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Friday, September 19, 2014

Catalogo dei viventi 2015



MAURO SUTTORA

• Milano 8 settembre 1959. Giornalista. Scrittore. Inviato di Oggi (corrispondente da New York dal 2002 al 2006), collabora con Sette, in passato con L’Europeo, Il Foglio, Libero, Newsweek; columnist di The New York Observer. Tra i suoi libri: Pannella & Bonino Spa (Kaos, 2001), No Sex in the City (Cairo, 2006), Mussolini segreto, diari di Claretta Petacci (Rizzoli, 2009). 
«Mi sono imbattuto per caso nella vicenda dei diari. Nel 2003 andai a intervistare Ferdinando Petacci, il nipote di Claretta, a Phoenix, dove vive. Lui mi parlò di queste carte chiuse negli archivi di Stato. Dovevano passare 70 anni prima di poterle leggere. Abbiamo aspettato e poi visionato e trascritto quelle pagine che non sono più coperte da segreto, e cioè quelle che arrivano fino al 1938. Il risultato? Sorprendente».

• «Dopo aver “frequentato e votato sessantottini e radicali, verdi, leghisti e dipietristi”, come scrive su Sette, si è “affidato abbastanza disperato a Grillo”, infiltrandosi da “interno” alle riunioni e constatando che ai meet-up “non c’è mai tempo per parlare guardandosi negli occhi. Solo Web, computer e Smartphone per gente sempre connessa. Ma connessa a cosa, mi domando…”» 
(Marianna Rizzini) [Foglio 10/12/12].

• «Per uscire dalla cuccia calda della corrispondenza ci vuole coraggio, Suttora l’ha avuto, ed è stato premiato. Nei media di New York sanno chi è (...) Alcune intuizioni sono folgoranti. Racconta che troppe donne newyorkesi “parlano con la voce di Topolino” (un fenomeno che la scienza non ha ancora spiegato); che i ristoranti francesi sono in crisi, e quelli italiani no; che la tariffa fissa telefonica (flat rate) è una jattura, perché i taxisti di Manhattan sono sempre al cellulare, e confabulano come zombie in lingue misteriose, disinteressandosi di chi hanno a bordo» (Beppe Severgnini).
Giorgio Dell’Arti
Catalogo dei viventi 2015 (in preparazione)
scheda aggiornata al 18 settembre 2014
da Lorenzo Stellini

Saturday, August 23, 2008

Concupiscenza a New York


Brevi saggi più o meno concupiscenti/19

American beauty farm

A New York il desiderio diventa un peccato di gola divorato dall’ascesi edonistica del consumismo

di Mauro Suttora





















"What’s Sutunqa?”. Maledetta scrittura intelligente. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo. L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla. Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi.
Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche. Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha. 
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase). 
“No, perché?”. 
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”. 
“Non ho niente a che fare con l’Onu”. 
E' già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?”
“No, perché?” Sorride. 
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”.
“Vuole che sia sincera?”. 
“Certo”. 
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo. 
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”. 
“In che senso?”. 
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”. 
“Ah, certo”. Sorride. Chissà se ora ha capito. “Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. 
No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica.
La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter. “Lei è favorevole alla pena di morte?”. “Mah, dipende. Si riceve quel che si dà”. “Ma allora perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”. “La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”. Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. E’ venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo. 
Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.
E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli. Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
 “E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha. 
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”. 
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. 
Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia. Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure. L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari.
Marsha mi ha scelto anche perché la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo. Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il “quadrilatero della morte”, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. 
Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza. Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto.
Anche nella Grande Mela ci sono personcine serie. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida. Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come exchange student. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate! Non si dice “grasso”, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”. Sui computer la parola sex si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi.
La regina Vittoria godrebbe come una pazza. Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli events cui partecipare ogni sera, i gala della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada. 
Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?”. E’ così che lei raggiunge l’acme. Perché poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato accondiscendente ammonendomi con un sorriso: “Mauro, don’t be a pervert”.
Ci sono tante Marsha a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure – quelle più intellettuali – tramite psicanalista. Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le one night stand, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party. 
Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei “Monologhi della Vagina”: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia. “Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?”. E’ questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso.
Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine. Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (il consumo di Prozac si è decuplicato) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” E’ il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su Internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: in fondo è l’ottimismo di Marsha ad avermi conquistato. Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica “Sex and the City” di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento, ma con il titolo “No sex in the city”.
di Mauro Suttora

Friday, May 30, 2008

No sex, siamo in the City

DA SPARARSI

Un italiano a Manhattan: le americane godono solo con lo shopping. Da oggi nei cinema 'Sex in the City'

Libero, 30 maggio 2008

di Mauro Suttora

«Scusa Mauro, questo tuo articolo è ben scritto e divertente, ma non pubblichiamo vendette private. E poi parole come "frigidità" e "clitoride" rimangono ancora off limits per noi».

Così il vicedirettore del settimanale Newsweek bocciò una delle column che avevo scritto per loro. Era il 2004. Come sempre d’estate a New York faceva un caldo umido brutale, e io ero disperato perché la mia fidanzata americana mi aveva mollato. Di colpo, con un'e-mail. Non voleva più vedermi, né sentirmi al telefono. Eliminato senza discussioni dopo tre mesi di amore (un periodo medio-lungo, per i ritmi nevrastenici di Manhattan).
Mi sembrava di essere improvvisamente piombato dentro una puntata di "Sex and the City". Anche perché la mia Liza, trentenne imperiosa dai lunghi capelli lisci e tacchi a spillo, assomigliava a quelle quattro. Anzi, ne era la fusione: sexy come Samantha, dolce come Charlotte, abrasiva come Miranda, brillante come Carrie. E drogata di shopping come tutt'e quattro.

Per due notti dormii poco, per tre giorni mangiai pochissimo. Mentre andavo a lavorare alla Rizzoli, sulla 57esima Strada, mi veniva da vomitare per i miasmi provenienti dai ristoranti cinesi. Poi, avendo il triplo degli anni di un adolescente, vidi il lato comico della tragedia. E cominciai a scrivere. Da allora non ho più smesso. E sono diventato uno dei massimi esperti mondiali di quella inimitabile specie animale che sono le donne di Manhattan. Ho perfino scritto un libro su di loro: «No Sex in the City» (Cairo, 2a edizione 2007).

Cestinandomi l'articolo il caporedattore di Newsweek mi fornì un consiglio prezioso: «Perché non lo proponi al New York Observer? Quelli sì che lo apprezzerebbero». L'Observer: il settimanale in carta rosa dei radical-chic newyorkesi. Sessantamila copie vendute quasi tutte nell'Upper East Side, dove vivono i miliardari, e d'estate negli Hamptons, dove i Rockefeller e i Vanderbilt svacanzano sempre assieme, in gregge, fin dai tempi di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby.

Quattro cose sono rimaste uguali da quei clamorosi anni Venti: il colore assurdamente giallo canarino e verde smeraldo dei vestiti estivi, le donne ridanciane e vogliose di parties, le auto veloci e il tasso alcolico.

Manhattan è, dopo la Carnia, il posto al mondo dove si beve di più. Per un motivo semplice: quando si smette non occorre prendere l’auto per tornare a casa, basta gettarsi in un taxi o in un vagone del metrò. Ma anche perché le donne di Sex and the City hanno bisogno di un bicchiere per cominciare a parlare, del secondo per sorridere e del terzo per disinibirsi. Al quarto però crollano, quindi la «finestra di opportunità» (come la chiamano gli americani, in marketinghese) per noi maschietti è molto stretta.

