008

Le Olimpiadi sono state un successo per la Cina. Bene organizzate, hanno lasciato soddisfatti tutti: atleti, spettatori, telespettatori, i 20 mila giornalisti piombati a Pechino da tutto il mondo. Ma la gentilezza ed efficienza dei 100 mila volontari non possono farci dimenticare che la Cina è ancora una dittatura. Qui i governanti incarcerano chiunque osi parlare, protestare, criticare i capi del partito unico, stampare un giornale. Prima delle Olimpiadi le autorità avevano annunciato che chi voleva manifestare avrebbe potuto farlo, chiedendo il permesso alla polizia, in tre parchi di Pechino. Risultato: due vecchiette di 77 e 79 anni sono state condannate a un anno di "rieducazione al lavoro" perché avevano richiesto il permesso. Volevano protestare contro lo sfratto subìto per le Olimpiadi.

La lista delle malefatte dei dittatori cinesi è lunga: dopo la strage degli studenti di piazza Tian An Men nel 1989, oggi ci sono quelle in Tibet. Anche lo Xinjiang musulmano chiede, se non indipendenza, almeno autonomia. E poi i seguaci della setta Falun Gong e i cattolici non "ufficiali" perseguitati, i lavoratori forzati nei "laogai" (lager, c' è perfino assonanza). Infine, l' appoggio della Cina a regimi sanguinari come la Corea del Nord di Kim Il Jong, la Birmania che da vent' anni tiene agli arresti la Nobel della pace Aung San Suu Kyi, il Sudan del tiranno Omar Bashir incriminato dalla Corte dell' Aia per il genocidio del Darfur.
Troverà la Cina il suo Gorbaciov ? Un capo coraggioso, che oltre alla libertà economica conceda anche la libertà politica ?

Mauro Suttora

Saturday, August 09, 2008

Inaugurazione olimpica in Cina

QUATTRO ORE DI NOIA A COLORI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2008

Pechino. Non ha piovuto. Ma è stato il caldo a rendere insopportabile l’inaugurazione interminabile (oltre quattro ore) delle Olimpiadi ieri sera. Gli ospiti anche illustri – per esempio l’89enne Edoardo Mangiarotti, unico plurimedagliato reduce dai Giochi di Berlino 1936 – sono stati costretti ad arrivare allo stadio con ore di anticipo.

La solita scusa: i controlli di sicurezza. Ma in realtà gli organizzatori hanno bloccato l’arrivo delle navette alle 18, due ore prima dell’inizio, perché volevano strade completamente libere per i supervip: gli 80 capi di stato e di governo che hanno affollato la tribuna d’onore solo a pochi minuti dall’inizio.

Un successo per il presidente cinese Hu Jintao, capelli laccati come sempre, che ha inaugurato i Giochi dopo il presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale) Jacques Rogge. Accanto a lui, sotto a Bush e Sarkozy, l’intera gerontocrazia impettita del regime.

A tutto il pubblico sono stati distribuiti tamburini, torce, bastoni illuminati di ogni colore, un foulard rosso e bandierine cinesi da sventolare (ai giornalisti quelle bianche con i cinque cerchi olimpici). Il regista del grandioso spettacolo, il cinese Zhang Yimou subentrato a Steven Spielberg ritiratosi in febbraio per il Darfur, ha voluto coinvolgere tutti gli spettatori.
Ma nella notevole porzione di tribune riservata ai media la parte più apprezzata dello stadio sono state le toilettes, perché dotate di aria condizionata. Più che la prostata poté il sudore, e le permanenze in gabinetto con l’unico scopo di rinfrescarsi si sono moltiplicate.

Per gli amanti del genere, il megakitsch olimpico quest’anno è stato ancora più mega delle edizioni passate. E gli annunciatori ufficiali hanno puntualizzato il numero dei fuochi d’artificio, di danzatori dei balletti, di spettatori sperati nel mondo (“Quattro miliardi, mai prima d’ora”), e perfino del numero di abitanti della Cina (“Uno su cinque nel pianeta”). Elegantissime e coloratissime tutte le delegazioni degli atleti.

Da oggi per fortuna cominciano le gare, cosicché si spera che il patriottismo profuso a piene mani dalla nomenklatura si stemperi nella quotidianità dei risultati.

Commovente l’impegno delle decine di migliaia di ragazzi cinesi volontari, il quintuplo del necessario. Ce li ritroviamo appresso dappertutto, con le loro magliette azzurre: appena arrivati in aeroporto per vidimarci gli accrediti, nelle hall di tutti gli alberghi per scriverci in cinese gli indirizzi da fornire ai tassisti che non sanno mai dove andare, sui marciapiedi vicino a tutti i siti olimpici per incanalarci ai controlli, e perfino a Casa Italia, la struttura messa in piedi da ambasciata italiana a Pechino e Coni, dove alcune bellissime ragazze presidiano impalate gli angoli, e altre sono utilizzate per servire i caffè e a distribuire pezzi di parmigiano reggiano.
Il loro sorriso contagioso è la migliore arma del regime, anche se non parlano una parola d’italiano, poche parole d’inglese, e quelle poche con pronuncia incomprensibile. Ma la buona volontà è tanta, e va bene così.

Efficientissimi invece i poliziotti in borghese che a piazza Tian an men bloccano in pochi secondi chiunque tenti una piazzata per il Tibet o qualsiasi delle numerose cause di protesta oggi in Cina. Hanno sviluppato una nuova tattica per non farsi inquadrare dalle telecamere: coprono gli spiacevoli trascinamenti per terra dei manifestanti con gli ombrelli usati per mascherarsi da turisti in cerca di riparo dal sole. Uno degli energumeni che l’altro giorno ha neutralizzato due cristiani evangelici americani indossava una maglietta azzurra con la scritta Italia, cosicché a prima vista in mondovisione è sembrata una zuffa fra connazionali.

Ieri i giornali cinesi hanno risposto furiosamente al ben calibrato appello di Bush per la liberazione dei dissidenti politici. Ma gli argomenti sono apparsi ammuffiti: l’editoriale di Op Rana sul China Daily, per esempio, ha riesumato citazioni di Mao Zedong e Marx.

In realtà sono passati trent’anni dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, e tutte le speranze di un traino economico che porti libertà politiche sono totalmente deluse. Oggi il modello di Pechino, anche architettonicamente e urbanisticamente, sembra il tecnofascismo di Singapore. Con un po' di grandiosità olimpica mussoliniana e hitleriana. Così forse a qualche spettatore occidentale stremato ieri sera è venuto il sospetto, sotto il sudore, di essere il solito utile idiota.

Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2005

Tibet, basta nonviolenza?

"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA

Il Foglio

21 dicembre 2005

New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.

La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".

Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.

Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"

Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.

La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.

"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.

I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.