Thursday, September 05, 2024

Le donne afghane cantano, e cantano Bella Ciao


di Mauro Suttora

Contro la tirannia dei talebani, come le donne iraniane contro quella degli ayatollah. Un canto dalle origini misteriose che ormai è l’inno di resistenza in tutto il mondo (solo in Italia ci si litiga sopra)

Huffingtonpost.it, 5 settembre 2024

E con l'Afghanistan ha fatto l'en plein. La nostra canzone Bella Ciao è diventata indiscutibilmente l'inno per la libertà più celebre del mondo, dopo che perfino le ragazze afghane lo hanno adottato per protestare contro l'ultimo decreto dei talebani. 

Due settimane fa il loro capo Hibatullah Akhundzada ha promulgato 35 articoli che vietano alle donne di avventurarsi fuori casa da sole: perfino sui bus devono essere accompagnate da un tutore. Ma, soprattutto, non possono più parlare nei luoghi pubblici. Né leggere ad alta voce. E men che meno cantare.

Si è scatenata allora la loro rivolta. Che si sparge nel mondo tramite i social, con il canto collettivo di Bella Ciao tradotto nella lingua pashtun.

La fortuna internazionale del brano è abbastanza recente. Ma non c'è manifestazione politica degli anni 2000 che non l'abbia scelta come propria bandiera. Dai turchi contro il presidente Erdogan ai curdi di Kobane, dai greci antiUe ai Fridays for Future verdi, fino ai francesi colpiti dagli attentati al Bataclan, agli argentini, o alle giovani iraniane torturate dagli ayatollah. 

Al successo planetario ha contribuito la serie spagnola La casa di carta, trasmessa da Netflix. E poi il remix del dj di Marsiglia Hugel, che dal 2018 ha ottenuto solo su YouTube 200 milioni di visualizzazioni. Così Bella Ciao ha soppiantato tutti gli altri canti da manifestazione: Marsigliese, Internazionale, Blowin' in the Wind, Imagine. 

Una bella soddisfazione per noi italiani. Che però non ne conosciamo le origini. Inno della Resistenza antifascista? Falso. "Non l'abbiamo mai cantata", assicurò Giorgio Bocca. Al quale però la cantarono i compagni partigiani al suo funerale nel 2011. 

Perché nel frattempo Bella Ciao era stata adottata dagli antifascisti, a ogni 25 aprile. Pare che la canzone sia stata presentata per la prima volta fuori d'Italia a un Festival internazionale dei giovani comunisti a Praga nel 1947: un successone. 

Ma ancora negli anni '50 le raccolte degli inni della Resistenza la ignoravano. La data spartiacque è il 1964, quando l'orecchiabilissimo ed entusiasmante motivo fu presentato al colto festival di Spoleto dal gruppo folk Canzoniere Italiano. 

Da allora ogni corteo di sinistra in Italia l'ha intonata a squarciagola, con tanto di battimani nel ritornello. Ma anche i democristiani, dopo il congresso che elesse segretario il partigiano Benigno Zaccagnini nel 1975. 

Personalmente ricordo i cortei di noi liceali udinesi che negli anni '70 la cantavamo quando arrivavamo all'altezza di viale Ungheria, i cui alti palazzi producevano un fantastico effetto rimbombo (poi urlavamo anche "Ce n'est qu'un debut, continuons le combat!", che però la cadenza friulana trasformava in un incomprensibile "Senné Zandegù...", dal nome di un famoso campione di ciclismo). 

Ma allora, se all'inizio non era un canto partigiano, da dove viene Bella Ciao? La prima melodia simile fu incisa nel 1913 da un musicista tzigano, e in effetti l'atmosfera è quella dei brani yiddish: un po' slavi, un po' ebraici, sicuramente europei orientali. 

Nella valanga di ricostruzioni storiche non mancano le canzoni delle mondine, i partigiani della Maiella e le musiche dalmate. Con annesse dispute su diritti d'autore, accuse di plagio e appropriazioni indebite. Ma alla fine nessun autore né paroliere riconosciuto: una canzone popolare appartiene al popolo.  

Forse è giusto che sia così. Le origini dei miti hanno da essere un po' nebulose, altrimenti si perde l'alone del mistero che crea la leggenda. E magari ci si riduce ad attribuire a Yoko Ono il testo della splendida Imagine del povero John Lennon. 

Friday, August 09, 2024

In fila per tre. Per l’Educazione alla Patria ci bastino le Olimpiadi



Il ministro Valditara (uomo simpatico e poco marziale) vuole una scuola che insegni l’amore della bandiera. Che, per Dürrenmatt era l’anticamera della guerra. Ascoltate Bennato e anche l’inno di Mameli, ma solo per festeggiare una medaglia d’oro

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 9 agosto 2024 

“Patria, rispetto, impresa: nuova educazione civica per rispettare i valori. Nessuna ideologia, solo buonsenso”. Così annunciava ieri (8 agosto) sul Messaggero il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Scusate, sarò anche un vecchio anarchico, ma io quando sento la parola “patria” metto sempre mano alla pistola. Quella ad acqua, naturalmente, l’arma preferita dal generale Vannacci. Pure lui campione di “buonsenso”, altro concetto da orticaria se maneggiato in politica invece che dalla nostra nonna. E che infatti conchiude il proclama agostano del ministro.

A me mi ha rovinato Friedrich Dürrenmatt, massimo scrittore svizzero: “Quando inizia a farsi chiamare Patria, lo stato si prepara ad uccidere”. Ci stavo pensando stamane, alla notizia dei mille soldati ucraini in sortita disperata verso Kursk, territorio russo. Avevano detto che volevano solo recuperare l’Ucraina invasa da Vladimir Putin, e va bene. Eccovi le armi per difendervi. Ma se la miglior difesa diventa l’attacco, allora la guerra è infinita. E anche persa, visto che i giovani ucraini cominciano a fare marameo al servizio militare.

Mezzo secolo fa Edoardo Bennato, altro grande libertario, cantava: “Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere / e ad amar la patria e la bandiera. / Noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori / e discendiamo dagli antichi romani”.

La canzone, ‘In fila per tre’, continuava così: “Sei già abbastanza grande e forte, ora farò di te un vero uomo. / Ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l’onore / ti insegnerò ad ammazzare i cattivi”.

Ecco, a me il ministro Valditara sta simpatico. Anche perché è il sosia di Gianfranco Rotondi, bonario democristiano eterno. Quindi nulla di meno marziale. Però la sua minaccia patriottica arriva solo due giorni dopo l'accordo Rai/ministero della Difesa per “favorire la diffusione, la cultura e la conoscenza delle Forze armate”. Ohibò, tanti bei documentari sui proiettili da 155 millimetri? Sui droni da 20mila euro capaci di distruggere aerei da 60 milioni? O sui bazooka da 200mila euro con cui gli ucraini annientarono i tank russi da cinque milioni l’uno?

Scusate se riduco il grande Valore della guerra, della difesa della Patria, a una misera questione di soldi. Ma troppi, con la scusa dell’Ucraina, ne approfittano per chiedere l’aumento delle spese militari.

Certo, i nostri figli hanno dimenticato cos’è la guerra. Sui social dialogano con i coetanei in Nuova Zelanda. Lontanissimi dalla muffa di Valditara. Niente più naja, niente più confini in Europa. È proprio grazie alla scomparsa delle patrie che abbiamo conquistato 80 anni di pace.

Il nostro nazionalismo lo sfoghiamo in modi più intelligenti: inorgogliendoci quando il tricolore sventola alle Olimpiadi. Barricati non più nelle trincee, ma nell’aria condizionata delle nostre case, ci entusiasmiamo per gli inni di Mameli ai nuovi eroi: non più in divisa, ma in tuta sportiva.

E ci viene un senso di estraniamento quando subito dopo, nei tg, vediamo vecchi ayatollah in ciabatte o terroristi vestiti di nero gridare alla distruzione di Israele. È come precipitare indietro di mille anni. Si sfogassero andando a gareggiare a Parigi: è l’unico modo per vincere in un mondo civile. Per far trionfare la propria Patria. 

Sunday, August 04, 2024

Mondadori, Adelphi, Berlusconi: replay della guerra di Segrate?



di Mauro Suttora

Due quote e due nemici

Huffingtonpost.it, 4 agosto 2024

Ci risiamo, 36 anni dopo. La Mondadori di Marina Berlusconi acquisisce un'opzione per il 10% della casa editrice Adelphi. Gliela cede una figlia del fondatore Roberto Calasso. Soltanto due mesi fa però Feltrinelli, acerrima concorrente di sinistra della Mondadori, aveva acquistato anch'essa un 10% di Adelphi da un altro ramo di eredi. Due galli con la zampa  in un solo pollaio. 