All’Observer sono stati felici di pubblicare il mio articolo, in cui descrivevo da entomologo la frigidità della mia apparentemente sexyssima (pantaloni aderenti color leopardo) ma in realtà anoressica e anorgasmica Liza, e la tendenza sua e di tante newyorkesi (statistiche alla mano) a soddisfarsi da sole, accarezzandosi il (la?) clitoride. Infatti il motto delle femmine di Sex and the City è: «Perché accontentarsi di un uomo, quando si può avere un intero dito (il proprio)?»

Sia chiaro: come tutti gli italiani, ero e continuo a essere perdutamente innamorato dell’America e di New. Ma un conto è divertirsi osservando le traversie delle quattro smandrappate di Sex and…, un conto è viverci dentro. Un inferno.

Liza (ma poi anche Marsha, mia fidanzata per un anno) smetteva di lavorare alle sei, e mi invitava a qualche «evento»: un aperitivo, l’inaugurazione di un negozio, la vernice di una galleria d’arte, la presentazione di un libro. Poi il ristorante. Le «ragazze» di Manhattan (si fanno pateticamente chiamare «girls» anche a 50 anni) si atteggiano a superfemministe, ma accettano svelte il conto pagato dal maschio. Dappertutto: dal cocktail al ristorante, dal taxi alla discoteca. Se poi gli lasci la tua carta di credito in un negozio di scarpe, borse o vestiti, ti sposano subito.

Tornavamo a casa dal Soho Club (di moda quattro anni fa) dopo mezzanotte. In taxi ci baciavamo, lei era focosa, ma arrivati su si lanciava sotto la doccia. Io la aspettavo speranzoso a letto. Però alla fine mi diceva: «Sono distrutta. Dormiamo, dai».

Al mattino di svegliava alle sei. Si metteva la tuta, le scarpe da ginnastica, e scendeva a far jogging a Central Park. Se pioveva o faceva troppo freddo o caldo, tapis roulant in palestra. Tornava a casa accaldata, rossa in viso, sensualissima. Io ero pronto, ma lei mi sgusciava via: doccia. E dopo era ormai «troppo tardi, devo correre al lavoro». Usciva di casa alle otto senza aver fatto neppure colazione: comprava un bicchierone sotto da Starbucks, e se lo portava in metro.

«Sono stressata, ho bisogno di relax», mi diceva per giustificare questa sua riluttanza all’accoppiamento. Io cercavo di spiegarle che il sesso serve appunto a rilassarsi. Ma lei non capiva: per gli americani il sesso è una specie di ginnastica, un’ulteriore attività pratica che si aggiunge alle tante altre. E in caso di problemi c’è sempre una guida che in 12 step li risolve.

Si rilassava nei wek-end, questo sì. Quindi facevamo regolarmente l’amore al sabato. «Come gli svizzeri», le ho detto. «Adoro il cioccolato svizzero», ha risposto, ignara del mio sarcasmo. Nonostante le scollature e il leopardume, a letto era più fredda del monte Bianco. «Non vengo mai la prima volta», mi disse Liza dopo un deludente debutto. Aspettai con trepidazione la seconda volta, e mi diedi un sacco da fare. Niente. «Vengo raramente», annunciò distrattamente. «Ma mi piace anche così», precisò subito, per non fare la figura della «loser», la perdente.

Ecco, questo è il vero Sex nella city. Certo, non si può generalizzare. New York resta la capitale del mondo gaudente, e ha il più alto tasso di single del pianeta. Quindi a letto ci si arriva facilmente. Ma è sul materasso che cominciano i dolori. Perché Carrie e amiche raggiungono molto più facilmente la soddisfazione comprando sandali Manolo Blahnik (la mia Liza preferiva il negozio Jimmy Choo di Madison Avenue, da me soprannominato «dai 200 ($) in su»). No Sex in the City.

Mauro Suttora

Friday, May 16, 2008

Mauro of Manhattan

New York Observer

April 29, 2008

by Mauro Suttora

“Why do you keep replying, ‘Thank you, but we already have plans for that evening,’ Marsha, when you know we’re free?”
“It’s just an excuse, Mauro. I just want to avoid an invitation by boring people.”
“Yes, but it sounds too … How can I say? Grandiose to me. In Italy we don’t make plans. I mean, not normal people. The government, maybe, sometimes. At least they boast it, to impress voters and pretend they are in charge. But ordinary people …”
“We are not ordinary. We’re supposed to have plans in our life. They can’t invite us like that, on the snatch, impromptu, with only a few days’ notice.”
Marsha, my Upper East Side girlfriend, can’t understand how Italians can survive always improvising—without inviting, nor making theater reservations or booking restaurants one month in advance.
“Come on, Marsha, don’t play it big. Don’t act precious. If one of my Italian friends calls us to go out on that same evening, we don’t have to invent ‘plans’ for fear of showing that our life is empty. You know we love to spend most of our evenings here, sitting in front of the TV. Actually, upgrading our cable TV menu has flooded us with wonderful movies, and improved my English, although it has almost killed our social life…”
“That was your idea.”
“No, no, no, darling, my idea was just to replace a crummy old little TV set with something civilized.”
“Yes, but then you invaded our sitting room with a monster, this humongous 42 inches plasma. Where the hell am I supposed to place food and beverage for our next parties?”
“Actually, I haven’t finished yet.”
“I know. Don’t come up with that again. No way. Don’t get me started on your freaking sound system with wires all over the place. Don’t even raise the subject.”
“But Marsha, that’s the normal consequence of buying a large-screen TV. What do we make of it, if the sound is not comparable to the vision, at the same excellence level?”
“It’s already stereo.”
“We’re talking ‘home cinema’ here, milady. … ‘Dolby Surround system.’ Remember the private screening we were invited to by the Italian distributor of Woody Allen’s Scoop in his luxurious Palazzo Borghese apartment in Rome?”
“Gee, but that was another planet. They are professionals, that’s their field. We are not movie geeks. Come on.”
“I just saw a five channels 400 dollars sound system in the store near my Rizzoli Bookstore office, on 57th Street.”
“I told you: I don’t want any of your ‘surround’ sound around here. Not that I don’t appreciate your will for improvement, but the only thing I’ll be surrounded by will be wires. See this? They’re already mushrooming all over: the TV cable, the connection to the DVD, the wire for the pay-TV box, the high-speed Internet, the telephone ... There’s such an intricated bush under the plasma screen. It was supposed to save room, but now it’s invading us.”
“It’s wireless.”
“What?”
“Yes, wireless.”
“You mean the five speakers come without wires?”
“Yeah … kind of.”
“Kind of what? The last time we had something wireless around, it was that pirate neighbor of us who stole from our wi-max, getting connected for free and making us pay for his all-night porno browsing and wanderings around the Net.”
“We discovered that almost immediately.”
“Yes, after some wonderful astronomical bills … You don’t like flat rates, do you?”
“The sound system is almost totally wireless, Marsha, I swear.”
“What do you mean ‘almost’? ‘Almost totally’ sounds sooo Italian. Like ‘Almost pregnant’.”
“The rear speakers are wireless.”
“You mean two out of five.”
“Yes ... But that’s the crucial problem we have overcome here, Marsha. Three speakers stay on the wall in front, connected by small threads we can easily disguise along the baseboard. And on this side of the room, behind the sofa, we place the other three pieces.”
“Three? Why one more? For a total of six speakers?”
“One is just a little box getting the radio signal from the other side, and distributing it to the rear speakers.”
“And that horrible big thing you showed me, what’s its name?”
“The bass subwoofer?”
“It’s too big. Where are we going to place it?”
“Did you prefer the old way, when all the speakers where huge?”
“At least they were only two, not six.”
“I love you, Marsha.”
“You stress me, Mauro. Do we have plans for tonight?”
“…”
“Don’t …”
“…”
“Come on, don’t start and touch me, I have to shower, been working all day.”
“I llloove your sexy smell.”
“I know what your plans are, regarding me. They are always the same, when we sit alone on the sofa. You only have sex in your mind.”
“I do have plans for you. I always have plans. I am a natural-born planner, my love. I wouldn’t have ventured in Iraq without a plan, like your president did, my sweet bushie …”

