Tuesday, August 30, 2011

Province: che succede in concreto?

SCUOLE, INPS, PREFETTURE: COSA CAMBIERÀ PER GLI ABITANTI

I servizi rimangono, gli uffici si spostano. Ecco cosa cambierà in concreto per gli abitanti delle province abolite.

di Mauro Suttora

Oggi, 19 agosto 2011

Spariranno gli uffici statali, si sopperirà con l'informatizzazione e gli sportelli distaccati. Spariscono prefetture, questure, comandi provinciali di Carabinieri, Guardia di finanza e Vigili del fuoco, direzioni provinciali del lavoro, uffici scolastici provinciali, agenzie delle entrate, motorizzazione, Inps, Inail, Inpdap, Camere di commercio, Aci e tutti gli altri uffici statali o parastatali.

Naturalmente i servizi rimangono: pompieri e Carabinieri, per esempio, continuano ad avere tutte le loro caserme e la Polizia i commissariati. Per le pratiche negli uffici amministrativi, però, bisognerà fare più strada per andare nel nuovo capoluogo. Si ovvierà con sportelli distaccati e con l' informatizzazione (documenti on line ).

Uffici provinciali: tutte le competenze saranno assorbite dalla Provincia cui si viene annessi. Cancellati presidenti, consiglieri e assessori, le competenze passeranno alla nuova Provincia, che assorbirà quella sparita. Ed è qui il problema. Per risparmiare veramente, infatti, bisognerebbe abolire tutte le Province, e trasferire i loro uffici a Comuni e Regioni. Non ha senso, per esempio, che gli edifici delle scuole secondarie (e la loro manutenzione) siano della Provincia, e quelli delle primarie del Comune. Egualmente per le strade provinciali: possono tranquillamente passare alle Regioni.

Occorreranno tempi lunghi: le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Il numero degli abitanti si calcolerà il 9 ottobre, con il censimento 2011. Alcune province vicine ai 300 mila abitanti, come Pistoia e Benevento, potrebbero salvarsi.
Poi, le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Le appena elette Trieste, Gorizia e Vercelli, per esempio, dureranno fino al 2016.
M.S.

Wednesday, August 24, 2011

Zucchero sequestrato

La rockstar e la compagna nei guai per abusi edilizi: hanno costruito troppo in una delle spiagge più belle d’Italia. Che però resta un paradiso (costoso)

di Mauro Suttora

Oggi, 11 agosto 2011

Povero Zucchero. Appena tornato dalla massacrante tournée europea di tre mesi (ultima tappa il 7 agosto a Kaliningrad, Russia), il Corpo forestale ha messo sotto sequestro alcune suites e il nuovo tetto del ristorante all’Eco del Mare, il famoso beach-club della sua compagna Francesca Mozer fra Lerici e Fiascherino (La Spezia).

Un contrattempo che non ci voleva in piena stagione turistica, e che si aggiunge alle non poche disavventure che hanno colpito recentemente lo stabilimento dei vip (Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Roberto Baggio): un primo sequestro per abusi edilizi nel 2008, quando sopra le cabine sono state ricavate sei stanze extralusso, e l’enorme frana dello scorso Natale che ha interrotto la strada proprio sopra l’Eco del Mare.

I lavori sono ancora in corso e la circolazione è a senso unico. Ma i costosi ombrelloni rimangono aperti nell’incantevole baia. I tavoli del ristorante sono stati spostati all’ombra di una grotta, e Zucchero e la Mozer sperano che il gip sospenda il sequestro prima della grande festa del 2 settembre. Che eguaglierà quella dell’anno scorso, quando all’Eco arrivarono Pino Daniele, Ivano Fossati, Panariello e altri amici del re del rock italiano (senza offesa per i suscettibili Vasco Rossi e Ligabue...)