Replay della guerra di Segrate? Nel 1988, dopo la prematura scomparsa di Mario Formenton, Leonardo Mondadori vendette a Silvio Berlusconi la sua quota della società di famiglia. "Traditore!", gli urlarono i parenti. Salvo, pochi mesi dopo, cedere anch'essi alle lusinghe del Cavaliere e consegnarli la maggioranza della Mondadori. La quale nel frattempo era diventata un gigante, perché Eugenio Scalfari aveva venduto la sua quota del gruppo Repubblica-Espresso a  Carlo De Benedetti, l'altro grande azionista di Mondadori.

Inizia così un duello all'ultimo lodo fra Berlusconi e De Benedetti. In palio il più grande editore italiano: libri, il principale quotidiano nazionale, decine di periodici. Il quasi monopolio dei settimanali, allora influenti politicamente e ricchi di pubblicità: Panorama ed Espresso, solo il rizzoliano Europeo restava fuori dal giro. 

Un lodo estromette De Benedetti dalla maxi-Mondadori, poi una spartizione ideata dall'andreottian-fascista Giuseppe Ciarrapico restituisce Repubblica ed Espresso all'Ingegnere. Il quale una ventina d'anni dopo, alla fine di tutti i processi, riuscirà anche a farsi dare da Berlusconi mezzo migliaio di milioni di euro, perché il famoso lodo era viziato da tangenti berlusconiane a uno dei tre giudici.

Oggi Adelphi è soltanto un editore medio-piccolo, il cui grande prestigio è inversamente proporzionale al conto economico. Ma egualmente sono in ballo i Berlusconi, la Mondadori sempre dominante nei libri, un concorrente di sinistra e tradimenti familiari. Auguriamo a tutti meno traversie giudiziarie, e soprattutto niente lodi. 

Wednesday, July 31, 2024

C’è un ristorante in cui il coperto costa 15 euro perché si vede il lago













di Mauro Suttora

Una sera a tavola a Cernobbio: 45 euro in tre solo per sedersi a tavola, record del mondo. Nemmeno nei più celebri ristoranti di Milano si paga tanto. Dettagli sul tariffario in base a tavoli e file

Huffingtonpost.it, 31 luglio 2024

Record mondiale: 15 euro per un singolo coperto di ristorante. Lo ha stabilito quest'estate Il Gatto Nero di Cernobbio (Como), locale dotato di splendida vista sul lago. Ed è proprio con la scusa del panorama che l'ignaro avventore paga questa salata sovrattassa.

I tavoli al bordo della terrazza, infatti, sono gravati da un coperto di 45€ per tre clienti. Balzello minore invece, come per i teatri e gli ombrelloni degli stabilimenti balneari, sulle seconde e terze file: otto euro a testa. Superiore rispetto a qualunque altro ristorante di lusso: al Biffi o al Savini di Milano, per esempio, il coperto è di sei euro.

Naturalmente i ristoranti stellati sono fuori da questa classifica: difficile trovarne uno che si abbassi a pretendere il coperto. Lì i costi di servizio, pane e grissini (più 'mise en place', come dicono i sofisticati) sono già incorporati nei prezzi dei menu degustazione o à la carte.

Il Gatto Nero di Cernobbio, aggrappato sul pendio della frazione Rovenna a picco sul lago lariano, non esibisce alcuna stella Michelin. Può però proporre prezzi assai robusti (antipasti 24-30€, una semplice amatriciana 28, secondi dai 34 in su) perché conta su una clientela turistica internazionale garantita dal vicino hotel Villa d'Este e dagli altri 5 stelle di Como. George Clooney era un habitué, sotto la precedente gestione che creò la fama del Gatto Nero.

Ma quel che adesso irrita anche gli stranieri facoltosi (e soprattutto loro, perché il coperto è un'invenzione solo italiana) è l'extra inaspettato alla fine del pasto. Che lo fa lievitare del 15-20%, e per le frequenti tavolate da dieci raggiunge i 150 euro.

La legge dice che imporre un coperto è lecito solo se preventivamente indicato nel menù, e almeno questa regola Il Gatto Nero la rispetta. Ma solo in parte, perché il balzello non è menzionato nel menù online. Che è quello più consultato, visto che è obbligatoria la prenotazione sul sito. E certo i clienti non se ne vanno una volta arrivati fin lassù, dopo una decina di tornanti, e dopo aver fatto l'incredibile e sgradevole scoperta del maxicoperto a 15€.

Insomma, una vera trappola per turisti. I quali non possono neppure vendicarsi cancellando Il Gatto Nero dalle loro mete, perché il flusso di nuovi malcapitati è continuo e automatico, con ricambio assicurato: per i ricchi americani Cernobbio è una meta ambìta quanto Capri, Positano o Taormina.

Così, se non sono obnubilati dal vino, alla fine della cena ai clienti del Gatto Nero non resta che borbottare. E sperare che i tanti altri ristoranti con vista prestigiosa, da Roma a Venezia, non ne approfittino per inventarsi pure loro un coperto da 15€, un po' furbo e un po' burino. 

Thursday, July 18, 2024

In piazza contro il detenuto Toti. Schlein e Conte si trasformano in Maramaldo












I grillini hanno infettato di forcaiolismo gli ex odiati piddini. Avvertite Trump e Biden: tenetevi lontani da Genova, i vostri finanziamenti da privati per centinaia di milioni passerebbero guai un po' più grossi di quella miseria di 70mila euro contestati al governatore

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 18 luglio 2024

Se aspettavano qualche giorno, potevano manifestare nell'anniversario della battaglia di Gavinana (Pistoia), 3 agosto 1530. Quella in cui il morente capo fiorentino Francesco Ferrucci disse a Maramaldo: "Vile, tu uccidi un uomo morto”.

In piazza De Ferrari a Genova l'intera sinistra italiana protesta contro Giovanni Toti, in custodia cautelare per corruzione da due mesi e mezzo. Il trio dinamico Elly Schlein-Giuseppe Conte-Nicola Fratoianni ha trovato un potente avversario contro cui misurarsi: il presidente della Liguria. Lui non può rispondere, gli arresti domiciliari vietano di comunicare con l'esterno dalla sua casa di Ameglia (La Spezia). 

Insomma, Toti è già mezzo morto. Ma la manifestazione nazionale vuole affrettarne il decesso politico, pretende immediate dimissioni. Colpevole, innocente? Chissà. Si saprà forse nel 2031, visti i tempi dei magistrati genovesi: il ponte Morandi crollò sei anni fa, il processo di primo grado durerà almeno un altro anno.

Che crolli anche la giunta Toti e si vada subito a nuove elezioni, grida la piazza. Il voto a scadenza naturale è già previsto nel 2025, lui ha detto che non si ricandiderà. E comunque dopo due mandati non può più. Niente da fare: "C'è fretta in me, c'è urgenza. Vorrei una cosa qualsiasi, ma presto", diceva il poeta Henri Michaux.

Accusa l'opposizione: "In Liguria tutto è bloccato". Si difende la maggioranza: "Tutto va avanti, c'è un presidente facente funzioni". Dice Carlo Calenda, che sta in mezzo: "Abbiamo chiesto spesso che Toti se ne andasse. Ma non ora, su spinta della magistratura". Quanto ai comitati dei cittadini di sinistra contro le grandi opere, non sanno se protestare o festeggiare questa presunta paralisi. 

A memoria, non ricordiamo maramaldesche manifestazioni per le dimissioni di politici agli arresti. Bettino Craxi si dimise da segretario Psi prima delle monetine. Roberto Formigoni finì in carcere nel 2019, sei anni dopo essersi dimesso da presidente della Lombardia, e soprattutto dopo una sentenza definitiva.

La condanna di Toti è invece già definitiva per i manettari di piazza De Ferrari. I grillini hanno infettato di forcaiolismo gli ex odiati piddini. Eppure i giudici del riesame escludono che il presidente ligure possa inquinare le prove. Rimane agli arresti solo perché potrebbe reiterare il reato. E con sillogismo da Comma 22 la procura sostiene che lo farà ancora, proprio perché non ha ancora capito quel che ha fatto: sollecitare e accettare contributi per la sua attività politica. Cioè quel che fanno normalmente i politici in tutte le democrazie. 

Avvertite Trump e Biden: tenetevi lontani da Genova, i vostri finanziamenti da privati per centinaia di milioni passerebbero guai un po' più grossi di quella miseria di 70mila euro contestati a Toti.

