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Saturday, August 09, 2008

Inaugurazione olimpica in Cina

QUATTRO ORE DI NOIA A COLORI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2008

Pechino. Non ha piovuto. Ma è stato il caldo a rendere insopportabile l’inaugurazione interminabile (oltre quattro ore) delle Olimpiadi ieri sera. Gli ospiti anche illustri – per esempio l’89enne Edoardo Mangiarotti, unico plurimedagliato reduce dai Giochi di Berlino 1936 – sono stati costretti ad arrivare allo stadio con ore di anticipo.

La solita scusa: i controlli di sicurezza. Ma in realtà gli organizzatori hanno bloccato l’arrivo delle navette alle 18, due ore prima dell’inizio, perché volevano strade completamente libere per i supervip: gli 80 capi di stato e di governo che hanno affollato la tribuna d’onore solo a pochi minuti dall’inizio.

Un successo per il presidente cinese Hu Jintao, capelli laccati come sempre, che ha inaugurato i Giochi dopo il presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale) Jacques Rogge. Accanto a lui, sotto a Bush e Sarkozy, l’intera gerontocrazia impettita del regime.

A tutto il pubblico sono stati distribuiti tamburini, torce, bastoni illuminati di ogni colore, un foulard rosso e bandierine cinesi da sventolare (ai giornalisti quelle bianche con i cinque cerchi olimpici). Il regista del grandioso spettacolo, il cinese Zhang Yimou subentrato a Steven Spielberg ritiratosi in febbraio per il Darfur, ha voluto coinvolgere tutti gli spettatori.
Ma nella notevole porzione di tribune riservata ai media la parte più apprezzata dello stadio sono state le toilettes, perché dotate di aria condizionata. Più che la prostata poté il sudore, e le permanenze in gabinetto con l’unico scopo di rinfrescarsi si sono moltiplicate.

Per gli amanti del genere, il megakitsch olimpico quest’anno è stato ancora più mega delle edizioni passate. E gli annunciatori ufficiali hanno puntualizzato il numero dei fuochi d’artificio, di danzatori dei balletti, di spettatori sperati nel mondo (“Quattro miliardi, mai prima d’ora”), e perfino del numero di abitanti della Cina (“Uno su cinque nel pianeta”). Elegantissime e coloratissime tutte le delegazioni degli atleti.

Da oggi per fortuna cominciano le gare, cosicché si spera che il patriottismo profuso a piene mani dalla nomenklatura si stemperi nella quotidianità dei risultati.

Commovente l’impegno delle decine di migliaia di ragazzi cinesi volontari, il quintuplo del necessario. Ce li ritroviamo appresso dappertutto, con le loro magliette azzurre: appena arrivati in aeroporto per vidimarci gli accrediti, nelle hall di tutti gli alberghi per scriverci in cinese gli indirizzi da fornire ai tassisti che non sanno mai dove andare, sui marciapiedi vicino a tutti i siti olimpici per incanalarci ai controlli, e perfino a Casa Italia, la struttura messa in piedi da ambasciata italiana a Pechino e Coni, dove alcune bellissime ragazze presidiano impalate gli angoli, e altre sono utilizzate per servire i caffè e a distribuire pezzi di parmigiano reggiano.
Il loro sorriso contagioso è la migliore arma del regime, anche se non parlano una parola d’italiano, poche parole d’inglese, e quelle poche con pronuncia incomprensibile. Ma la buona volontà è tanta, e va bene così.

Efficientissimi invece i poliziotti in borghese che a piazza Tian an men bloccano in pochi secondi chiunque tenti una piazzata per il Tibet o qualsiasi delle numerose cause di protesta oggi in Cina. Hanno sviluppato una nuova tattica per non farsi inquadrare dalle telecamere: coprono gli spiacevoli trascinamenti per terra dei manifestanti con gli ombrelli usati per mascherarsi da turisti in cerca di riparo dal sole. Uno degli energumeni che l’altro giorno ha neutralizzato due cristiani evangelici americani indossava una maglietta azzurra con la scritta Italia, cosicché a prima vista in mondovisione è sembrata una zuffa fra connazionali.

Ieri i giornali cinesi hanno risposto furiosamente al ben calibrato appello di Bush per la liberazione dei dissidenti politici. Ma gli argomenti sono apparsi ammuffiti: l’editoriale di Op Rana sul China Daily, per esempio, ha riesumato citazioni di Mao Zedong e Marx.

In realtà sono passati trent’anni dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, e tutte le speranze di un traino economico che porti libertà politiche sono totalmente deluse. Oggi il modello di Pechino, anche architettonicamente e urbanisticamente, sembra il tecnofascismo di Singapore. Con un po' di grandiosità olimpica mussoliniana e hitleriana. Così forse a qualche spettatore occidentale stremato ieri sera è venuto il sospetto, sotto il sudore, di essere il solito utile idiota.

