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Thursday, December 22, 2005

Corrispondenti esteri a New York

URAGANI MEDIATICI

Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no

Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005

New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.

La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.

Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».

Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»

Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».

Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».

«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».

Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.

Mauro Suttora