Wednesday, July 10, 2024

Perché uno Yamal non potrebbe mai giocare nella nazionale italiana



di Mauro Suttora


Il fenomeno spagnolo di 16 anni da noi non avrebbe la cittadinanza, in quanto figlio di due immigrati da Marocco e Guinea. E forse nemmeno il "gemello" Nico Williams, che di anni ne ha 21, ma stando ai tempi della nostra burocrazia probabilmente starebbe ancora aspettando il rilascio del passaporto


Huffingtonpost.it, 10 luglio 2024


Non volete lo 'ius soli'? Cambiamo nome, chiamiamolo 'ius sportis', che magari il generale Vannacci non se ne accorge. Così potremo accogliere sul serio e far diventare subito italiani migliaia di under 18 che ci regaleranno decine di medaglie in tutti gli sport.

Perché si parla tanto di mancanza di talento nella nazionale di calcio, giovani, vivai e blablabla, ma da noi uno come il sedicenne Lamine Yamal - padre marocchino e madre della Guinea - non avrebbe i requisiti per ottenere la cittadinanza, e dunque non potrebbe giocare. Senza il suo gol la Spagna non avrebbe battuto la Francia 2-1, conquistando la finale degli Europei.

 

E forse nemmeno l'altro fenomeno spagnolo Nico Williams, genitori del Ghana, quello che tre settimane fa ha umiliato i nostri azzurri dribblandoli platealmente. Perché di anni ne ha 21, e nonostante i termini della legge italiana indichino tre anni come limite massimo per l'ottenimento della cittadinanza una volta maggiorenni, spesso i tempi per i figli degli immigrati sono più lunghi.


Fra due settimane iniziano le Olimpiadi a Parigi. Marcell Jacobs riuscirà a difendere l'oro vinto quattro anni fa nei cento metri? Ce lo auguriamo tutti, anche quelli così preoccupati per i "tratti somatici  del tipico italiano". Ma se non dovesse farcela, ecco apparire miracolosamente dietro di lui il comasco 25enne Chituru Ali. Che un mese fa ha entusiasmato l'Italia intera agli Europei di atletica, apparendo dal nulla e agguantando l'argento a soli tre centesimi dal vincitore Marcell. 


È stato commovente, da brivido, vederli poi festeggiare insieme, sventolando felici in pista il loro e nostro grande tricolore. Anche un po' buffo il giorno dopo leggere un comunicato del comitato regionale del Coni Lombardia inneggiante ai due campioni "lombardi". Certo, Marcell è di Desenzano (Brescia) e Chituru è cresciuto fra mille difficoltà ad Albate (Como): papà sparito come quello di Marcell, mamma ri-emigrata in Svizzera, lui abbandonato a famiglia affidataria. Insomma, la vittoria sveglia istinti non solo nazionalisti, ma perfino regionalisti.

 

La magica coppia Jacobs-Ali ha poi ripetuto la doppietta a Turku, in Finlandia, questa volta entrambi sotto i dieci secondi di buon auspicio olimpico. Ma nell'atletica leggera da tempo ormai è un tripudio di colori di pelle e di bandiera, che si mischiano allegramente per la disperazione dei ringhiosi avversari della sostituzione etnica: Paesi una volta bianchissimi e biondissimi come Danimarca o Svizzera che non hanno mai vinto una medaglia nella loro storia, e che invece ora se la battono alla pari con i mitici giamaicani e neri Usa grazie ai loro velocisti/e di colore.

 

Insomma, per tornare al calcio: chiudere di nuovo le frontiere agli stranieri come dopo la Corea 1966, per dare più spazio ai nostri giovani? Ma i giovani 'stranieri' li abbiamo già fra noi: valorizziamo loro, strappandoli con lo sport al teppismo delle babygang e a certa sottocultura rap. Certo, il razzismo è una brutta bestia. Me ne accorsi in un albergone sulla spiaggia a Torre Canne (Brindisi) nel 2018. Finale dei mondiali di calcio Francia-Croazia. Davanti alla tv quasi tutti i pugliesi tifavano per i croati. Non capivo, chiesi perché. "È Africa contro Europa", mi spiegarono senza vergogna.

 

Ora che tutte le squadre troppo pallide, quelle dell'Est e l'Italia, sono state eliminate dagli Europei, i tifosi sovranisti si rassegnino: da Mbappè a Bellingham, gli assi del calcio hanno tratti somatici per loro irritanti. Inoltre, in politica tifano a sinistra e addirittura osano dichiararlo pubblicamente. Così ai nostri fascioleghisti non resta che consolarsi per la sconfitta della "Francia africana" che ha schifato Marine Le Pen. Fingendo che anche la Spagna non sia trainata dalla nuova generazione multietnica degli Yamal e Nico Williams.

Tuesday, July 09, 2024

La volpe e l'urna. O di come la legge elettorale del vicino è sempre la più bella

di Mauro Suttora

I conservatori britannici guardano con invidia il doppio turno alla francese, che avrebbe limitato la sconfitta, mentre la destra francese sogna il maggioritario d'Oltremanica, che l'avrebbe spinta alla vittoria. I politici vogliono da sempre un'unica cosa: il sistema che meglio gonfia i propri voti. E in Italia in questo siamo campioni del mondo

Huffingtonpost.it, 9 luglio 2024

La sera del 4 luglio i verdi inglesi non credevano ai loro occhi: seggi quadruplicati. Al tradizionale collegio di Brighton ne hanno aggiunti altri tre: il centro di Bristol, il Nord Herefordshire e perfino la valle del fiume Waveney nel Suffolk.

Tre giorni dopo invece sono stati i lepeniani in Francia a strabuzzare gli occhi: nonostante il 37% dei voti hanno racimolato solo un quarto degli eletti e sono finiti ultimi fra le tre coalizioni. Cosicché ora i francesi di destra sognano il sistema elettorale britannico uninominale maggioritario ma a turno unico, che non permette il trucco delle "desistenze"; mentre i conservatori inglesi rimpiangono il metodo di elezione francese, che avrebbe limitato il loro disastro con parallelo trionfo di laburisti, liberali e perfino ecologisti. 

Per i perdenti, la legge elettorale del vicino è sempre la più bella. Ma anche in Italia i risultati di Londra e Parigi provocano subbuglio. Adesso Giorgia Meloni è terrorizzata dai ballottaggi, che come in Francia unirebbero tutte le opposizioni contro di lei. La ministra delle Riforme Maria Elisabetta Casellati promette di risolvere magicamente la questione con un metodo misto maggioritario-proporzionale. 

In realtà i politici vogliono da sempre un'unica cosa: la legge elettorale che meglio gonfia i propri voti. Cosicché dopo mezzo secolo di stabilità i nostri sistemi hanno cominciato a cambiare con velocità vorticosa: fra Mattarellum (1993), Porcellum (2005) e Rosatellum (2017), ogni transeunte maggioranza avverte il bisogno e il diritto di cucirsi addosso un metodo su misura. 

Noi proviamo noia e nausea appena si ode la parola "legge elettorale". E astensione al 51%. L'ideale per i nemici della democrazia sarebbe la legge Acerbo, che cent'anni fa regalava alla prima lista che superasse il 25% il 66% degli eletti. Una distorsione degna del famoso bar degli Specchi incurvati nel centro di Frascati, che ingrassano i magri e assottigliano i ciccioni. Risultato: fu applicata una sola volta, e poi vent'anni di Mussolini. 

Oggi per confezionare il metodo elettorale perfetto basta fare l'opposto di quel che dice Sergei Lavrov, ministro degli esteri di Putin. Disperato per la sconfitta della sua favorita Marine Le Pen, si è scagliato contro il doppio turno, che secondo lui "manipola la volontà degli elettori". Ballottaggi forever, allora? Per la verità le due democrazie più longeve del pianeta, Regno Unito e Stati Uniti, praticano felicemente il turno unico da due secoli e mezzo, non hanno mai sentito il bisogno di cambiar legge elettorale, e guarda caso sono gli unici grandi stati immuni da totalitarismi. La Quinta repubblica francese funziona bene da due terzi di secolo, la Germania da tre quarti.

Quindi forse la soluzione per noi è semplice: abolire il ministero delle Riforme istituzionali, perché le istituzioni se vogliono essere stabili e perciò prestigiose vanno riformate il meno possibile. Teniamoci la legge elettorale che c'è, con i suoi pro e i suoi contro. E soprattutto non tediateci più con dibattiti su rappresentatività vs. governabilità. 