Wednesday, August 10, 2011

Bersani galleggia

UN MESE FA IL PD AVEVA IL VENTO IN POPPA. POI SONO ARRIVATI SCANDALI E TANGENTI CHE HANNO RIPORTATO NEI GUAI LA SINISTRA

Oggi, 1 agosto 2011

di Mauro Suttora

E pensare che soltanto un mese fa tutto sembrava andare per il meglio. Sull’onda delle vittorie alle amministrative e al referendum, il Partito democratico superava per la prima volta nei sondaggi il Popolo della libertà: 29 a 28 per cento. Il premier Silvio Berlusconi, assediato dalle inchieste P3 e P4, era in affanno. Per questo aveva chiesto al fedelissimo Angelino Alfano di lasciare la carica di ministro della Giustizia e di diventare segretario del Pdl. Gli alleati della Lega Nord fremevano.

Sperava in un bis del ribaltone

Lui, Pierluigi Bersani, segretario Pd da un anno e mezzo, dopo mesi di tribolazioni (i due sindaci vincenti a Milano e Napoli, Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris, non appartengono al Pd) sembrava per la prima volta tranquillo e veramente in sella: «Il vento è cambiato», ripeteva fiducioso. E strizzava l’occhio ai leghisti, sperando in un bis del «tradimento» con cui Umberto Bossi mandò a casa Berlusconi nel 1994.

Poi è arrivata la valanga. Prima l’arresto del manager genovese Franco Pronzato, consigliere d’amministrazione dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile) ed ex responsabile Pd del trasporto aereo. Il quale ammette di aver ricevuto da Vincenzo Morichini, «facilitatore» di appalti pubblici e finanziatore della fondazione Italiani Europei di Massimo D’Alema, 20 mila euro in contanti. La somma sarebbe uscita lo scorso Natale dalle tasche di Viscardo Paganelli, proprietario della Rotkopf: una società aeronautica che ha ottenuto da Enac, grazie a Pronzato, l’abilitazione al trasporto passeggeri per l’isola d’Elba.

Inoltre, nel 2010 D’Alema ha viaggiato cinque volte gratis sugli aerotaxi Rotkopf. Imbarazzante: «Se avessi saputo quello che poi è emerso, sarei andato a piedi», ha commentato il padre nobile del Pd. E Bersani: «Pronzato è stato mio collaboratore 11 anni fa, quand’ero ministro dei Trasporti. Ma terremo gli occhi bene aperti».

Invece molti senatori Pd gli occhi sembrano averli chiusi il 20 luglio, quando hanno contribuito a salvare dagli arresti domiciliari Alberto Tedesco (Pd), ex assessore di Nichi Vendola in Puglia accusato di corruzione e concussione. Contemporaneamente, proprio quel giorno la Camera ha spedito in carcere il deputato Pdl Alfonso Papa, ex magistrato accusato di spifferare segreti d’ufficio ai suoi compari della cosiddetta «loggia P4». Insomma, due pesi e due misure: i parlamentari di sinistra liberi, quelli di destra in prigione.

Ma il peggio, per il povero Bersani, doveva ancora arrivare. Quello stesso maledetto 20 luglio è esplosa la notizia dell’accusa contro il suo ex braccio destro Filippo Penati. E da allora per il Pd è ricominciata la via crucis. Eugenio Scalfari ha ricordato mesto l’intervista che lui stesso fece a Enrico Berlinguer esattamente trent’anni fa, luglio 1981, nella quale il segretario del Pci rivendicava orgoglioso la «diversità» della sinistra che (allora) non rubava.

E a destra Tremonti barcolla

Nel frattempo, la destra non gode. Anzi. Il ministro più potente e rispettato del governo, Giulio Tremonti, appare in grande difficoltà per la casa di Roma fornitagli dall’amico e collaboratore Marco Milanese (ex guardia di Finanza, oggi deputato Pdl). Anche per Milanese i magistrati hanno chiesto l’arresto (corruzione e associazione per delinquere). Tremonti ha ammesso di avergli versato (in contanti, lui ministro che le tasse dovrebbe farle pagare) 4 mila euro al mese.

Per sfuggire a tutte queste amarezze, Bersani è andato a distrarsi con la moglie a Pantelleria, accettando un invito nella villa dell’ex ministro Pd Vincenzo Visco. Peccato che proprio nel giorno in cui le nostre foto sono state scattate (giovedì 28 luglio) la Camera fosse in regolare seduta. Il deputato Bersani risulta quindi uno degli 85 assenti ingiustificati.