Mauro Suttora

wiki

Tuesday, November 27, 2007

lib magazine intervista suttora

Mauro Suttora risponde

Mauro Suttora è un privilegiato. Già. Leggi il suo libro, "No Sex in the city" (Cairo edizioni, 2006) e lo invidi ogni pagina. Sempre di più. Per studiare l'antropologia del popolo americano, sceglie autonomamente di partire dalle donne e di studiarne ogni loro antro. Giornalista della Rizzoli Corriere della Sera (scrive su Oggi, che lui definisce "fantastico settimanale pop"), vive tra Roma e Manhattan. E' columnist di Newsweek e del New York Observer. In Italia, di tanto in tanto, i suoi articoli vengono pubblicati sul Foglio. Noi di LibMagazine, siccome siamo fortunati, lo abbiamo avvicinato. Piacevolissimo!

LibMagazine: l'America è la più grande democrazia del mondo. Alla base della democrazia il pluralismo: politico, culturale. La cosa che più mi ha colpito del suo libro "No Sex in the city" è invece il modo semplicistico con cui gli Americani, le Americane si accostino alle problematiche. Ragionamenti semplici, poca analisi, il tutto all'interno di un perimetro di valori e di regole di vita elementari e che non lasciano spazio per flessibilità. Il tempo è denaro, come si direbbe, e quello che conta è il fare. E' tutto proprio cosi?

Mauro Suttora: Sì, ed è per questo che amo gli americani. Perché, come diceva Giolitti - che ho scoperto qui a Roma pensano sia un gelataio - quando hanno finito di dire quel che devono dire, hanno finito anche di parlare. Insomma, sono l'esatto contrario di Pannella. Ieri sera ho assistito alla presentazione romana di "Piena disoccupazione", l'ultimo libro di Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corsera. Enrico Letta, che anche se fa il giovanilista è nato che era già molto vecchio, invece di dire "Non sono d'accordo su questa parte del libro", è riuscito a pronunciare queste parole: "Mi pongo in rapporto dialettico con questa parte del libro". Sono rabbrividito: mi è sembrato di ripiombare in una sezione del Pci degli anni '70, dove i giovani Veltroni strologavano in sociologhese. Un americano non riuscirebbe mai a dire "mi pongo in rapporto dialettico" neanche sotto tortura. Comunque, lei ha ragione: non confondiamo semplicità con semplicismo.

LibMagazine: Alla domanda precedente mentivo. La cosa che mi ha colpito di più del suo libro è stata l'onda verde in Taxi. Arrapante!

Mauro Suttora: Beh, allora deve spiegare di che si tratta. A Manhattan, grazie ai semafori intelligenti e al fatto che tutte le avenues tranne la Park sono a senso unico, se in auto si imbrocca un verde e si mantiene una velocità di crociera media, si riescono a superare senza fermarsi tutti gli incroci, per chilometri. I tassisti sono abilissimi in questo. E io ho avuto una fidanzata americana che quand'era un po' brilla, tornando a casa in taxi la notte da un ristorante o un club, si eccitava, alzava la gonna e mi montava addosso. La prima volta mi imbarazzai perché temevo che il tassista ci spiasse dallo specchietto, nonostante i vetri divisori dei taxi di New York. Poi invece scoprii che tutti erano indifferenti, anche quelli delle auto vicine che davano una sbirciatina quando ci fermavamo per un rosso. Però capitava raramente, perché c'era appunto l'onda verde che manteneva il taxi in continuo movimento, senza rallentamenti agli incroci.

LibMagazine: torno serio. Si dice spesso che l'Italia è il paese dei furbi. La struttura della cosa pubblica è tale che per dimenarsi occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se anche nell'America che si è fatta da sé; l'America in cui si partì tutti uguali correndo lungo praterie per conquistarsi il proprio pezzo di terra occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se è un paese in cui il "non furbo" può sopravvivere.

Mauro Suttora: Un conto è essere furbi, un altro "sapersi muovere". Lì devi essere sempre "aggressive". Per noi questo è un aggettivo deteriore, per loro invece una qualità indispensabile e ammirata. Non solo nel business, anche nei rapporti umani. Per evitare il peggiorativo, tradurrei con "determinato". Diciamo che mentre in Italia si fa carriera al 70% per parentela e raccomandazioni e al 30 per merito, lì le percentuali sono invertite.
Io ho cominciato come columnist a Newsweek semplicemente andando per caso a pranzo con un caporedattore che, interessato da quello che gli dicevo sull'Onu, mi ha chiesto: perché non lo scrivi? E quattro giorni dopo il mio articolo era in pagina. Mentre in Italia per diventare opinionista di Panorama o Espresso devi avere almeno 50 anni, scrivere da 20, stare nel partito giusto e frequentare qualche combriccola...
A New York invece vai a un aperitivo, a una festa, a una riunione, ovunque, e tutti fanno "social networking". Cioè ti abbordano, ti domandano chi sei e che fai, ti valutano in pochissimi minuti di conversazione cordiale, e se fai colpo o se pensano che gli servi, che si possono fare affari o sesso assieme, ti danno il loro biglietto da visita e pretendono il tuo. Sono curiosissimi, sempre pronti al nuovo. Cioè l'esatto contrario delle feste o incontri in Italia, dove tutti se ne restano barricati nel gruppo dei propri amici e se vedono uno nuovo lo guatano in tralice... Mi viene in mente una bellissima canzone degli Eagles del '76, nel disco 'Hotel California': “New Kid in Town”. Ecco, il nuovo ragazzo che arriva in città ha più possibilità negli Usa che in Italia.

LibMagazine: un mercato così libero, come è quello Americano, è trasportabile in Europa?

Mauro Suttora: Penso di sì, col tempo. In Inghilterra e Irlanda è già così. Ma non è vero che negli Usa il mercato sia così selvaggio. Si perde il lavoro anche senza giusta causa con un preavviso di due settimane, ma lo si trova alla stessa velocità. E c'è il sussidio di disoccupazione per sei mesi. Lì è tutto un turbinio di cambiamenti. Se non ti piace una cosa - un lavoro, una moglie - invece di lamentarti cambi. Ma anche in Italia i giovani hanno contratti a termine, il posto fisso è diventato raro. Solo che qui la parola "precario" è negativa, mentre negli Usa tutto è sempre precario. Anche il capo della banca più potente rischia di essere licenziato dall'oggi al domani. Se penso a certe cariatidi italiane...

LibMagazine: ma per tutti questi appartenenti ai ceti benestanti, che Lei ha avuto modo di frequentare durante la sua permanenza a New York, quanto conta la religione? La sua osservanza?

Mauro Suttora: E' un fatto privatissimo. Molti fanno donazioni, anche perché sono deducibili dalle tasse, e non esiste alcun finanziamento pubblico alle chiese. Quando spiego l'8 per mille o il referendum sulla fecondazione assistita, mi guardano come se venissi da un Paese sottosviluppato. Ma anche gli Usa hanno le loro aree di sottosviluppo, con i pastori evangelici e televisivi nel Texas e nel sud. Sono micidiali, buffissimi.

