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Wednesday, August 27, 2008

Pechino, bilancio politico

Nessuna medaglia per i diritti civili
L' organizzazione è stata impeccabile, ma la libertà resta un miraggio

dal nostro inviato Mauro Suttora

Pechino, 25 agosto 2008

Le Olimpiadi sono state un successo per la Cina. Bene organizzate, hanno lasciato soddisfatti tutti: atleti, spettatori, telespettatori, i 20 mila giornalisti piombati a Pechino da tutto il mondo. Ma la gentilezza ed efficienza dei 100 mila volontari non possono farci dimenticare che la Cina è ancora una dittatura. Qui i governanti incarcerano chiunque osi parlare, protestare, criticare i capi del partito unico, stampare un giornale. Prima delle Olimpiadi le autorità avevano annunciato che chi voleva manifestare avrebbe potuto farlo, chiedendo il permesso alla polizia, in tre parchi di Pechino. Risultato: due vecchiette di 77 e 79 anni sono state condannate a un anno di "rieducazione al lavoro" perché avevano richiesto il permesso. Volevano protestare contro lo sfratto subìto per le Olimpiadi.

La lista delle malefatte dei dittatori cinesi è lunga: dopo la strage degli studenti di piazza Tian An Men nel 1989, oggi ci sono quelle in Tibet. Anche lo Xinjiang musulmano chiede, se non indipendenza, almeno autonomia. E poi i seguaci della setta Falun Gong e i cattolici non "ufficiali" perseguitati, i lavoratori forzati nei "laogai" (lager, c' è perfino assonanza). Infine, l' appoggio della Cina a regimi sanguinari come la Corea del Nord di Kim Il Jong, la Birmania che da vent' anni tiene agli arresti la Nobel della pace Aung San Suu Kyi, il Sudan del tiranno Omar Bashir incriminato dalla Corte dell' Aia per il genocidio del Darfur.
Troverà la Cina il suo Gorbaciov ? Un capo coraggioso, che oltre alla libertà economica conceda anche la libertà politica ?

Mauro Suttora

Saturday, August 09, 2008

Inaugurazione olimpica in Cina

QUATTRO ORE DI NOIA A COLORI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2008

Pechino. Non ha piovuto. Ma è stato il caldo a rendere insopportabile l’inaugurazione interminabile (oltre quattro ore) delle Olimpiadi ieri sera. Gli ospiti anche illustri – per esempio l’89enne Edoardo Mangiarotti, unico plurimedagliato reduce dai Giochi di Berlino 1936 – sono stati costretti ad arrivare allo stadio con ore di anticipo.

La solita scusa: i controlli di sicurezza. Ma in realtà gli organizzatori hanno bloccato l’arrivo delle navette alle 18, due ore prima dell’inizio, perché volevano strade completamente libere per i supervip: gli 80 capi di stato e di governo che hanno affollato la tribuna d’onore solo a pochi minuti dall’inizio.

Un successo per il presidente cinese Hu Jintao, capelli laccati come sempre, che ha inaugurato i Giochi dopo il presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale) Jacques Rogge. Accanto a lui, sotto a Bush e Sarkozy, l’intera gerontocrazia impettita del regime.

A tutto il pubblico sono stati distribuiti tamburini, torce, bastoni illuminati di ogni colore, un foulard rosso e bandierine cinesi da sventolare (ai giornalisti quelle bianche con i cinque cerchi olimpici). Il regista del grandioso spettacolo, il cinese Zhang Yimou subentrato a Steven Spielberg ritiratosi in febbraio per il Darfur, ha voluto coinvolgere tutti gli spettatori.
Ma nella notevole porzione di tribune riservata ai media la parte più apprezzata dello stadio sono state le toilettes, perché dotate di aria condizionata. Più che la prostata poté il sudore, e le permanenze in gabinetto con l’unico scopo di rinfrescarsi si sono moltiplicate.