Una «bigiata» che, rispetto a tutto il resto, appare come un peccato veniale: in fondo, il segretario Pd ha soltanto mancato il voto sulla legge per la «riqualificazione dei centri storici». Speriamo almeno che il volo al mare non gli procuri imbarazzi, come a D’Alema.

Mauro Suttora

Friday, August 05, 2011

E se la Francia invadesse Montecarlo?

DOPO LE NOZZE CON CHARLENE, IL PRINCIPE ALBERTO FURIBONDO CONTRO I MEDIA. MA I PROBLEMI DI MONACO SONO BEN ALTRI...

dal nostro inviato a Montecarlo Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2011

E se la Francia invadesse Monte-Carlo? La telenovela di Alberto e Charlène si sta trasformando in un affare di stato. La bomba l’ha lanciata Christophe Barbier, direttore del rispettato settimanale francese L’Express: «Il principato dovrebbe essere annesso alla Francia, in nome della modernità», ha detto in un dibattito sulla tv France 5 rispondendo alla sobria domanda del conduttore: «C’è del marcio nel regno di Monaco?».

Immediata replica del premier monegasco, Michel Roger: «Siamo uno stato indipendente e sovrano, riconosciuto da lunga data dalla comunità internazionale». Vero e falso allo stesso tempo: la famiglia Grimaldi è infatti la dinastia regnante più antica al mondo (1297). Ma Monaco è stata ammessa all’Onu soltanto nel 1993. Ancor più sdegnato il presidente del parlamento monegasco: «Questo è neocolonialismo francese». Ignorando che L’Express è di proprietà belga, e che quindi non è controllato dal governo di Parigi.

A quasi un mese dal loro matrimonio del 2 luglio, le Loro Altezze Serenissime Alberto e Charlène (questo il loro titolo ufficiale) non sono affatto serene. Tornati alle sei del mattino di mercoledì 20 luglio dal Mozambico, dopo dodici ore hanno convocato quattro giornalisti locali per smentire «tutte le malignità che vengono scritte su di noi».

E cioè che la principessa stava per fuggire prima delle nozze dopo aver scoperto che Alberto deve riconoscere un terzo figlio naturale avuto quando erano già fidanzati, che durante la cerimonia Charlène sembrava triste e fredda, che nella luna di miele (subito soprannominata «di fiele») hanno dormito in stanze separate, addirittura in alberghi lontani 15 chilometri. E che ci sarebbe un contratto prenuziale in cui già si prevede il divorzio dopo che lei avrà scodellato l’erede al trono.

Insomma, il classico matrimonio di convenienza. Ma che una coppia organizzi una conferenza stampa per smentire pettegolezzi, non era mai successo nella storia della vipperia mondiale. Diana avrebbe dovuto farne una al giorno, allora.

Siamo andati a indagare a Monte-Carlo. E abbiamo trovato tutte le edicole della città tappezzate con il titolone del quotidiano locale Monaco-Matin: «Alberto non ne può più». Mai giornale fu più perfido. Uno pensa subito: «Allora è vero: non ne può più di Charlène». No, è stufo dei «rumeurs», delle voci.

Però alla fine dell’articolo c’è una descrizione velenosa. Alberto rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. Poi posa la mano sulla coscia della sposa e le chiede in inglese se vuole aggiungere qualcosa. «No», risponde lei, con «postura distante». «Un atteggiamento che non può essere interpretato, che non lascia supporre nulla», commenta la giornalista. E questo è il massimo che si può scrivere o dire, nel principato. Per lo meno con nome e cognome.

Perché va bene che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, ma da queste parti è tutto un pissi-pissi. In privato. In pubblico, nessuno osa dir nulla sulla famiglia regnante.