LibMagazine: Ho letto con gusto il suo "catalogo dei culi di Manhattan". Innanzitutto mi dica:"Ma che rapporto ha lei con il suo culo?"

Mauro Suttora: Copione, è la stessa domanda che ho fatto intervistando Jennifer Lopez. Vent'anni fa il mio attraeva pederasti di ogni nazionalità, ma rimasi vergine (a proposito: mi piace la parola "pederasta", è scorretta quanto "invertito", nessuno la usa più da decenni). Comunque il vero genio in questo campo è Massimo Fini, con il suo sublime "Di(zion)ario erotico", edizioni Marsilio 2001. Io ho solo affibbiato le dieci diverse tipologie di culo da lui individuate a ciascun quartiere di Manhattan.

LibMagazine: la prego, sia indulgente, insisto sul lato B. Per Libmagazine, se la sente di catalogare queste coppie: Bush jr. e Al Gore - Obama e Mrs.Clinton - Berlusconi e Veltroni?

Mauro Suttora: Immagino uguali i sederi di Hillary e Walter: sono quelli flaccidi e colloquiali. Bush e Berlusconi probabilmente hanno quello militare: piccolo, duro e antipatico. Quello di Al Gore non m'interessa, basta la faccia: che cazzo ha fatto per l'ecologia negli otto anni in cui è stato al governo? Quanto a Obama, deve possedere chiappe diffidenti e avare, come quelle dei toscani...

LibMagazine: ma è proprio vero che con i democratici al governo non si sarebbe fatta una politica estera così "espansiva" ? LibMagazine teme di no!

Mauro Suttora: LibMagazine ha ragione nel ritenere i democratici Usa militaristi quasi quanto i repubblicani, e la riprova arriverà fra un anno con la presidente Clinton. Infatti suo marito negli anni '90 non abbassò le spese militari: si limitò a non alzarle, nonostante la scomparsa della minaccia sovietica. Però cagate come le invasioni di Afghanistan e Iraq poteva farle solo Bush.
La frase più memorabile la ricordo pronunciata da un neocon al Council on Foreign Relations, un club di Manhattan dove politici, miliardari e accademici si illudono di governare il mondo. Questo tale Max Boot (nomen omen: Massimo Stivale) nel 2003 sostenne che gli Usa avrebbero portato la democrazia a Kabul e Bagdad così come fecero con Roma, Berlino e Tokio. Come se noi prima del loro arrivo fossimo stati abitati da tribù di allevatori di capre... Comunque, visto che arriccia il naso, le comunico che essere antimilitaristi è di destra, perché i liberali sono per lo stato leggero, mentre non c'è niente di più pesante delle forze armate.

LibMagazine: vino preferito? Glielo chiedo perché vorrei capire quanto è vera l'America dipinta da Sideways, quel film in cui un gruppo di amici viaggia in California lungo itinerari enogastronomici, improbabili e non sempre super-pregiati (enologicamente).

Mauro Suttora: Veramente quelli di Sideways sono due sfigati che la metà basta. Gli statunitensi non capiscono nulla di vini. Qualsiasi nostro beone della Carnia è più ferrato di loro. Nel mio libro racconto che i newyorkesi accettano di pagare somme spropositate nei bar, anche 15 dollari, per qualsiasi bicchiere di vini imprecisati. Ti chiedono soltanto: "Red or white?", senza specificare altro. Ma è molto trendy atteggiarsi a esperti enologi. Anch'io, che di vini mi importa nulla, lo faccio a volte per darmi un tono. E il bello è che mi prendono sul serio. Sono un neocon dei vini.

LibMagazine: l'America consuma ciò che viene prodotto in Cina e India. Imperversa la serializzazione e la parcellizzazione del lavoro. La verticalità nella specializzazione alla orizzontalità. Valore educativo e formativo fondamentale e del quale si è occupato recentemente, in una lectio Magistralis, George Steiner. Ma che tipo di scuola forma gli Americani? Dove nasce questo patriottismo, questo forte attaccamento alla famiglia, alla comunità?

Mauro Suttora: Madonna come parla difficile. Io sono solo un umile cronista, come dice Bordin di Radio radicale. E poi lei usa parole inquietanti come patriottismo e famiglia. Fronterré, non è che sotto l'aspetto liberale in lei batte un cuore un po' fascistone, come Capezzone? Ho fatto l'anno 1976/77 in un liceo di Madison (Connecticut) con una borsa di studio Afs/Intercultura, ho preso il diploma e avevo A, cioè il voto massimo, in tutte le materie. E questo dice tutto sul livello dei loro licei. I primi quattro anni delle loro università, gli "undergraduate", equivalgono a un nostro buon liceo. Poi cominciano a fare sul serio. E in campo scientifico sono imbattibili: in un solo isolato della Columbia University a New York insegnano e sperimentano più premi Nobel che in tutta Europa.
Quanto allo spirito civico, è vero: ne hanno molto più di noi. Ma è semplicemente un retaggio della civiltà nordeuropea, degli emigrati anglosassoni e poi tedeschi e scandinavi. Per loro "community" significa veramente comunità. E questo a livello locale è magico. Sul patriottismo, invece, io sto con Dürrennmatt, che disse: "Quando lo stato si prepara ad ammazzare, si fa chiamare patria". Ho visitato il cimitero militare di Arlington, mi sono commosso davanti alle tombe dei Kennedy, ma vedendo tutte quelle croci di giovanissimi soldati le ho subito associate alle facce grasse e rubizze di certi grandi azionisti di industrie belliche come Boeing o General Electric o Northrop - tanto per non far nomi - diventati miliardari mandandoli a farsi ammazzare. Ma mi scusi, scivoliamo sempre in politica. Comunque grazie per l'accenno a Steiner, mi è piaciuto il suo Correttore di Bozze. Mi riprometto di leggere anche Lectio Magistralis, così mi solleverò dai livelli di Bordin.

LibMagazine: Dove andiamo? Dinamismo Atlantico. Già. Pensa che le donne italiane ci metteranno tanto a diventare così nomadi con le domande?

Mauro Suttora: Ah, sì, la frase preferita della mia ex fidanzata americana Marsha quando improvvisamente diventava seria e voleva fare il punto della situazione fra noi (traduzione: sposarsi) era: "Mauro, dove stiamo andando?". Io di solito le rispondevo: "Ma perché bisogna andare da qualche parte? Non si può restare qui, fermarsi? Non va bene così?". E lei si imbestialiva. Giustamente. Perché il motto dell'America è: "On the road". Sempre in movimento, Kerouak. E' per questo che gli Stati Uniti ci affascinano. Tutti alla costante ricerca di nuove avventure. Senza scoraggiarsi mai. Provando e riprovando. Come cantava Janis Joplin: "Try, just a little bit harder". Provaci, con un po' piu' d'impegno. In Italia invece siamo depressi perché ci rassegnamo troppo presto. In questo potrebbe avere ragione perfino Bush: a forza di rimanere in Iraq, magari alla fine vince veramente lui.
Anche la mia Marsha era testardissima, ci dava dentro finché non otteneva quel che voleva. In ogni campo: lavoro, amore. Dolcemente aggressiva, determinata. E se alla fine andava a sbattere, almeno non si trascinava dietro i rimpianti di noi europei decadenti. "A bad day is when you think about things that might have been", un giorno brutto è quando pensi a come le cose avrebbero potuto essere, sostiene nella sua 'Slip sliding Away' il mio filosofo preferito, Paul Simon (senza Garfunkel). Il peggio è Magris, con le sue troiate sulla Mitteleuropa. Ragazzi, so di che parlo, sono figlio di profughi dalla splendida isola di Lussino, ho fatto l'università a Trieste, adoro esteticamente il Caffè degli Specchi, ma di fronte a certe seghe passatiste non posso che ribattere all'americana: "Move on", andiamo avanti, procediamo. Quasi rivaluto i marinettiani.