Monday, July 01, 2024

Lui è più antisemita di me

La non geniale strategia di Piantedosi davanti ai piccoli nazi meloniani: “E allora la sinistra?”. Antisemiti di destra e di sinistra viaggiano su binari paralleli: facendoli incontrare, commisurandoli, si deraglia

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 luglio 2024

Ma perché, perché? Perché il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi si mette a compilare classifiche sull'antisemitismo, e stabilisce che quello di sinistra è peggio di quello di destra?

A chiunque in politica dovrebbe essere vietato pronunciare queste parole: "E allora?" e "Ben altro". Il ministro invece è riuscito a infilarle entrambe commentando i saluti e slogan nazi dei giovani meloniani. Che "certo, sono deprecabili e vanno condannati senza riserve". Ma che secondo lui, dalla sua prospettiva di tutore dell'ordine pubblico, sono meno gravi dei cortei e disordini antisraeliani con cui i proPal/estinesi riempiono le nostre strade dopo i massacri del 7 ottobre 2023. 

Da due decenni sociologi e linguisti analizzano i fenomeni del "benaltrismo" e del "eallorismo". Piaghe planetarie, infatti in inglese si dice "whataboutism". Si tratta della fallacia logica in cui cade chi non può contestare un argomento indiscutibile, e allora cerca di demolirlo o almeno diminuirlo contrapponendo attenuanti ed esimenti fuori tema. 

Il paragone truffaldino, e il ministro lo sa bene data la sua età, non nasce con le baruffe social. Leggendarie rimangono le risposte in automatico dei comunisti alle accuse di mancanza di libertà nei regimi dell'Est: "E allora il Cile? E allora il Vietnam?" 

Con il nuovo secolo in Italia sono diventate proverbiali le obiezioni "E allora le foibe?", "E allora i marò?" e "Guardate Bibbiano" opposte dai polemisti da bar di destra o grillini alle proprie malefatte.

Ma lei, ottimo Piantedosi, proprio lei con il suo status di ministro tecnico e quindi al di sopra delle parti nonostante il nome Matteo, perché cede a scorciatoie dialettiche degne di un Napalm51 crozziano? 

Certo, i nazistelli meloniani non hanno finora bruciato bandiere di Israele in pubblico, né sfilato in turbolenti cortei. Ma nelle proteste per Gaza non abbiamo visto un braccio teso hitleriano né svastiche, che a qualcuno mettono più paura dei frusti pugni chiusi da centro sociale. 

Gli opposti estremismi sono spesso simmetricamente uguali. Ma gli antisemitismi di destra e sinistra corrono su binari paralleli. Facendoli incrociare commisurandoli, si deraglia.

Monday, June 24, 2024

Croazia, Modrić e mia nonna




















Il campione è dalmata come era lei, che proprio cent'anni fa lasciò Sebenico e poi riuscì a diventare profuga due volte nella stessa vita

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 giugno 2024
  
Bellissima l'immagine tv del campione Luka Modrić da Zara - mio eroe, perché intelligente e quindi apparentemente svogliato e trotterellante come Gianni Rivera, celando letali accelerazioni fulminee - il quale per la tensione si mangia la maglietta in panchina, trenta secondi prima che l'Italia con un gol al 97° minuto elimini la sua Croazia dall'Europeo di calcio.

Modrić è dalmata come mia nonna Laura Matcovich, la quale proprio cent'anni fa lasciò la sua Sebenico perché era arrivata la Jugoslavia. Che poi giunse, comunista e non solo slava, pure nell'isola di Lussino, dove mia nonna si era rifugiata e sposata con il comandante di nave Roberto Suttora, orgogliosamente capohornista (i capitani doppiatori di capo Horn non erano tantissimi, sulle rotte Fiume-Liverpool-Perth).

Così 80 anni fa mia nonna riuscì a diventare profuga due volte nella stessa vita: record condiviso solo con certi sfortunati bisprofughi palestinesi (1948 e 1967). La prima volta era fuggita troppo vicino, perciò la seconda evitò Trieste e scappò con mio padre e mio zio bambini più lontano, nelle repubbliche marinare: prima a Venezia e poi a Genova, da dove partiva mio nonno.

Negli anni Ottanta del Novecento, verso la fine della sua vita che andava col secolo, la mia nonna Matcovich, a vent'anni irredentista anti-austriaca che aspettò entusiasta avvolta nel tricolore sulla banchina del porto di Sebenico le navi italiane arrivate per liberare la Dalmazia, maturò un'irresistibile nostalgia per l'impero asburgico: era fiera che sulla sua carta d'identità fosse scritto che era nata in Austria-Ungheria, e non in Italia o Jugoslavia, come indicato sui documenti degli altri 350mila profughi dalmati e istriani del 1944-48.

Infatti, dopo aver sperimentato l'Italia fascista e la Jugoslavia comunista, giunse alla conclusione che tutto sommato fosse meglio, o meno peggio, l'impero multinazionale, interetnico e cosmopolita in cui era cresciuta.

Quando volevo far arrabbiare mia nonna, per scherzo le mandavo cartoline indirizzate a Laura Matković: con la kappa e la 'pipa' sulla c, come nella grafia croata di Luka Modrić. Il quale fu profugo pure lui: da bambino, durante la nuova guerra civile jugoslava negli anni '90. La sua famiglia scappò a Zara dal villaggio dell'entroterra in cui viveva. I serbi ammazzarono suo nonno Luka.

Nell'ultrasinistra disastrata è il turno di Ilaria Salis

La neoparlamentare si dice fiera di occupare case popolari, togliendole ai fessi che ne hanno diritto, ma che aspettano anni in graduatoria perché rispettano la legge. Dopo il diritto alla (sua) casa proclamerà il diritto alla cena, riesumando i gloriosi espropri proletari di mezzo secolo fa nei supermercati

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 24 giugno 2024

Particolarmente sfortunata, l'estrema sinistra italiana. Da una decina d'anni si affida a personaggi esterni imbarazzanti: Ingroia, Tsipras, Soumahoro, Salis. Nel 2013, non potendo più presentarsi alle politiche col proprio nome (Rifondazione comunista) dopo il disastro di cinque anni prima (caduta Prodi, zero eletti), si ribattezzò lista Ingroia come il pm palermitano antimafia Antonio. Secondo flop, quorum mancato. 

Dopo la trombatura Ingroia si consolò con incarichi di sottogoverno siciliano, rimediando una condanna a 1 anno e 10 mesi per peculato e un'altra per danno erariale a 145mila euro. Poi ha cambiato di nuovo mestiere, diventando avvocato di Gina Lollobrigida. Ma ha continuato a collezionare percentuali da zero virgola ad ogni elezione, con liste variopinte. 

Un altro rabdomante della politica era Alexis Tsipras, premier greco che voleva uscire dall'euro. Al suo nome si aggrapparono i rifondaroli per le europee 2014, eleggendo affidabili eurodeputati esterni come Barbara Spinelli. La quale invece di uscire dall'euro uscì dal partito, tenendosi tutti gli euro del proprio stipendio (18mila mensili) che avrebbe dovuto versare in minima parte al partito. Anche Tsipras è finito nel nulla, assieme al suo ministro delle Finanze Yannis Varoufakis. Su Soumahoro e la bellissima moglie non occorre soffermarsi. 

Ora è il turno di Ilaria Salis, che già ci delizia con elogi della delinquenza. Si dice fiera di occupare case popolari, togliendole ai fessi che ne hanno diritto, ma che aspettano anni in graduatoria perché rispettano la legge. 

Dopo il diritto alla (sua) casa la simpatica Tortora dei poveri proclamerà il diritto alla cena, riesumando i gloriosi espropri proletari di mezzo secolo fa nei supermercati. Il diritto alla mobilità, rubando bici e auto nonché evitando il biglietto su bus e treni. Ma soprattutto il diritto alla vacanza, andando a occupare resort al mare e b&b in montagna. 

Tuesday, June 11, 2024

Calenda e Renzi non fanno eccezione: la vocazione ad autodistruggersi dei partiti di centro è storia

Dal Partito d'Azione al Psdi, al Pli, fino a Mario Segni: nel 1994 rifiutò l'appoggio di Silvio Berlusconi per candidarsi premier

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 11 giugno 2024 

Chi si stupisce per la stupidità politica che ha fatto buttare al macero i 1.650.000 voti di Stati Uniti d'Europa e Azione ignora la storia italiana degli ultimi 80 anni. I partitini di centro infatti hanno sempre fatto a gara nell'autodistruggersi.

Cominciò il glorioso partito d'Azione, che sembrava destinato a grandi cose, imbottito com'era di capi partigiani, padri della patria e intellettuali: dal primo premier dell'Italia liberata Ferruccio Parri a Norberto Bobbio e Piero Calamandrei. Non fece neanche in tempo a presentarsi al voto nel 1948: era già defunto dopo il fiasco elettorale del 1946 (1,5%).