«Colpa di voi giornalisti», commenta un’elegante signora seduta al Beach Club, «inventate tutto, lo si è visto con il caso Murdoch». Ma possibile che i giornali dell’intero pianeta abbiano notato qualcosa di strano nelle nozze principesche? I nostri vicini di tavolo al ristorante Rampoldi sparano, sicuri ma anonimi: «Alberto è gay, fidanzate figli e moglie sono una copertura». Al Casinò un monegasco critica Charlène: «In cinque anni non ha imparato il francese, peggio di Schumacher con l’italiano…»

Andiamo al meeting di atletica allo stadio, dove ogni anno si gioca la supercoppa europea. La gloriosa squadra del Monaco (sette scudetti nel campionato francese, seconda in Europa nel 2004 dietro al Porto di Josè Mourinho) è stata appena retrocessa in B dopo 34 anni. È questo il vero lutto per i locali, non i pettegolezzi contro i reali. La tribuna stampa è vicina a quella d’onore, scrutiamo Alberto e Charlène. Sembrano sereni, scendono in pista a premiare i campioni Usain Bolt e Blanka Vlasic. È questo il lavoro dei principi: dare medaglie, presenziare.

Charlène va a visitare la mostra sulle proprie nozze, aperta dal 9 luglio al Museo oceanografico (che c’entrano i reali con i pesci? Il comandante Jacques-Yves Cousteau si rivolta nella tomba). «Trentamila visitatori in dieci giorni!», si entusiasma il settimanale Monaco Hebdo. Ma le carovane di turisti sbarcati da navi di crociera e torpedoni pagano comunque 14 euro per entrare nel Museo e visitare soprattutto gli acquari. Qualunque sia la mostra temporanea in corso.

Siamo nel pieno della stagione turistica, sette milioni di turisti affollano ogni anno il principato. Che con appena due km quadrati è lo stato più piccolo al mondo dopo il Vaticano, il più affollato e il più ricco: 130 mila euro di reddito medio per i suoi 35 mila residenti. Gli stranieri sono 25 mila, gli italiani 6 mila. Non pagano tasse: basta avere o affittare una (costosissima) casa, starci almeno sei mesi l’anno, versare mezzo milione di euro in una banca monegasca e incassare redditi non guadagnati in Italia. L’esenzione non vale per i 9 mila francesi, cui nel ’63 il generale Charles De Gaulle tolse il paradiso fiscale minacciando, lui sì, l’invasione. La tranquillità dei miliardari è protetta da 500 agenti e 116 carabinieri, la più alta densità di polizia sulla Terra.

«La crisi però colpisce anche qui», ci dice Milena Radoman, caporedattrice di Monaco Hebdo, «il Pil è calato del dieci per cento e quindi ogni ministero ora deve tagliare la stessa percentuale». Male va la Societé Bains de Mer, di proprietà statale (quindi della famiglia reale) anche se quotata a Parigi, che controlla quasi tutto a Monaco: i quattro hotel più lussuosi, cinque casinò, 34 ristoranti, 12 discoteche (Jimmy’z, Buddha Bar, Rascasse), l’Opera, i Beach, Golf, Sporting e Country Club, e centinaia di appartamenti: l’ultimo anno i profitti sono crollati da 40 milioni a uno. Il casinò è a meno 18 per cento, e la colpa non è solo del divieto di fumo.

Il regno da operetta non è più l’enclave raffinata di 50, 100 o 150 anni fa (la fortuna cominciò con l’arrivo contemporaneo nel 1860 di casinò e treno). Troppi nobili e grandi industriali sono stati sostituiti da nuovi ricchi cafoni russi e greci, arabi e anche italiani.

Sulla terrazza dell’Oceanografico una mappa mostra le distanze con tutte le città del mondo. Manca solo Johannesburg, da dove viene Charlène. Ed è forse la distanza maggiore…

Mauro Suttora

Thursday, August 04, 2011

parla Morten Malmoe

LO STORICO DICE: «NESSUN PERICOLO NAZI IN NORVEGIA, IL KILLER E' UN PAZZO ISOLATO»

Oslo, 25 luglio 2011

di Mauro Suttora

«È il gesto di un pazzo isolato. Le stragi di Oslo e Utoya non hanno alcun significato politico. Rimarranno nella storia della Norvegia perché sono tremende. È il nostro 11 settembre. Ma sono l’opera di una persona sola e malata».
Morten Malmoe, 58 anni, è l’editore della casa norvegese Historie & Kultur. A lui chiediamo una spiegazione della carneficina.