LibMagazine: Cosa salva noi Europei? Cosa ci difende dalla subliminale e markettara capacità di persuasione d'oltreoceano?

Mauro Suttora: Nulla. Ci siamo fatti persuadere da Stalin, Hitler, Mussolini, e poi per passare dai giganti ai nani da Fanfani, Craxi, e oggi Berlusconi, Veltroni, Prodi. Prodi, ma ci rendiamo conto? Uno che appena apre bocca sembra un mongoloide. Pardon, diversamente dotato. "Verbally challenged", sfidato verbalmente, lo definivano gli inglesi quand'era presidente Ue a Bruxelles.

LibMagazine: Negli anni 90 si parlava del primato della economia sulla politica. Oggi diremmo che all'interno della economia vige il primato del marchio sul prodotto. La promozione, la comunicazione alla manifattura. Lo spopolamento delle fabbriche, la loro chiusura ha rotto quel meccanismo secondo il quale il produttore diventava anche consumatore dei beni che aveva contribuito a produrre. Nike, Shell sono simboli di una economia che veicola valori, idee, ma non produce nulla. Sono scoppiati scandali per lo sfruttamento dei lavoratori, ma il dato più preoccupante a mio avviso è l'interruzione di un certo ricambio generazionale di competenze, di saper fare. Cosa ne pensa?

Mauro Suttora: Fronterré, le ribadisco che lei parla troppo complicato. Intuisco animalescamente qualcosa di quello che mi dice e penso di concordare su quasi tutto, perché sono un figlio della controcultura anni '60 e quindi anch'io mi sono abbeverato a Marcuse e Pasolini. Posso solo risponderle che vesto Oviesse a dei marchi mi frega un cazzo, però anche questo è pericoloso perché a forza di sentirmi dire "fregauncazzo" la povera Marsha pensava che fosse un sinonimo di "fa niente", "non importa". Così quando un barista in Italia le ha chiesto se voleva acqua liscia o frizzante, lei ha risposto "fregauncazzo".
Sì, sono totalmente anticonsumista. Però rispetto al "ricambio generazionale di competenze" che si sarebbe interrotto, dipende quali. Mio padre è competente in marketing, ma se fosse stato operaio alla Breda per me sarebbe stato lo stesso, sono indifferente ai suoi "saperi" in quel campo. Invece mio nonno insegnava greco e latino, e io mi sento un suo seppure indegno discendente. Ecco, se nelle loro high school imparassero il greco e il latino forse gli americani sarebbero perfetti.

LibMagazine: lei giustamente fa notare che l'America fa molto la guerra perché fa poco l'amore. LibMagazine la ringrazia per aver cercato di invertire la rotta. Nel suo piccolo si intende!

Mauro Suttora: veramente ho ipotizzato l'esatto contrario: che in Usa oggi si faccia poco l'amore perché si fa molto la guerra. Nel senso dell'ideologia che permea il tutto, ovviamente. Non so, vediamo se riesco a contraddirmi popperianamente: negli anni '60 si faceva la guerra (in Vietnam) ma si faceva molto anche l'amore. La differenza è che allora i giovani erano 'obbligati' tutti a fare la guerra, mentre ora a morire ci vanno solo i volontari: o i fanatici, o i poveracci con nulla di meglio da fare.

LibMagazine: ha Lei una domanda per LibMagazine?

Mauro Suttora: Perché sono sempre più belle le cose fatte gratis, come questa intervista, invece di quelle a pagamento? Forse bisognerebbe abolire i soldi, come dice ogni tanto Beppe Grillo ricordando quel genio del professor Giacinto Auriti.

Michele Fronterre'

Tuesday, January 23, 2007

Mauro of Manhattan

New York Observer column, January 7, 2007

I meet Marsha’s mother two weeks after at Bloomingdales. I was lured there after work for a cocktail presentation of I don’t remember which new product. Marsha had given me an appointment at 6 p.m., and here she comes with her mummy: “We just met by chance at the first floor, she was Christmas shopping”, she tells me, false as Judas. I take it as a real ambush.

The lady looks the same as in the pictures, a nice bottle-blonde plastic-enhanced 60-year-old like 100,000 others in the Upper East Side. Fake nose, uplifted eyes, lackadaisical smile, incredibly elegant, foulard around her neck, haughty gait. Her only physical qualities, to my eyes: slim, perfect figure, beautiful legs and wonderful ankles. Like her daughter. So, Marsha too looks promising for the next thirty years. I have to confess I also took a glance at the senior’s pelvis: Marsha’s one worries me, because it’s too thin for her to become a good breeder. I know it’s shameful to admit it, I might be a maniac, but a peaceful pregnancy is an important feature of our future marriage.

Conversation with mother unwinds trivial as the phone calls between her and Marsha that I know so well: “Traffic is so horrible these days my dear, it’s impossible to go around before Christmas and it’s getting worse year after year...”
“Yes madam what a headache to find taxis and they’re useless anyway as they get trapped in the jams like any other car, the same goes with buses...”
“And let’s not talk about the subway it’s sooo overcrowded”.
Commonplace but surreal remarks, Bloomingdales being three blocks away from her penthouse. But the lady prefers to torture her chauffeur by taking the limousine, instead than walking three minutes.

“Be our guest before Christmas,” she invites-orders imperiously towards the end of our chat. I’m trapped. I can’t escape.
During the next few days I deftly negotiate the whereabouts of the gloomy family event. My last redoubt is not meeting the parents at their place, which would be tantamount to an official engagement with Marsha.
“Let’k keep it casual, what about a nice pizza at La Houppa?” I suggest with nonchalance.
La Houppa, a jewelry store on East 64th Street where they sell pizzas instead than (but at the price of) diamonds.

Arrives the lethal dinner. Marsha’s sister and her boyfriend are joining us. Will they lighten the atmosphere or make the evening more formal (the ‘whole’ family)? But, surprise: between my future father-in-law and me it’s love at first sight. We both order a capricciosa, and this similarity of taste seems to immediately raise his enthusiasm. Of course we start talking about Italy, and he goes on and on reminiscing about all of his Italian journeys.
I look at him: it’s a wonder such an angel-shaped Marsha came out of this chubby man with a red face. Softened by nostalgia and pinot bianco, he goes into raptures when I answer his question: “How do you like America?”
“I love it,” I reply, and it’s true. I omit to specify that I prefer Bob Dylan’s America to George Bush bigots: he is satisfied realizing that there is at least one European who doesn’t hate the States.
“Why do they all hate us?” he asks kind of worried.
“Well, the war in Iraq...” I begin to try and answer.
He stops me right away: “But that son of a bitch Saddam, didn’t he deserve a good blow?”
“Of course yes,” I say sincerely. And this is enough for him.
He then gets carried away by a stupid pun of mine: “We’re stuck in Iraq.”
“I love the rhyme, but in particular the fact you said ‘We’ and not ‘You’. Means that you feel like one of us. There are Italian soldiers in Iraq too, aren’t there?”
I would have never thought that one day I’d be thankful to premier Silvio Berlusconi for making me conquer my girlfriend’s father by sending troops to Baghdad. But this is exactly what happened one December night in 2006...