Molti azionisti, seguendo Ugo La Malfa, si trasferirono nel riesumato partito Repubblicano. Il quale in realtà non aveva più ragione di esistere, essendo stato raggiunto il suo scopo sociale con la nascita della Repubblica il 2 giugno 1946. Eppure continuò a vivacchiare per quasi mezzo secolo al 3% sotto la guida capricciosa di La Malfa. Anche il livello del Pri era inversamente proporzionale ai suoi consensi, quindi altissimo: regalò all'Italia ministri di valore come Bruno Visentini e Giovanni Spadolini. 

Sempre in tema di monumenti viventi, ecco poi il Psdi (Partito socialdemocratico) meritoriamente fondato nel 1947 dal futuro presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Era l'epoca in cui non solo il Pci ma anche il Psi stavano col dittatore sovietico Stalin. Fu doveroso quindi per i socialisti amanti della libertà scindersi dai compagni 'frontisti' di Pietro Nenni. 

Ma neanche codesta nobile scelta fu premiata dagli elettori, che relegarono il Psdi al 4%. "Colpa del destino cinico e baro", fu la famosa lamentela di Saragat, refrattario ad autocritiche e dimissioni quanto oggi Matteo Renzi e Carlo Calenda.

Il terzo partitino laico della Prima repubblica era il Pli. Che aveva dominato la politica italiana dal 1861 al 1922, e quindi tutti si aspettavano una sua rinascita dopo il fascismo. I liberali furono subito premiati con le prime due presidenze della Repubblica: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Però commisero errori su errori: Benedetto Croce li fece sciaguratamente votare monarchia al referendum; poi si allearono con i qualunquisti (criptofascisti); infine, nel 1954, il neosegretario Giovanni Malagodi ridusse il Pli a una succursale degli industriali privati di Confindustria. 

Perciò i liberali di sinistra se ne andarono per fondare il partito radicale: Ernesto Rossi, Mario Pannunzio e i giovani Eugenio Scalfari e Marco Pannella. Ma anche i radicali caddero subito nel vizio tipico dei centristi: litigare perennemente, innanzitutto al loro interno e poi con gli altri centristi. Anzi, è raro perfino trovare un centrista che vada d'accordo con se stesso.

L'autolesionismo dei centristi ha sempre impedito loro di unirsi: preferivano spaccarsi fra filo-Dc, filo-Pci e filo-Psi. Però allora non c'erano tagliole del 4% a impedirne il velleitarismo. Quindi si accontentavano dei loro minuscoli 3%, che garantivano comunque poltrone di sottogoverno: qualche ministro di serie B, sottosegretari, assessori.

 

L'errore supremo del centrista sbadato fu, nel 1994, quello di Mario Segni: rifiutò l'appoggio di Silvio Berlusconi per candidarsi premier. Da allora, col bipolarismo, o di qua o di là: per i centristi solo qualche fiammata (lista Emma Bonino nel 1999, Mario Monti nel 2013) e tanti dolori, come ieri. 

Saturday, June 01, 2024

Vale per Meloni come per Salis: non disturbate troppo la Storia

Consiglio non richiesto a entrambe che, a due settimane di distanza, si sono proclamate "dalla parte giusta della Storia". Invidio tanta sicurezza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 giugno 2024

"Sono dalla parte giusta della Storia", ha proclamato Giorgia Meloni al comizio di piazza del Popolo. Ohibò, è la seconda volta in pochi giorni che risuona tanto orgoglio. Perché anche Ilaria Salis due settimane ci aveva assicurato di sentirsi in quel posto lì: assieme ai Giusti della Storia.

Invidio alle due gentili signore tanta sicurezza. Entrambe felici delle loro scelte politiche, anche se opposte.

Giorgia con la sua fede fascista, ma ora dopo aver lavato i panni in Matteotti approdata definitivamente a quella postfascista. Numero uno in Italia e da due giorni anche in Europa: l'Economist la piazza in copertina al centro della nuova trinità continentale. Attorniata da Ursula e Marine, ma quelle solo a mo' di ancelle.



Ilaria con la sua passione antifascista, che l'ha spinta fino a Budapest per patire sicuramente due ingiustizie: carcere per più di un anno senza processo, manette a mani e piedi.

Quanto alla terza questione, la più importante, sarà un processo a decidere su quale parte del codice penale (e non della Storia) si è collocata Salis. Giusta se verrà assolta, sbagliata se giudicata colpevole di aver manganellato un fascista.

Temo invece che per qualcuno sia comunque commendevole "lottare" contro i fascisti. Loro stavano indiscutibilmente dalla parte sbagliata della Storia. Contrastarli con qualsiasi mezzo? Certo che no. La violenza è esclusa. Ma dipende. Ho sentito dire in tv da Bianca Berlinguer che erano "guaribili in soli otto giorni" le ferite inferte al fascista ungherese dal commando antifascista cui Salis è accusata di essersi aggregata.

Ho visto l'impressionante video dell'assalto. Mi ha ricordato le migliaia di aggressioni con cui i nostri fascisti spaccavano la testa coi manganelli ai rossi negli anni '20 di un secolo fa (Matteotti fu solo una delle tante vittime). Replicate poi mezzo secolo fa, negli anni '70, da ulteriori bastonate reciproche fra altre squadracce di rossi e neri.

E già lì la "parte giusta della Storia" era svanita. Perché il "fascismo degli antifascisti", come lo chiamava Marco Pannella, risultava equivalente a quello dei legittimi proprietari del marchio. Magari con chiavi inglesi al posto dei manganelli.

Figurarsi oggi: Fareed Zakaria, uno dei più lucidi politologi del mondo, nel suo nuovo libro certifica che rossi/neri, sinistra/destra, comunismo/fascismo è una contrapposizione ormai inservibile. Non spiega più i conflitti contemporanei. E da tempo: trent'anni fa il serbo Slobodan Milosevic fu il primo a essere definito "fasciocomunista". Aggettivo che ora si addice a tanti: Vladimir Putin, Xi Jingping, il Kim coreano, il dittatore cubano, il mezzo dittatore venezuelano.

Qualche antifascista un po' fané inorridisce per la condanna gemella dell'Europarlamento nel 2019: nazifascismo e comunismo entrambi totalitarismi del secolo scorso. E via di archivio, si sperava. Pratica chiusa col nuovo millennio.

Invece no: c'è sempre qualche nostalgico che riesuma "parti giuste della Storia" su cui piazzarsi fiero. Fresche quanto i cristiani/musulmani a Roncisvalle, palpitanti quanto i cattolici/protestanti a La Rochelle, attuali quanto guelfi/ghibellini, capuleti/montecchi, rivoluzionari/vandeani, irredentisti/austriaci, e via contrapponendo.

Care Giorgia e Ilaria, un sommesso e non richiesto consiglio: non disturbate troppo la Storia. Che offre posti belli e brutti, ma soprattutto intercambiabili. Ultimamente va più Vico di Hegel, difficile "dare un senso a questa storia", come canta il nostro massimo filosofo Vasco. Figurarsi poi addentrarsi nel giusto o sbagliato. Lo diranno solo i risultati concreti.

Tuesday, May 14, 2024

Giolitti contro Giolitti. La sublime faida di una famiglia che si disputa una centenaria eredità politica



Giovanna, nipote di Giovanni, si candida con Meloni. Seconde e terze generazioni di Giolitti si ribellano: non nel nostro cognome! Complicazioni storiche attorno a Mussolini

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 14 maggio 2024

I parenti di Giovanni Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio nel 1892-1921, e di suo nipote Antonio Giolitti, ministro e commissario europeo negli anni ‘60-‘80, protestano contro Giovanna Giolitti, bisnipote dello statista piemontese.

L’avvocatessa di Cavour (Torino), già assessore del suo paese nella lista civica di un sindaco ex democristiano, si è candidata alle Europee per Fratelli d’Italia. “Non nel nostro nome”, scrivono oggi ben 25 discendenti in una lettera a La Stampa, “i valori di FdI sono totalmente incompatibili con quelli della nostra lunga storia familiare”. I parenti specificano di appartenere in sei alla prima generazione, in 14 alla seconda, più cinque congiunti.

“Libertà, democrazia e giustizia sociale”, spiegano zii e cugini, “sono inconciliabili con le radici, i programmi, le scelte e le azioni di Fratelli d’Italia, connotate da un marcato carattere reazionario su Europa, immigrazione, lavoro, limitazione dei diritti di espressione. Minacciano di soffocare la fragile pianta della democrazia che i nostri progenitori avevano aiutato a germogliare e svilupparsi”.