Per gli amanti del genere, il megakitsch olimpico quest’anno è stato ancora più mega delle edizioni passate. E gli annunciatori ufficiali hanno puntualizzato il numero dei fuochi d’artificio, di danzatori dei balletti, di spettatori sperati nel mondo (“Quattro miliardi, mai prima d’ora”), e perfino del numero di abitanti della Cina (“Uno su cinque nel pianeta”). Elegantissime e coloratissime tutte le delegazioni degli atleti.

Da oggi per fortuna cominciano le gare, cosicché si spera che il patriottismo profuso a piene mani dalla nomenklatura si stemperi nella quotidianità dei risultati.

Commovente l’impegno delle decine di migliaia di ragazzi cinesi volontari, il quintuplo del necessario. Ce li ritroviamo appresso dappertutto, con le loro magliette azzurre: appena arrivati in aeroporto per vidimarci gli accrediti, nelle hall di tutti gli alberghi per scriverci in cinese gli indirizzi da fornire ai tassisti che non sanno mai dove andare, sui marciapiedi vicino a tutti i siti olimpici per incanalarci ai controlli, e perfino a Casa Italia, la struttura messa in piedi da ambasciata italiana a Pechino e Coni, dove alcune bellissime ragazze presidiano impalate gli angoli, e altre sono utilizzate per servire i caffè e a distribuire pezzi di parmigiano reggiano.
Il loro sorriso contagioso è la migliore arma del regime, anche se non parlano una parola d’italiano, poche parole d’inglese, e quelle poche con pronuncia incomprensibile. Ma la buona volontà è tanta, e va bene così.

Efficientissimi invece i poliziotti in borghese che a piazza Tian an men bloccano in pochi secondi chiunque tenti una piazzata per il Tibet o qualsiasi delle numerose cause di protesta oggi in Cina. Hanno sviluppato una nuova tattica per non farsi inquadrare dalle telecamere: coprono gli spiacevoli trascinamenti per terra dei manifestanti con gli ombrelli usati per mascherarsi da turisti in cerca di riparo dal sole. Uno degli energumeni che l’altro giorno ha neutralizzato due cristiani evangelici americani indossava una maglietta azzurra con la scritta Italia, cosicché a prima vista in mondovisione è sembrata una zuffa fra connazionali.

Ieri i giornali cinesi hanno risposto furiosamente al ben calibrato appello di Bush per la liberazione dei dissidenti politici. Ma gli argomenti sono apparsi ammuffiti: l’editoriale di Op Rana sul China Daily, per esempio, ha riesumato citazioni di Mao Zedong e Marx.

In realtà sono passati trent’anni dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, e tutte le speranze di un traino economico che porti libertà politiche sono totalmente deluse. Oggi il modello di Pechino, anche architettonicamente e urbanisticamente, sembra il tecnofascismo di Singapore. Con un po' di grandiosità olimpica mussoliniana e hitleriana. Così forse a qualche spettatore occidentale stremato ieri sera è venuto il sospetto, sotto il sudore, di essere il solito utile idiota.

Mauro Suttora

Tuesday, April 18, 2006

Darfur: parla Barbara Contini

Oggi, 12 aprile 2006

Centomila morti, due milioni di profughi: questo è il bilancio (provvisorio) della grave crisi umanitaria che si sta consumando in Darfur, nel Sudan. Una strage spaventosa, anche perché nascosta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. L’Italia però è in prima linea nell’affrontare la situazione, grazie all’impegno di Barbara Contini. L’energica 44enne milanese, famosa per essere stata governatrice civile di Nassiriya (Iraq) nel 2003/4, ha infatti trascorso gli ultimi sedici mesi nel Darfur a coordinare gli aiuti italiani.

Spesso gli inviati nelle zone di crisi preferiscono non allontanarsi dalle capitali: un po’ per ragioni di sicurezza, ma anche perché nel Terzo Mondo le condizioni di vita lontano dalle città sono proibitive. La nostra Barbara, invece, con spirito garibaldino ha subito scelto di «andare sul campo», e invece di restare a Khartum si è trasferita a Nyala, capoluogo meridionale del Darfur.