By now Marsha’s sturdy dad considers me one of the family, he begins to call me “son”. He forgets I’m only 15 years his junior, maybe he mistakes me for the male offspring he never had. Our idyll climaxes when we discover we both share a humiliating predilection for an obscure Sixties band called The Moody Blues.
“... ‘Nights in White Satin?” he asks me, embarrassed.
“Well, yes.”
“But it’s impossible for you to know them, son.”
“Why?”
“Because I used to dance to that song in the summer of ’67. I remember exactly the year because that’s when I met my wife. Do you remember, Jane?”
“Of course,” she says.
“Well, I remember too,” I throw myself in, “I was seven years old and they always played it in the jukebox at the Termoli beach, Molise region.”
This accuracy of mine makes him adore me: “I love precise people.”
Now that I understand he’s stuck like me at the anal stage, I turn pitiless: “In Italy that song was mostly successful in a cover version, translated by the band Dik Dik.”

The typical Virgo orgasm I know he’s reaching at this very moment makes him forget to calculate my real age: knowing I was seven 39 years ago, it wouldn’t be difficult (“Mauro is fortyish,” Marsha had lied to him). On the contrary, he states ecstatic: “‘Nights in White Satin’ is the best slow song ever. We used to dance to it in Washington, do you remember dear?”
“Sir, allow me to place it at the same level of ‘A Whiter Shade of Pale’ by Procol Harum, from that same summer.”
He turns slowly his head from his wife to me. He’s overwhelmed. He looks at me wet-eyed: “Son, you are the Bible, you are a living encyclopedia, you, you are... fantastic! You are so right, oh, the Procol Harum! How could I forget them?”

Marsha hates these retro musical predilections of mine. Our conversation is boring her. She discovered the Moody Blues and Procol Harum only because we had a small fight when I dared to invite her to one of their concerts: “Listen Mauro”, she had replied, “to be honest with you I really can’t stand that kind of music. A few days after we met you dragged me to a Jorma Kaukonen or whatever-was-is-name concert, and I accepted only because I was thrilled by all of your invitations, and because I thought it would be a palatable thing anyway. But let me tell you, that was a real drag. Now, if you want to make up for all of your lost time go ahead and do it, but please don’t you ever try and involve me again in one of these so very sad revivals of yours... No wonder they take place in places named with sad names such as The Bottom Line or The Bitter End, which sooner or later have to close down like the Cbgb due to the death of all of their customers, not to talk about the Beacon Theatre where you took me to watch the Allman Brothers, surrounded by drunk beer-smelling and pot-smoking 60-year-old New Jersey truckers...”

So, I have to go by myself to the concerts of all of my idols from the Sixties, some of whom never ventured in concert in Italy in the past 30 years, such as Crosby Stills and Nash, Jefferson Airplane, Steve Winwood, James Brown, Arlo Guthrie or the Eagles. In the famed Town Hall theatre, where Charlie Parker invented bebop jazz in ’45, I saw Art Garfunkel coming out of the formalin with exactly the same hair from decades ago. But this didn’t stop me from renting a car to go to as far as Albany in order to admire him again, this time coupled with Paul Simon.
Sometimes I even venture into fan club meetings, such as the yearly world reunion of Leonard Cohen at Columbia university in 2004, only to discover I have nothing in common with that bunch of alienated nerds. I reached the top in Alexandria, Louisiana, during a Mardi Gras with Chubby Checker, the inventor of twist, which was the first music I danced to in 1963 at the Lignano beach (my father shot a super8 home movie to document the event). I have no friends in New York City to share this nostalgia perversion with, except for my Italian journalist colleague Christian Rocca with whom I went to see Neil Young at Radio City Music Hall just before (or was it after?) the stroke that he brilliantly survived.
But now, here is my prospective father-in-law as companion of future raids into catheterock. Those type of concerts are challenging and never-ending, because at half-time the musicians always promise: “We’ll be back in a moment”. That is never true: intermissions last at least three quarters of an hour, as the public of former hippies has weak prostates, everybody needs to take a pee, so endless queues form in front of the toilets.

After the musical acme, we reach for the desserts. If he could, now Marsha’s father would marry me directly, instead than giving me his daughter. Or he would immediately appoint me director of his company, which produces bottle caps. I already see myself swimming in a sea of caps, like Scrooge swimming in his golden money. He inquires absentmindedly about my job, and delivers his presumptuous advise: “Son, the future of journalism is in the web”.

I feel like Dustin Hoffman in ‘The Graduate’: “Thank you very much, I had never thought about it”, I almost reply, but I don’t want to ruin the superfriendly atmosphere. He seems impressed by the fact that I have been writing for ‘Newsweek’ and ‘The New York Observer’: “They’re way too liberal for my taste, but I love the real estate column of the Observer”.
Dinner ends talking real estate: Marsha’s parents are about to buy something for her sister: “Maybe a little condo in Trump’s Park Avenue”, drops mother Jane. “I heard the same apartment costs one million more if you go up just one store: ten millions on the twentieth, eleven on the twenty-first, and so on...”, she adds, faking ignorance (her only read besides women’s mags is real estate, as well).

Now, this is an incredible oblique way to tell me: “Son, be good, kneel down in front of Marsha, give her the ring, become her puppy-dog, and you’ll be rewarded with the same godsend which is about to come down on that schmuck future brother-in-law of yours...” Such a cheap shot, very cheap, let me tell you madam. You were able to ruin with only a few word the magic atmosphere your husband had built between me and the Family. Because you surely know, your beloved daughter must have told you, that the building at the corner of Park and 59 bought and renovated by Donald Trump in 2004 is the former Delmonico Hotel, famous for hosting the Beatles during the summer of ’64, the second time they came to New York (the first time they stayed at the Plaza). It was there they met Bob Dylan, who offered them their first joint. That’s why it looks so irresistible to me, although I must be the only one - among the foreign billionaires buying there thanks to the weak dollar - to know about this.

We get out of La Houppa, exchange our greetings, and I take a taxi with Marsha. She is radiant with happiness: “Mauro, this was such a success! They love you.” I feel like I am about to dive into a fast, asphyxiating engagement, as light as quick setting concrete. If not in the Delmonico, I’ll end up in one of those terrorizing penthouses reachable by pressing PH in the elevator, but only if you have the key to insert on the side. And once you are up, you find yourself directly in the house, there is no landing. When I’ll have parties I’ll be obliged to spend thousands for catering at Fauchon, and waiters in uniform will wander around my place.
Most of all: we’ll not even be able to reach the Hamptons by helicopter, because Marsha, like her mother, is going to object: “What if someone we know spots us at the heliport, finding out we can’t afford to buy one, and that we are reduced to rent?”

Mauro Suttora

Thursday, December 07, 2006

Corriere della Sera: Severgnini su No Sex in the City



GRANDE MELA
La Manhattan degli «affari galanti» raccontata da Mauro Suttora

Non troppo sesso, per favore. Siamo a New York

7 dicembre 2006

di Beppe Severgnini

recensione sul Corsera

Mauro Suttora voleva scrivere un saggio, e per fortuna non c'è riuscito. Ha prodotto invece un romanzo breve e un lungo affresco: e questi gli sono venuti piuttosto bene (No sex in the city - Amori e avventure di un italiano a New York, Cairo Editore, pp. 206, 14 euro).

No sex in the city - dove di sesso ce n' è abbastanza - è uno dei rari ritratti efficaci della città più complicata e nevrotica d' America: New York. Molti italiani hanno provato a dipingerlo, con risultati che vanno dall' infantile al disastroso. Perché quasi tutti, della Grande Mela, hanno una fifa blu (interamente giustificata). Quando la superano - di solito, dopo pochi giorni - cadono in una specie di euforia, che gli impedisce di andar oltre, e capire dove sono finiti.