La povera Giovanna non ci sta, e rivendica la sua scelta come “liberale”. È proprio lei la presidente dell’associazione Giovanni Giolitti che coltiva gli studi storici sulla figura del bisnonno. Ultima iniziativa, la presentazione di un libro sul martire antifascista Giacomo Matteotti. Anche il Centro europeo Giolitti di Dronero (Cuneo), più legato all’altro ramo della famiglia, si avvale dell’opera bipartisan del professor Aldo Mola, massimo storico giolittiano. E lei era nel direttivo.

A voler essere pignoli e maligni, un punto di contatto fra la bisnipote e i suoi sdegnati parenti antifascisti forse si può trovare: nel 1922 l’ottuagenario Giolitti votò a favore del governo Mussolini. Come quasi tutti i liberali, sperava infatti di ammansire i fascisti portandoli nell’alveo democratico. Poi un altro scivolone: appoggiò la legge elettorale Acerbo, che favoriva Mussolini. Si riscattò in extremis nel 1924 quando rifiutò di entrare nel listone fascista, facendosi eleggere in una lista autonoma.

Anche oggi, d’altra parte, molti moderati sperano in una ‘civilizzazione’ degli ex Msi e An. Un percorso opposto ma simmetricamente simile a quello del comunista Antonio Giolitti, nipote di Giovanni, che nel 1956 lasciò il Pci per il Psi dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.

La faida dei Giolitti, comunque, non è l’unica a dividere le celebri famiglie politiche. I parenti democratici di Robert Kennedy junior si sono distanziati dalla sua candidatura indipendente alle presidenziali Usa di novembre. Il rampollo deviato, complottista e novax, rischia infatti di favorire Donald Trump contro Joe Biden. Proprio come nel 2000 i pochi voti del verde Ralph Nader furono determinanti per l’elezione di George Bush jr contro Al Gore.

Tornando in Italia, non conosciamo le inclinazioni politiche dell'ultima generazione Amendola. Se Giorgia scovasse qualche discendente del comunista Giorgio e di suo padre, il liberale Giovanni, ecco un’altra candidatura ad effetto. 

Sempre che i più giovani conoscano la storia, però. Perché dieci anni fa un neodeputato grillino si stupì vedendo il busto di Giovanni Giolitti in un corridoio di Montecitorio. Pensava fosse il nonno dei proprietari della famosa gelateria davanti al Parlamento.

Thursday, May 02, 2024

Cantanti over 70

Che meraviglia questi nostri cantanti over 70!
(lista aggiornata)

Fiorella Mannoia 70
Nada 70
Ron 70
Fabio Concato 70
Marcella Bella 71
Antonella Ruggiero Mattia Bazar 71
Claudio Baglioni 72
Vasco Rossi 72
Romina Power 72
Dodi Battaglia Pooh 72
Red Canzian Pooh 72
Eugenio Finardi 72
Massimo Ranieri 73
Francesco De Gregori 73
Loredana Bertè 73
Renato Zero 73
Ivano Fossati 73
Loretta Goggi 73
Alan Sorrenti 73
Rosanna Fratello 73
Gilda 73
Angelo Branduardi 74
Antonello Venditti 75
Amedeo Minghi 76
Gigliola Cinquetti 76
Patty Pravo 76
Anna Identici 76
Riccardo Fogli Pooh 76
Angela Ricchi e poveri 76
Donatello 76
Dino 76
Eugenio Bennato 76
Edoardo Bennato 77
Beppe Carletti Nomadi 77
Franco Mussida Pfm 77
Riccardo Cocciante 78
Rita Pavone 78
Angelo Ricchi e Poveri 78
Wilma Goich 78
Gianni Pettenati 78
Franz Di Cioccio Pfm 78
Fausto Leali 79
Gianni Morandi 79
Bobby Solo 79
Annarita Spinaci 79
Maurizio Vandelli Equipe 84 80
Roby Facchinetti Pooh 80
Orietta Berti 80
Al bano 80
Adamo 80
Piero Focaccia 80
Roberto Vecchioni 81
Ricky Gianco 81
Enrico Maria Papes Giganti 82
Mina 83
Pietruccio Dik Dik 83
Nicola di Bari 83
Iva Zanicchi 84
Peppino Di Capri 84
Francesco Guccini 84
John Foster 84
Don Backy 84
Edoardo Vianello 85
Tony Renis 85
Memo Remigi 85
Adriano Celentano 86
Renzo Arbore 86
Paolo Conte 87
Johnny Dorelli 87
Tony Dallara 87
Ornella Vanoni 89
Gino Paoli 89
Gianni Meccia 92
Jula De Palma 93
Wilma De Angelis 94
Teddy Reno 97

Wednesday, April 10, 2024

Povera Svizzera, le nonnine ambientaliste hanno sbagliato bersaglio

Figli e nipoti si irritano se, dopo aver scrupolosamente effettuato la raccolta differenziata dei rifiuti o aver preferito la bici all'auto, i politici cercano di imporre nuove tasse in nome della neutralità climatica. Gli elvetici sono neutrali da mezzo millennio, ma le loro tasche rimangono sacre

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 aprile 2024

La Svizzera è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) perché non ha adottato misure adeguate a ridurre le emissioni di gas serra. In realtà il governo elvetico è fra quelli che nel mondo hanno speso di più per spostare il traffico merci e passeggeri dalla strada all'ecologico treno. Già 30 anni fa un referendum introdusse nella Costituzione svizzera l'obbligo alla transizione ecologica. 

Con il programma Alp Transit, costato ben 24 miliardi di euro, sono stati costruiti tre nuovi maxitunnel ferroviari (il Lötschberg sopra il Sempione, il San Gottardo e Monteceneri), i quali permettono di caricare sui treni gli inquinanti tir che valicano le Alpi. Anche i passeggeri sono invogliati ad abbandonare l'auto dopo che il tragitto Zurigo-Milano su ferrovia si è ridotto di un'ora. E questo mentre invece languono gli altri attraversamenti alpini, dal Brennero alla Tav Torino-Lione. 

Il risultato è che i tir in transito dalla Svizzera si sono ridotti dal milione e 400mila all'anno nel 2002 agli attuali 900mila: il 35% in meno. Quindi, con tutta la simpatia per le nonnine svizzere che si sono rivolte alla Corte di Strasburgo lamentandosi di non poter uscire di casa d'estate per il troppo caldo, i poveri ministri di Berna non sembrano essere il bersaglio più azzeccato per le loro rimostranze.  Anche perché il governo svizzero aveva provato a inasprire le misure contro le emissioni di CO2, ma il giro di vite è stato bocciato in un referendum del giugno 2021. 

Come in Francia i gilet gialli contro la carbon tax del presidente Emmanuel Macron, anche gli elvetici hanno rifiutato di pagare di più i biglietti aerei, la benzina e il gasolio per mitigare il cambiamento climatico. Eppure anch'essi per primi vedono i loro ghiacciai ridotti di un terzo rispetto all'inizio del secolo. 

Ma i figli e nipoti delle combattive nonne ambientaliste si irritano se, dopo aver scrupolosamente effettuato la raccolta differenziata dei rifiuti (anche qui la Svizzera svetta nelle classifiche mondiali) o aver preferito la bici all'auto nelle città, i politici cercano di imporre nuove tasse in nome della neutralità climatica. Gli elvetici sono neutrali da mezzo millennio, ma le loro tasche rimangono sacre.

Saturday, April 06, 2024

I paladini dell'o-ne-stà cadono dal pulpito di Conte

Sfortunato il leader M5S a rispolverare la "legalità" su Bari nel giorno in cui a Roma arrivano le condanne a due dei massimi esponenti ex grillini di Roma per corruzione e traffico di influenze sullo stadio di calcio della Roma

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 6 aprile 2024

Sfortunato, Giuseppe Conte. Proprio il giorno dopo avere rispolverato la "legalità" come motivo della rottura con il Pd a Bari, sono arrivate le condanne a due dei massimi esponenti ex grillini di Roma per corruzione e traffico di influenze. 
 
Ai paladini dell'onestà sono toccate anzi le pene più pesanti per le tangenti sullo stadio di calcio della Roma abortito nel 2018: ben otto anni e otto mesi all'ex presidente del Consiglio comunale Marcello De Vito, e tre anni a Luca Lanzalone, avvocato genovese che Beppe Grillo e Roberto Casaleggio mandarono a Roma come plenipotenziario, e nominato presidente di Acea da Virginia Raggi, sindaca 5 stelle nel 2016-21.

