DA SPARARSI
Un italiano a Manhattan: le americane godono solo con lo shopping. Da oggi nei cinema 'Sex in the City'
Libero, 30 maggio 2008
di Mauro Suttora
«Scusa Mauro, questo tuo articolo è ben scritto e divertente, ma non pubblichiamo vendette private. E poi parole come "frigidità" e "clitoride" rimangono ancora off limits per noi».
Così il vicedirettore del settimanale Newsweek bocciò una delle column che avevo scritto per loro. Era il 2004. Come sempre d’estate a New York faceva un caldo umido brutale, e io ero disperato perché la mia fidanzata americana mi aveva mollato. Di colpo, con un'e-mail. Non voleva più vedermi, né sentirmi al telefono. Eliminato senza discussioni dopo tre mesi di amore (un periodo medio-lungo, per i ritmi nevrastenici di Manhattan).
Mi sembrava di essere improvvisamente piombato dentro una puntata di "Sex and the City". Anche perché la mia Liza, trentenne imperiosa dai lunghi capelli lisci e tacchi a spillo, assomigliava a quelle quattro. Anzi, ne era la fusione: sexy come Samantha, dolce come Charlotte, abrasiva come Miranda, brillante come Carrie. E drogata di shopping come tutt'e quattro.
Per due notti dormii poco, per tre giorni mangiai pochissimo. Mentre andavo a lavorare alla Rizzoli, sulla 57esima Strada, mi veniva da vomitare per i miasmi provenienti dai ristoranti cinesi. Poi, avendo il triplo degli anni di un adolescente, vidi il lato comico della tragedia. E cominciai a scrivere. Da allora non ho più smesso. E sono diventato uno dei massimi esperti mondiali di quella inimitabile specie animale che sono le donne di Manhattan. Ho perfino scritto un libro su di loro: «No Sex in the City» (Cairo, 2a edizione 2007).
Cestinandomi l'articolo il caporedattore di Newsweek mi fornì un consiglio prezioso: «Perché non lo proponi al New York Observer? Quelli sì che lo apprezzerebbero». L'Observer: il settimanale in carta rosa dei radical-chic newyorkesi. Sessantamila copie vendute quasi tutte nell'Upper East Side, dove vivono i miliardari, e d'estate negli Hamptons, dove i Rockefeller e i Vanderbilt svacanzano sempre assieme, in gregge, fin dai tempi di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby.
Quattro cose sono rimaste uguali da quei clamorosi anni Venti: il colore assurdamente giallo canarino e verde smeraldo dei vestiti estivi, le donne ridanciane e vogliose di parties, le auto veloci e il tasso alcolico.
Manhattan è, dopo la Carnia, il posto al mondo dove si beve di più. Per un motivo semplice: quando si smette non occorre prendere l’auto per tornare a casa, basta gettarsi in un taxi o in un vagone del metrò. Ma anche perché le donne di Sex and the City hanno bisogno di un bicchiere per cominciare a parlare, del secondo per sorridere e del terzo per disinibirsi. Al quarto però crollano, quindi la «finestra di opportunità» (come la chiamano gli americani, in marketinghese) per noi maschietti è molto stretta.
All’Observer sono stati felici di pubblicare il mio articolo, in cui descrivevo da entomologo la frigidità della mia apparentemente sexyssima (pantaloni aderenti color leopardo) ma in realtà anoressica e anorgasmica Liza, e la tendenza sua e di tante newyorkesi (statistiche alla mano) a soddisfarsi da sole, accarezzandosi il (la?) clitoride. Infatti il motto delle femmine di Sex and the City è: «Perché accontentarsi di un uomo, quando si può avere un intero dito (il proprio)?»
Sia chiaro: come tutti gli italiani, ero e continuo a essere perdutamente innamorato dell’America e di New. Ma un conto è divertirsi osservando le traversie delle quattro smandrappate di Sex and…, un conto è viverci dentro. Un inferno.
Liza (ma poi anche Marsha, mia fidanzata per un anno) smetteva di lavorare alle sei, e mi invitava a qualche «evento»: un aperitivo, l’inaugurazione di un negozio, la vernice di una galleria d’arte, la presentazione di un libro. Poi il ristorante. Le «ragazze» di Manhattan (si fanno pateticamente chiamare «girls» anche a 50 anni) si atteggiano a superfemministe, ma accettano svelte il conto pagato dal maschio. Dappertutto: dal cocktail al ristorante, dal taxi alla discoteca. Se poi gli lasci la tua carta di credito in un negozio di scarpe, borse o vestiti, ti sposano subito.
Tornavamo a casa dal Soho Club (di moda quattro anni fa) dopo mezzanotte. In taxi ci baciavamo, lei era focosa, ma arrivati su si lanciava sotto la doccia. Io la aspettavo speranzoso a letto. Però alla fine mi diceva: «Sono distrutta. Dormiamo, dai».
Al mattino di svegliava alle sei. Si metteva la tuta, le scarpe da ginnastica, e scendeva a far jogging a Central Park. Se pioveva o faceva troppo freddo o caldo, tapis roulant in palestra. Tornava a casa accaldata, rossa in viso, sensualissima. Io ero pronto, ma lei mi sgusciava via: doccia. E dopo era ormai «troppo tardi, devo correre al lavoro». Usciva di casa alle otto senza aver fatto neppure colazione: comprava un bicchierone sotto da Starbucks, e se lo portava in metro.
«Sono stressata, ho bisogno di relax», mi diceva per giustificare questa sua riluttanza all’accoppiamento. Io cercavo di spiegarle che il sesso serve appunto a rilassarsi. Ma lei non capiva: per gli americani il sesso è una specie di ginnastica, un’ulteriore attività pratica che si aggiunge alle tante altre. E in caso di problemi c’è sempre una guida che in 12 step li risolve.
Si rilassava nei wek-end, questo sì. Quindi facevamo regolarmente l’amore al sabato. «Come gli svizzeri», le ho detto. «Adoro il cioccolato svizzero», ha risposto, ignara del mio sarcasmo. Nonostante le scollature e il leopardume, a letto era più fredda del monte Bianco. «Non vengo mai la prima volta», mi disse Liza dopo un deludente debutto. Aspettai con trepidazione la seconda volta, e mi diedi un sacco da fare. Niente. «Vengo raramente», annunciò distrattamente. «Ma mi piace anche così», precisò subito, per non fare la figura della «loser», la perdente.
Ecco, questo è il vero Sex nella city. Certo, non si può generalizzare. New York resta la capitale del mondo gaudente, e ha il più alto tasso di single del pianeta. Quindi a letto ci si arriva facilmente. Ma è sul materasso che cominciano i dolori. Perché Carrie e amiche raggiungono molto più facilmente la soddisfazione comprando sandali Manolo Blahnik (la mia Liza preferiva il negozio Jimmy Choo di Madison Avenue, da me soprannominato «dai 200 ($) in su»). No Sex in the City.
Mauro Suttora