Le avventure galanti sono, in realtà, una scusa per mettere il naso nelle faccende sociali, mondane e professionali di Manhattan. Talvolta si ha l' impressione che Suttora salisse in casa delle ragazze per studiare l'arredamento, e riferircelo.

Alcuni rapporti sono esilaranti: la ragazza che non vuole baciare, quella che si scatena solo in taxi, quella che lo pianta per email. C'è anche un focoso incontro notturno sul tappeto del Rizzoli Bookstore nella 57esima strada, un luogo dove alcuni di noi si sono limitati a presentare, ogni tanto, un libro.

Ripeto: il sesso, negato nel titolo, esiste. Ma è una scusa, e per l' autore non è una priorità. Più che dalle gambe e dai seni, Mr Suttora è ipnotizzato dalla pancia di Manhattan - in senso metaforico, naturalmente. Corrispondente per il settimanale «Oggi» - i newyorkesi capiscono sempre «orgy», orgia, e restano perplessi - l'autore ha scritto anche per «Newsweek» e «New York Observer», dov'è nata la rubrica che ha dato il titolo al libro.

Per uscire dalla cuccia calda della corrispondenza ci vuole coraggio, Suttora l' ha avuto, ed è stato premiato. Nei media di New York sanno chi è, e non sarei stupito se un editore americano mettesse gli occhi sul volume. Alcune intuizioni sono folgoranti. Il quarantenne Mauro - che è più abbagliato dalla mondanità di quanto voglia farci credere - riesce tuttavia a restare un italiano con gli occhi aperti.
Racconta che troppe donne newyorkesi «parlano con la voce di Topolino» (un fenomeno che la scienza non ha ancora spiegato); che i ristoranti francesi sono in crisi, e quelli italiani no; che la tariffa fissa telefonica (flat rate) è una jattura, perché i taxisti di Manhattan sono sempre al cellulare, e confabulano come zombie in lingue misteriose, disinteressandosi di chi hanno a bordo.

I personaggi del libro vengono attivati a turno con pochi tocchi, e un dialogo che fa invidia a tanti affermati narratori nostrani. Tra le ragazze americane (Marsha, Liza, Maria, Danielle, Paula, Susan, Adrienne, Nicole: dimentico qualcuna?) compare anche qualche collega italiano (Giuliano Ferrara, Guia Soncini, Christian Rocca, Simona Vigna, lo ieratico Cianfanelli).

No sex, per loro: ma contribuiscono a movimentare il racconto, che procede con leggerezza per duecento pagine fino a un finale sorprendente. «Adoro i flip-flop, le ciabatte infradito: sono sexyssime», scrive l'autore appena sopra la parola «fine». Questa, Suttora, devi proprio spiegarmela.

Beppe Severgnini

Saturday, November 18, 2006

Un'americana a Roma

UN'AMERICANA A ROMA

di Mauro Suttora

New York Observer

Roma, sabato 18 novembre 2006


Marsha, la mia fidanzata newyorkese, ha appena scoperto che oggi si sposano Tom Cruise e Katie Holmes. Siamo anche noi a Roma in queste settimane. Abbiamo affittato un loft in via Margutta 33. 
Marsha era diventata pazza quando ha saputo che in questo stesso palazzo abitò per sei mesi Truman Capote, nel 1953:  "Lo voglio" .
"Ma ci chiedono tremila euro al mese", ho obiettato.
"Li vale", ha detto con gli occhi brillanti di gioia. "E poi, Mauro, non noti nessuna coincidenza?" 
"No".
"Le date".
"Cioè?" 
"Fifty-three and fifty-three..." 
"Cinquantatre?" 
"Sì, era il '53 quando Truman visse qui, e da allora sono passati esattamente '53 anni. Non è fantastico?"

 
Adoro Marsha per questi suoi improvvisi entusiasmi puerili. È un ex modella stupenda, abbastanza anoressica ma affamata di vita, curiosa di tutto e facilmente eccitabile (anche sessualmente) da piccoli particolari riguardanti celebrità del passato e del presente.
Poter abitare lo stesso posto dove Capote visse più di mezzo secolo fa - quando non era nessuno se non un giovane ricco americano gay aspirante scrittore - ma soprattutto poterlo poi raccontare alle sue amiche, la fa andare al settimo cielo. Come se le pareti di questo ex studio di pittore riuscissero ancora trasudare storia ed emozioni. Probabilmente non ha mai letto nulla di Capote, neanche 'A sangue freddo'. Lo conosce solo dal film del 2005 con Philip Seymour Hoffman. Ma fa niente. Basta il nome. Ormai lei lo chiama confidenzialmente Truman. È diventato un nostro intimo, post mortem.


Marsha è innamorata di Roma. C'è già stata altre volte, con altri uomini. Io sospetto che sia più innamorata di Roma che di me. Sono quasi geloso.
"Vuoi me o i miei soldi?", chiedono le miliardarie di Manhattan ai loro spasimanti.
"Vuoi me o l'Italia?", domando io alle ragazze di Manhattan che diventano improvvisamente troppo cordiali quando scoprono che vengo dalla terra di Dolce & Gabbana e del pinot grigio che amano ingollare.


Ho conosciuto Marsha due anni fa a un cocktail-party a New York, dove sono corrispondente per un settimanale italiano. Bellissima 29enne, occhi azzurri, gambe da sogno, è rimasta a lavorare nel mondo della moda. Mi porta con lei a tutti i fashion events  di Manhattan, dalle sfilate di Calvin Klein ai gala al Waldorf e ai vernissage dei nuovi negozi sulla Quinta Avenue.


Ho ricambiato con questo soggiorno a Roma. Avevo fatto una ricerca su Google per controllare la questione di Capote. Sì, è vero. Non solo abitò nel palazzo, ma dieci anni dopo descrisse il suo soggiorno romano in un racconto titolato 'Lola', dal nome della cornacchia con cui conviveva. Probabilmente l unico animale femmina che abbia mai amato in vita sua...


Cazzeggiando sui internet, però, ho fatto un altra scoperta. Sconvolgente, per una drogata di celebrity come Marsha. In via Margutta 33 girarono anche il film 'Vacanze Romane'. Sempre in quel fatidico anno, 1953. Glielo dico quando torna a casa, nel nostro appartamento di West End Avenue. Lei ha quasi un orgasmo: "Reeeally?" 
Va subito a controllare sul computer. "Wow!", urla.
Ora, bisogna sapere che più passano gli anni, più 'Roman Holidays' è diventato per gli americani il simbolo di tutto ciò che c'è di attraente in Italia: dolce vita, amore, uomini romantici.

"E Gregory Peck era giornalista come te Mauro, un'altra incredibile coincidenza", mi sussurra Marsha con i suoi occhioni sognanti.
Mi bacia: "Sarò la tua principessa Audrey Hepburn..." 
Va a sdraiarsi sul divano, facciamo l'amore. Viene prima di me (non capita spesso). Per fortuna l'agenzia immobiliare non ci ha chiesto cinquemila euro: temo che a quel punto Marsha avrebbe pagato qualsiasi cifra per un mese in quei 60 metri quadri con soppalco.

Arriviamo a Roma, il posto in via Margutta è in effetti delizioso. A me per la verità ricorda una casa di ringhiera milanese con ballatoio, ma Marsha è così emozionata che arrivata in cima alle scale del cortile interno, pieno di oleandri, ciclamini, glicini e palme, apre la porta del loft a due piani, grida "I'm so happy, Mauro!". 