Da che pulpito, quindi, Conte ora si scandalizza per l'accusa sui voti comprati da un'assessora regionale Pd in Puglia?
 
Nove sono i condannati in primo grado nel processo per lo stadio della Roma. De Vito, candidato sindaco grillino battuto da Ignazio Marino nel 2013 e da allora numero due del Movimento 5 stelle nella capitale, ora è passato a Forza Italia. Oltre alla pena detentiva ha ricevuto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. E con l'ex socio avvocato Camillo Mezzacapo (condannato a nove anni) dovrà pagare 230mila euro al comune di Roma. È più o meno la somma che alcuni costruttori romani (fra cui Giuseppe Statuto, condannato a un anno e 6 mesi) avrebbero versato ai due sotto forma di incarichi e consulenze fittizie, in cambio di facilitazioni per le proprie pratiche edilizie.
 
La maggiore era quella per il maxiaffare del nuovo stadio a Tor di Valle, contornato da palazzi di uffici con centro commerciale, inizialmente osteggiato dai grillini. Per ammansirli l'immobiliarista Luca Parnasi (che ha preso due anni col rito abbreviato) puntò su De Vito. Quando il M5s compì l'incredibile inversione a U accettando lo stadio, il loro ignaro assessore all'Urbanistica Paolo Berdini si dimise per protesta.

Ma il vero artefice del pateracchio fu Lanzalone, soprannominato "mister Wolf" da Parnasi. I grillini, a corto di competenze, lo avevano ingaggiato come "problem solver", per usare il linguaggio dei film di Quentin Tarantino. La ricompensa arrivò anche per lui con consulenze fasulle da Parnasi (sui 100mila euro) e poi con la guida della ricca municipalizzata Acea (144mila di stipendio annuo). Fu Lanzalone a scortare Luigi Di Maio al suo debutto fra i potenti del seminario di Cernobbio. E se non fosse stato arrestato nel 2018, per lui era in vista un posto da ministro nel governo Conte.
 
La condanna dei due dirigenti grillini romani spicca per contrasto con l'assoluzione di Francesco Bonifazi, allora tesoriere del Pd renziano, oggi deputato di Italia Viva, e di altri nove imputati. Bonifazi ricevette per il partito finanziamenti dai costruttori romani, che però non sono stati ritenuti illeciti dai giudici.
Lieve anche il verdetto per l'ex tesoriere leghista Giulio Centemero: un anno con pena sospesa.

Insomma, gli unici che si fecero veramente  "oliare" nella tentata speculazione sullo stadio della Roma sono stati i grillini. È quindi imbarazzante per Conte che una sentenza glielo abbia ricordato proprio ieri.

Monday, April 01, 2024

Conti in tasca a un eurodeputato: 3 milioni di euro in 5 anni. Senza rischi, garantiti

Si lavora cinque giorni, per tre settimane al mese, tranne agosto. E poi rimborsi, collaboratori, invitati, fringe benefit. Diamo qualche numero

di Mauro Suttora

www.huffingtonpost.it, 1 aprile 2024

L'elezione a eurodeputato vale tre milioni di euro. Garantiti in cinque anni, senza rischio di interruzione per voto anticipato.

Non va più di moda fare i conti in tasca ai nostri rappresentanti. Dopo che i grillini per quindici anni hanno tuonato contro i privilegi veri o supposti della casta politica, qualsiasi indagine sugli emolumenti degli eletti viene bollata come "antipolitica". È un effetto perverso degli eccessi demagogici del populismo. Ma, egualmente, vale la pena dare un'occhiata ai compensi che andranno ai 76 europarlamentari che eleggeremo fra due mesi.

Ognuno di loro percepirà 7.850 euro al mese di stipendio netto (10mila lordi, aliquota fiscale agevolata), più 4.950 di spese generali, più un’indennità di 350 euro per ogni giorno di presenza. Si lavora cinque giorni per tre settimane al mese tranne agosto, quindi totale diaria: 5.250 euro. 

Poi ci sono i cosiddetti fondi “400”, che vengono dati ai gruppi parlamentari: 2.630 euro mensili. I viaggi da e per casa in classe business sono rimborsati integralmente. Oltre a questi, vengono erogati 400 euro al mese di rimborso per spostamenti al di fuori dello Stato di elezione, con motivi diversi dalle riunioni ufficiali. 

Così si arriva a un totale netto mensile di 21mila euro. Ma gli eurodeputati hanno diritto anche a 28.700 euro per assumere e retribuire assistenti. Al massimo tre a Bruxelles, e quanti vogliono nel proprio collegio. Un grillino siciliano nel 2014 arrivò a ingaggiarne undici, creandosi benemerenze nel proprio territorio. Si tratta infatti di fondi che vanno direttamente ai portaborse, ovviamente di provata fedeltà. Unico divieto: niente parenti stretti, dopo il caso del figlio di Umberto Bossi. 

Resta leggendario il rinvio del matrimonio del fidanzato della figlia di una europarlamentare italiana, per non fargli perdere il posto. Ma è impossibile vietare favori reciproci, con scambi di assistenti famigli, clienti o protegés. 

Ogni deputato può infine invitare 110 visitatori l’anno a Bruxelles o Strasburgo, in gruppi di almeno dieci. Agli ospiti sono rimborsati viaggi (9 cent a km, quindi dall’Italia da 180 a 360 euro), pasti (40 euro) e hotel (60 euro). In media, 540 euro a testa. 

Insomma, ogni europarlamentare dispone di circa 50mila euro mensili, 600mila annui, tre milioni in cinque anni. Più i fringe benefit: rimborsi dei due terzi delle spese mediche, limousine da e per l’aeroporto, palestra di 2.150 mq con piscina, sauna, solarium, corsi di yoga, body sculpt, kickboxing, zumba. 

Anche le pensioni sono generose: a partire dai 63 anni garantiscono 1.400 euro mensili netti per ogni mandato quinquennale svolto, fino ai 5.650 dai vent’anni in poi.  

Infine, le liquidazioni: un mese di stipendio per ogni anno di servizio a chi non viene rieletto. Un’eurodeputata di An nel 2014 incassò 190mila euro dopo 25 anni, per «reinserirsi».

Anche il personale del Parlamento europeo è superpagato: uscieri e segretarie 4-6mila euro netti, traduttori 6-9mila, dirigenti 16mila. L’Europarlamento ha avuto nel 2023 un costo di 2,24 miliardi.

Thursday, February 29, 2024

Nobel per la pace 2024 ad un italiano?



















Secondo il Peace research institute Oslo, il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Quanto è attendibile il pronostico?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 29 febbraio 2024

Un italiano vincerà il premio Nobel per la Pace 2024? Secondo il Prio (Peace research institute Oslo) il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Gli altri sono la Corte internazionale di giustizia dell'Aja, Philippe Lazzarini e la sua Unrwa (l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi), la Campaign to Stop Killer Robots con Article 36, e l'Unesco con il Consiglio d'Europa.

Tuttavia le candidature della Corte dell'Aja e dell'Agenzia profughi sono controverse, perché legate alla sanguinosa attualità delle guerre d'Ucraina e Gaza. Invece gli osservatori Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che monitorano le elezioni in 57 Paesi, si situano per definizione al di sopra delle parti. Sono diventati i più autorevoli al mondo in materia di elezioni, nessuno li contesta. Tranne Russia e Bielorussia, che hanno rifiutato di invitarli a controllare le loro votazioni.

"Quest'anno andrà alle urne metà della popolazione mondiale", spiega il direttore del Prio Henrik Urdal, "anche se non solo in stati democratici. Ma è dimostrato che le democrazie godono di maggior pace e stabilità degli altri regimi. E poiché alla base della democrazia ci sono le elezioni, gli osservatori giocano un ruolo fondamentale nel garantire la legittimità dei processi elettorali". 

Quanto è attendibile il pronostico del Prio? La sede dell'istituto di Urdal è a Oslo come il Comitato di cinque saggi eletti dal parlamento norvegese, che ogni anno in ottobre assegnano il Nobel della Pace (gli altri Nobel invece vengono scelti a Stoccolma). Ma il Prio, proprio per essere libero di commentare il premio, rinuncia al diritto di avanzare candidature (quest'anno sono 300) che gli spetterebbe. Quindi le sue previsioni sono un po' le semifinali del Nobel, così come i Golden Globe anticipano e indirizzano i premi Oscar nel cinema. 