«Era l’unico modo per avere il polso della situazione», ci racconta, «fuori dai preconcetti e dalle burocrazie. Stare in contatto diretto con chi si aiuta serve per capire quali sono le possibili soluzioni al problema. Nel caso del Darfur, si tratta di un conflitto etnico: gli arabi, che comandano in Sudan, non vogliono cedere neppure in parte alla popolazione locale il controllo di questa immensa regione, grande il doppio della Francia. Islamica anch’essa, ma di pelle nera. Darfur, infatti, significa “terra degli africani”.

«Lì le distanze sono immense, basti pensare che il Sudan è grande quanto tutta l’Europa occidentale. Nyala sta a quattro ore d’aereo da Khartum. E attualmente ospita mezzo milione di sfollati: donne, bambini, vecchi scappati dai loro poveri villaggi rasi al suolo e bruciati dalle bande dei “janjaweed”, tribù di nomadi che fanno piazza pulita di tutto. Molte donne vengono stuprate e poi magari rapite, i maschi sgozzati per non farli entrare nei ranghi della guerriglia.

«Ma sarebbe sbagliato dare tutta la colpa dei massacri a queste tribù. Loro, infatti, vengono mandati avanti, ma il vero interesse sta nelle mani dei governanti locali interessati alle ricchezze del Darfur: petrolio, oro, ferro, rame. Il dissidio fra i nomadi arabi allevatori e gli stanziali neri agricoltori è sempre esistito. Un po’ come nell’America del vecchio West, è quasi naturale che chi migra attraverso tutto il Nordafrica con mandrie di migliaia di cammelli non vada d’accordo con chi recinta i propri campi impedendo il libero passaggio. Ma dal 2004 il conflitto si è acuito, e ha causato vere e proprie stragi».

Il film The Constant Gardener, tratto da un libro di John Le Carré, illustra bene i massacri: bande di guerrieri a cavallo o in dromedario si avventano su villaggi inermi e li distruggono in un battibaleno.

«Il governo italiano ha finanziato trenta progetti di aiuto con quattro milioni di euro», ci spiega la Contini, «ma per farli funzionare abbiamo prima dovuto garantire la sicurezza dell’area. Così ho agito come a Nassiriya: sono andata dai capitribù locali, mi sono fatta conoscere personalmente, ho chiarito che siamo neutrali, e una volta ottenuto l’impegno a non attaccare quell’area abbiamo scavato pozzi, riparato acquedotti e aperto ambulatori e scuole. Con la colletta di mezzo milione raccolta al Festival di Sanremo di Paolo Bonolis l’anno scorso abbiamo costruito un ospedale.

«Ormai sono vent’anni che giro il mondo con gli aiuti umanitari, ho visto bimbi morire a Calcutta e in Bangladesh, purtroppo sono abituata a certi spettacoli drammatici. Ma quel che distingue il Sudan da altri disastri è la dimensione della devastazione: due milioni di persone costrette a vivere tuttora sotto un telo di plastica, anche d’inverno quando la temperatura di notte crolla di venti gradi. Questi profughi non hanno speranza di rientrare nelle loro capanne di paglia e fango, dove vivevano coltivando sorgo, finché non ci sarà un accordo politico.

«Ci sono due movimenti di guerriglieri del Darfur che combattono contro il governo del Sudan: lo Sla (Sudan Liberation Army) e, più a nord, il Jem. Sono in corso trattative ad Abuja, la capitale della Nigeria, ma finchè non si coinvolgeranno anche le bande di nomadi arabi non si arriverà a nulla. L’Italia potrebbe prendere l’iniziativa e convocare tutte le parti a Roma».

Ma Barbara Contini è pessimista: «Non c’è coordinamento umanitario e diplomatico dell’Europa, ora si parla di inviare truppe Nato anche se il problema è politico. Io sono andata in giro con una scorta di due sole persone proprio per non dare nell’occhio: specialisti del corpo speciale Col Moschin che sanno l’inglese e affrontano le questioni non solo con le armi, ma anche con un approccio psicologico. È così che occorre comportarsi in quei posti: pragmaticamente, senza inutili sceneggiate».

Mauro Suttora