Mi trascina dentro con le valigie, richiude la porta, mi abbraccia, mi bacia interminabilmente e intanto si sfila le mutandine. È umidissima (a New York non capita spesso:  "Sono stressata", dice sempre). Mi stringe a sè, vuole che la prenda in piedi sulla parete. Mugola dal piacere, le devo tappare la bocca, gode quasi subito (a New York non capita spesso, senza l'ausilio di un dito: "Sono clitoridea", mi ha spiegato solenne).

Qualche giorno dopo, Marsha scopre sui giornali la terza coincidenza: Cruise e la sua fidanzatina Kate sono all'hotel Hassler, a duecento metri da noi, sopra piazza di Spagna. E si sposano proprio oggi, in un castello sul lago di Bracciano. 

"Dov'è?" 
"Lontanissimo, Marsha".
"Quanto lontano? Vicino a lake Como?" (chissà perché i newyorkesi conoscono solo il lago di Como e l'albergo Villa d'Este).
"Ecco. Più o meno", baro per togliermi l'impiccio.


Marsha però è relentless, testarda. Come Bush. Quando si mette in testa una cosa, addio. Mi trascina per via del Babuino e su per la scalinata di Trinità dei Monti. Davanti all'hotel Hassler troviamo radunata una piccola folla. È l'una.
"Che succede?", domando ai curiosi.
"Ora escono", mi risponde uno sfaccendato.
"Ok Marsha, andiamocene. Non possiamo aspettare qui come due deficienti, chi se ne frega".
"No, dai, fammi vedere".
"E se escono fra tre ore? Non vedo nessuna limousine parcheggiata qui vicino. E poi, vedi: ci sono solo turisti, perditempo. Agli italiani non frega nulla di questi cosiddetti  matrimoni del secolo . Anche perché ne vediamo da 27 secoli..." 
"Dai, non fare il blasé. Non fare finta, che sei excited pure tu. Siamo testimoni di  history in the making, la storia che si compie sotto i nostri occhi..."

 
Fortuna che le rimane un po  di autoironia. In fondo si è laureata con una tesi su Derrida.
"Su, torniamo a casa", la tiro per il braccio.

Il mio obiettivo è passare qualche ora a letto a leggere i giornali, come facciamo ogni sabato a New York con i due chili del Times del week-end.
"Eccoli!", strilla Marsha improvvisamente.
In effetti una Mercedes nera si ferma di fronte all'entrata dell'Hassler.
"Ma sono Jennifer Lopez e Victoria Beckham", la informo, allungando il collo. "Il peggio del peggio. Saranno fra le invitate. Stanno entrando, non esce nessuno. Andiamo via".
"Prima o poi Tom Cruise e Katie dovranno uscire. Il matrimonio è previsto per le sei. In un castello. Anch'io sogno di sposarmi in un castello..." 
Ecchetela. Afferro il messaggio subliminale.
"Dai Mauro, portami al castello. Andiamo a vedere Bracciano. Prendi l'auto. Quant'è lontano?" 
"Ma almeno cento miglia", mento, loro ci andranno in elicottero".
"Eccoli!" 
Un gippone con i vetri fumé esce dalla porta di servizio e sgomma via. Impossibile vedere chi c'era dentro.
"Seguiamoli, corri a prendere l'auto al parcheggio!"

 
Marsha è così sovraeccitata che non tento neppure di contraddirla. Sono innamorato, mi piace regalarle qualcosa qui in Italia. La amerà ancora di più, e di riflesso amerà anche me. E poi, per dirla tutta, questa sua energia molto americana risulta assai sexy per un pigro e scettico europeo come me.

Dopo venti minuti siamo in auto. È un pomeriggio brillante di sole dopo un temporale, i pini marittimi lungo la Cassia esibiscono un verde intenso, guido e sono felice vedendola felice.
"Pensi che il castello sia circondato da poliziottotti, assediato da giornalisti e cose del genere?", mi chiede.
"Certo. Ma anch'io sono giornalista. Riusciremo a passare, non preoccuparti".
Arriviamo a Bracciano alle tre del pomeriggio. Per fortuna Marsha è totalmente ignara di geografia italiana, e non mi chiede conto della mia bugia sulla vicinanza con il lago di Como. Bella cittadina, non c'ero mai stato, nessuno in giro. Parcheggiamo. 

'Cinquantamila curiosi per le nozze di Tom', titola speranzoso un giornale appeso a un edicola. Ce ne saranno a malapena cinquanta nella vecchia strada che ci porta in centro. Quando arriviamo nella piazza di fronte al castello Odescalchi, vedo un piccola folla di reporter con telecamere di fronte all'entrata. Vado a salutare Umberto Pizzi, il mio amico paparazzo autore della rubrica Cafonal sul sito Dagospia. Ci sono perfino due elicotteri che girano rumorosi attorno agli spalti.

"Mauro, I lllove this castle!"

Marsha è abbacinata: "Ha otto torri invece di quattro, è enorme. Ho deciso: ci sposeremo anche noi qui!" 
"Certo, cara. Ho letto sul giornale che anche Keira Knightley ora vuole un matrimonio a Bracciano. Sta diventando di moda sposarsi qui..." 
Alcuni colleghi mi riconoscono: "Suttora, ma non stavi a New York? Sei venuto apposta per Tom Cruise?" 
"Ovvio", invento, "e la mia fidanzata americana Marsha è fra gli invitati, perché fa parte della setta di Tom, Scientology. Così entro pure io".
"Allora quando sei dentro ti chiamiamo sul telefonino, così ci descrivi la cerimonia. Ci sarà anche una cena? Chi sono gli invitati? Quando entri? È vero che John Travolta è arrivato a Ciampino col suo jet privato?" 
"Ragazzi, io ci provo, ma non posso creare problemi a Marsha. Vedremo..." 
Intanto lei mi guarda. Conosce un po' d'italiano, e capisce che ho trovato un modo per infilarmi nel maniero.
"Beh, prima d'entrare voglio mostrare il paese e il panorama sul lago alla mia fidanzata, sta per fare buio. Ci vediamo più tardi..." 

Prendo Marsha per mano e andiamo sul retro del castello. Ci sediamo a un bar.
"Mauro, allora riusciamo a entrare?" 
"Figurati, è sigillato peggio del Cremlino".
"Ma avevo capito..." 
"Hai capito bene: con i miei colleghi giornalisti ho fatto finta che tu fossi invitata, e io con te, ma che non possiamo dire nulla. E ora andiamocene, altrimenti scoprono lo scherzo".


Passeggiamo per Bracciano, sul lungolago e in centro. Marsha si calma, e improvvisamente non gliene importa più nulla del matrimonio del secolo. La sua finestra di attenzione si è esaurita, la curiosità saziata: le è bastata la visione del castello. La amo anche per questo: cambia idea spesso, e in fretta.
Torniamo in città al tramonto. Guidando, le canto la canzone più famosa su Roma: "Arrivederci Roma, goodbye and au revoir/Voglio rivedere via Margutta..."

 
I miei colleghi resteranno di fronte al castello fino alle tre del mattino, senza riuscire a vedere nulla. Marsha ed io, invece, siamo di nuovo vip-free. Ceniamo a lume di candela nella nostra trattoria preferita, Edy in vicolo del Babuino. Poi saliamo a dormire nella stanza di Truman, nel palazzo di Audrey e Gregory.  

"È vero che la parola romantico deriva da Roma?", mormora Marsha prima di chiudere soddisfatta gli occhi azzurrissimi. La guardo con tenerezza: ora che dorme, sembra veramente la principessa di 'Vacanze Romane'.
Mauro Suttora