Fra i vincitori azzeccati ultimamente spiccano il medico congolese Denis Mukwege nel 2018 e l'iraniana Narges Mohammadi l'anno scorso. Negli anni scorsi il Prio aveva indicato tra i favoriti Alexei Navalny: lo scudo del premio Nobel gli avrebbe probabilmente salvato la vita. Invece il dissidente russo Oleg Orlov, vincitore con il gruppo Memorial nel 2022, proprio ieri non è riuscito a evitare una condanna di due anni e mezzo di carcere comminatagli da Vladimir Putin. 

Prima di approdare a Varsavia negli uffici dell'Osce, Mecacci è stato deputato radicale (impegnandosi nell'Onu a New York per la moratoria alla pena di morte e la Corte penale internazionale) e direttore dell'International campaign for Tibet, la fondazione di Richard Gere. Sarebbe il primo italiano dopo il giornalista garibaldino Ernesto Teodoro Moneta nel 1907 ad aggiudicarsi, direttamente o alla guida di un organismo premiato, il Nobel per la Pace. 

Di recente sono stati candidati Federica Mogherini della Ue per il suo impegno nell'accordo antinucleare con l'Iran, e Filippo Grandi, da otto anni Alto commissario Onu per i rifugiati. L'agenzia di Grandi prenderebbe in carico i profughi palestinesi se l'Unrwa venisse travolta dalle accuse di vicinanza con Hamas. 

Sunday, February 25, 2024

Cancellate piazze o medaglie per Tito, ma non la storia
















La destra italiana vuole togliere al maresciallo Tito l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. La disputa appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 febbraio 2024

A Lubiana la via principale era dedicata al maresciallo Tito. Ma subito dopo l'indipendenza della Slovenia, nel 1991, il nome dell'ex presidente jugoslavo fu cancellato e la strada ribattezzata "via Slovenia". Nella capitale croata Zagabria, invece, la centrale piazza Tito è sopravvissuta fino al 2017. E quando cambiò di nome, con soli 26 voti contro 20, l'ex presidente croato di sinistra Ivo Josipović plaudì la decisione di conservarne le vecchie targhe in un museo: "Così potremo rimetterle dopo che vinceremo le prossime elezioni".

Fortunatamente per gli abitanti della piazza questo non è accaduto. Immaginate il fastidio di dover cambiare il proprio indirizzo a ogni cambio di governo. Notevole comunque il ritardo della Croazia rispetto alla Slovenia nell'applicare la 'cancel culture', nuovo nome à la page per il revisionismo storico. Zagabria infatti riuscì a emanciparsi dalla Jugoslavia serbofasciocomunista di Slobodan Milosevic solo dopo una guerra sanguinosa (100mila morti) e lunga (tre anni, 1992-95); Lubiana invece se la cavò con un conflitto di nove giorni e 62 vittime.

L'ottimo Ugo Magri critica  la destra italiana che vuole togliere a Tito non il nome delle poche vie italiane che gli sono dedicate (in tre capoluoghi di provincia - Parma, Reggio Emilia, Nuoro - e una decina di paesi), ma l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. Tutto il mondo libero anticomunista in realtà rispettò il dittatore comunista fino alla sua morte nel 1980. Al suo funerale partecipò perfino Maggie Thatcher. Ci faceva infatti comodo avere uno stato cuscinetto che ci separasse dal blocco sovietico, cui Tito si era ribellato nel 1948.

Se le damnatio memoriae toponomastiche spiacciono solo a chi deve mutare domicilio, c'è da scommettere invece che il dibattito sul cavalierato a Josip Broz detto Tito scatenerà i nostri nostalgici fascisti e comunisti. Quanti anni devono passare per sottrarre la storia alla polemica politica contingente? Perché la revoca dell'onorificenza al fondatore della Jugoslavia comunista può apparire oziosa o balzana.

Tuttavia il giudizio storico su Tito non può essere assolutorio, in nome di una realpolitik che valeva finché il satrapo ci era utile, ma non deve proseguire nei decenni. Innanzitutto per rispetto verso gli jugoslavi stessi: la guerra civile jugoslava 1941-45 fu, con i suoi due milioni di morti, la più sanguinosa d'Europa. E la responsabilità di tanta ferocia non fu solo degli occupanti tedeschi e italiani, ma anche dei due capi jugoslavi: il fascista croato Ante Pavelić e il comunista Tito. 

Gli italiani lamentano 15mila fra infoibati, fucilati e desaparecidos. Ma le foibe furono arma usuale dei titini, con 100mila sloveni e croati, anche civili, inghiottiti vivi nei burroni carsici.

Sempre in tema di percentuali, è bene precisare che l'occupazione italiana fece 20mila vittime: solo l'1% del totale. Con 16mila morti e dispersi fra i soldati italiani. Perché in guerra le si prende e le si dà. 

Insomma, senza assolvere Mussolini che attaccò la Jugoslavia, non scambiamo Tito per uno statista. Ruppe con Mosca? Anche la Cina di Mao lo fece. Non allineato? Anche Nicolae Ceausescu in politica estera si distingueva per la fronda contro l'Urss. Ma all'interno opprimeva la sua Romania come Stalin la sua Urss e Tito la Jugoslavia. Stesse purghe contro i capi comunisti 'devianti': il maresciallo incarcerò il delfino Milovan Gilas, e sgominò la Primavera croata di Savka Dabcević nel 1971 come quella cecoslovacca.

Si dice infine: gran merito di Tito l'aver mantenuto la Jugoslavia in pace per 40 anni. Morto lui, sono riesplosi i nazionalismi balcanici. Bella forza: tutte le dittature mantengono la pace. Quella dei cimiteri. È vero il contrario: come una pentola a pressione, la repressione titina ha aggravato le tensioni fino allo scoppio della seconda guerra civile degli anni 90. 

Insomma: la disputa sulla medaglia italiana a Tito appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa. Slovenia e Croazia ci sono già arrivate da tempo.


Tuesday, February 20, 2024

Putin sfregia la mamma di Navalny



Nemmeno la pietà di mostrare il corpo del figlio ucciso

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 febbraio 2024
Il corpo di Alexei Navalny non viene restituito e neppure mostrato a sua madre. Questo oltraggio è grave quanto la sua morte: pone Vladimir Putin fuori dai tremila anni della nostra civiltà. L'Iliade infatti, primo poema della storia, ruota tutto attorno alle vicende di due cadaveri: quello di Patroclo ucciso da Ettore e quello di Ettore poi straziato da Achille. Ma che l'eroe greco restituì al re troiano Priamo, padre dolente, come atto di estrema pietà.

Pietà di cui sembra sprovvisto Putin, il quale riesce a negare a una madre il diritto primordiale di vegliare il figlio morto. Perfino gli animali rispettano il dolore delle mamme, quando restano vicine ai loro cuccioli esangui. Ignorare questa tregua finale rappresenta quindi uno sfregio immenso, che va oltre la politica. Si tratta di negazione del sacro, di violazione del cardine di ogni religione.

Tutte le ore che passano senza che in Siberia la signora Ludmila Navalnaya possa piangere suo figlio scaraventano Putin indietro negli orrori dell'arcipelago gulag staliniano e delle crudeltà di Ivan il Terribile.
 
Sempre più satrapo asiatico, sempre meno presidente presentabile, il capo del Cremlino fa di tutto per ricordarci che, in fondo, la sua sfortunata Russia ha goduto di soli dieci anni di libertà nella sua storia millenaria. Ma anche gli anni '90 di Boris Eltsin, dopo secoli di impero zarista e 72 anni di dittatura comunista, furono contrassegnati da ubriacature etiliche al vertice e colossali rapine degli oligarchi mafiosi.
 
Una parentesi di libera corruzione presto conclusa dall'ufficiale Kgb con i suoi massacri in Cecenia. Il quale ha fatto ripiombare Mosca negli abituali intrighi: da Rasputin a Prighozin. Putin sognava di finire nei libri di storia come il nuovo Pietro il Grande. Invece il suo nome verrà associato a quello delle sue vittime inermi, trucidate o avvelenate: da Anna Politkovskaya ad Aleksandr Litvinenko, da Boris Nemtsov a Navalny. Un gradino sotto quelle di Stalin: Trotszky, Zinoviev, Kamenev, Bucharin. I quali avevano almeno una dignità di purgati dopo omeriche lotte politiche, seppur sanguinarie.

Putin invece si conferma, dopo i massacri di Aleppo e le fosse comuni di Bucha, criminale semplice. Minuscolo e anche un po' vigliacco: perché Mussolini cent'anni fa si addossò pubblicamente tutta la responsabilità del delitto Matteotti. Mad Vlad invece si limita a umiliare di nascosto la mamma di Navalny.