Mauro Suttora

Sotto il cielo di Pechino gran casino

di Mauro Suttora

Libero, 9 agosto 2008

Caro direttore,
sono a Pechino da due giorni, ma ho visto soltanto dieci minuti di sole. E non per colpa delle nuvole. Il cielo è oscurato da una nebbia costante, che le autorità locali chiamano “foschia” e il resto del mondo smog. Cos’è in realtà questo grigio opprimente e deprimente? «Umidità», giura il capo del Bocog, sigla inquietante che però significa solo “Beijing Organizing Committee Olympic Games”. Ma un reporter guastafeste della Cnn ieri ha mostrato un suo misuratore delle polveri sottili, che dava più di 200 mentre il limite massimo è 50.

Nebbia, governo ladro? Per carità, non possiamo incolpare i gerarchi comunisti perfino per il brutto tempo e l’inquinamento. La lista delle loro colpe è già abbastanza sterminata, dati gli stermini di tibetani, uiguri, birmani, seguaci Falun Gong e pure darfuriani nel lontano Sudan. Il problema è che loro si offendono anche per questo: se qualcuno osa mettere in dubbio – o, come ha fatto la Cnn, ridicolizzare – le verità ufficiali, il presidente Hu Jintao, più suscettibile di un pugliese, lo piglia come un attacco personale. E a tutti i cinesi. Il furbone.

A questo pensavo ieri mattina, dopo che la cameriera del mio albergo ha infilato una copia di China Daily sotto la porta della camera. Il quotidiano ufficiale della Cina in lingua inglese (ma qui tutti i giornali e tv sono del governo) era pieno di attacchi al bel discorso che il presidente Usa George Bush aveva pronunciato a Bangkok prima di atterrare con la famiglia intera (moglie, figlia, padre, fratello, sorella) a Pechino per l’inaugurazione delle Olimpiadi.
«La Cina deve permettere libertà di associazione, stampa e sindacato e deve smettere di incarcerare i dissidenti politici», ha chiesto Bush, aggiungendo però intelligentemente: «Lo dico non per attaccare la Cina, ma perché questo è l’unico modo che ha per dispiegare appieno il suo potenziale».
Insomma, per evitare di essere così paranoici da negare perfino l’evidenza della cappa di bruma velenosa che avvolge in permanenza la capitale.

Invece agli agitprop del regime la lingua batte dove il dente duole: il commentatore di China Daily Op Rana accusa a sua volta di «paranoia» i media occidentali che attaccherebbero la Cina perché hanno paura di chissà che cosa.

Questa è la debolezza dei regimi totalitari: che vorrebbero controllare la totalità della vita, e quindi si sentono in colpa anche per il brutto tempo.

In questi giorni tutti noi, giornalisti e atleti, stiamo incontrando persone squisite, di una gentilezza quasi commovente. Già all’aeroporto una folla di giovani volontari dietro a un tavolo avrebbe voluto vidimare il mio accredito, se un qualche misterioso inghippo burocratico ai loro computer non glielo avesse impedito. Ci sono rimasti più male loro di me. Ha rimediato uno sciame di ragazzine all’entrata dell’immensa sala stampa, poche ore dopo.

Ma non mi sogno di accreditare al presidente Hu Jintao la cordialità spontanea dei cinesi, così come non gli imputo l’ignoranza dei tassisti di Pechino che la metà delle volte non sanno dove andare, nonostante gli si mostri l’indirizzo scritto in cinese (sto rivalutando perfino la corrusca categoria dei tassisti romani, in questi giorni).

Né è colpa dei dittatori comunisti se ieri sera nello stadio dell’inaugurazione c’erano 38 gradi con 95 per cento di umidità. Ci hanno fatto arrivare con due ore di anticipo, sottoponendoci a un infinito zigzag di controlli, file, raggi x, navette obbligatorie per percorrere 200 metri, eccetera. Ma questo è probabilmente il prezzo che bisogna pagare ai terroristi per assicurarsi sicurezza, magari aggravato da qualche stupidità burocratica.
In fondo anche noi italiani abbiamo militarizzato mezza città sette anni fa per il G8 a Genova. O forse le Olimpiadi sono avvenimenti così elefantiaci che è impossibile organizzarli senza rompere molto le balle sia ai partecipanti che agli abitanti locali.

Anche qui, però, se osi dire qualcosa i politici lo prendono come un attacco politico. Ma basta parlare in confidenza con qualche cinese – come ho fatto con un collega giornalista – per sentire tutte le normali lamentele di tutti i normali cittadini di questo mondo: “Non hanno permesso alla gente neppure di avvicinarsi allo stadio per vedere i fuochi d’artificio dell’inaugurazione, hanno bloccato l’accesso a chilometri di distanza… E da anni a Pechino non ci sono più concerti di gruppi rock e star straniere, perché tutti gli stadi e i palasport esistenti erano in restauro…»

Il mio interlocutore che non nomino non per paranoia, ma perché i giornalisti cinesi che sgarrano finiscono in carcere, aggiunge che la cantante islandese Bjork ultimamente ha inneggiato al Tibet durante un suo concerto in Cina, e che quindi le popstar non sono amate dal regime.

Caro direttore, ho sudato come un suino durante l’interminabile e per me noiosissima cerimonia di ieri era. Ma non incolpo il dittatore Hu, perché il kitsch è una disgrazia mondiale. Però ho il sospetto che i migliori amici dei cinesi – oltre che dei tibetani – ieri non fossero a Pechino, ma ad Assisi, alla marcia dei radicali. E lì splendeva il sole.

Mauro Suttora