«Anders Breivik si autodefinisce “nazionalista, religioso e anti-islamista”. Attenzione: non “nazista”. E in Norvegia non c’è più alcun partito, seppure minuscolo, che partecipi alle elezioni con programmi che richiamino anche lontanamente il nazismo o il fascismo. Un pericolo neonazi ci fu negli anni ‘70, quando i gruppi di estrema destra si scontravano con quelli di estrema sinistra. Ma adesso tutto si è trasferito dalla strada a internet. E i deliri con svastica non sono giudicati una minaccia dalla nostra polizia».

Infatti Breivik non era neppure schedato.
«No, perché in tutta la sua vita non aveva mai commesso alcun reato. Né aveva partecipato a episodi di violenza. Fino a tre anni fa abitava qui a Oslo, nella mia zona».

Però è stato iscitto al partito del Progresso, che ha il 20 per cento.
«E se n’è andato da parecchio. Il partito del Progresso è di destra, ma non è mai stato violento. Esiste dal 1973, e dagli anni ‘90 al suo programma antifiscale ha aggiunto la polemica contro l’immigrazione, che giudica eccessiva. Ma non c’entra nulla con Breivik».

La Norvegia ha avuto Vidkun Quisling, sinonimo di collaborazionismo con i nazisti.
«Sì, quella è una pagina nera della nostra storia. Ma Breivik è solo un pazzo grafomane. Ho cercato di leggere le 1.500 pagine che ha scritto: paccottiglia insensata. Oltretutto ha colpito, lui anti-islamico, i ragazzi del partito socialdemocratico che ora viene criticato per i motivi opposti: i bombardamenti sulla Libia. Siamo tutti sotto choc. Sono appena tornato dalla cattedrale, piena di candele e fiori per le vittime. Commovente. La vita in Norvegia non sarà più la stessa».

Strage in Norvegia minuto per minuto

I 78 MORTI DEL KILLER ANDERS BREIVIK

Oslo, 25 luglio 2011

Anders Behring Breivik arriva nel paradiso dell’isola di Utoya alle cinque del pomeriggio di venerdì 22 luglio. Il cielo è nuvoloso, lui ha guidato per 40 chilometri da Oslo. L’intera Norvegia è precipitata nel panico. Alla radio, durante il viaggio, Anders ascolta le notizie sull’autobomba che lui stesso ha appena fatto esplodere nel centro di Oslo un’ora e mezzo prima. Interi palazzi con i vetri delle finestre distrutti, terrore, sangue, passanti per terra, alcuni immobili.

Nessuno sa il numero di morti e feriti: qualcuno urla che è una strage, decine di vittime (alla fine si conteranno dieci morti). L’esercito blocca tutto il centro della capitale. L’ipotesi più probabile: Al Qaeda, oppure una vendetta di Muammar Gheddafi per i bombardamenti Nato sulla Libia che impegnano anche aerei norvegesi.

Nessuno lo immagina, ma il peggio deve ancora arrivare. Anders continua il suo lavoro, per il quale si è preparato negli ultimi tre anni della sua vita solitaria. Da Oslo ha preso la E16, la strada più importante della Norvegia: collega Oslo con Bergen, seconda città del Paese. Solo pochi tratti sono a quattro corsie. Anders sta attento a non superare il limite di velocità: 80 all’ora. Tutto scorre lento e tranquillo, in Norvegia. Anche le stragi.

Arrivato al fiordo Tyri, parcheggia la macchina vicino all’imbarcadero del traghetto per l’isola. È vestito da poliziotto. Alla cintola porta una pistola Glock. Normalmente i poliziotti norvegesi non vanno in giro armati. Questo è il Paese più ricco e pacifico del mondo, ogni anno a Oslo viene consegnato il premio Nobel per la pace.

Ma adesso è scattata l’emergenza. Dopo gli attentati di Londra del 2005, i terroristi tornano a colpire in Europa. «Devo andare sull’isola per proteggere i ragazzi», dice il finto poliziotto Anders al barcaiolo che lo traghetta per 500 metri. Trasporta con se un sacco dove ha nascosto una mitragliatrice, un fucile americano Ruger Mini-14 semiautomatico e le munizioni. Tante munizioni. Le pallottole del fucile sono calibro 5 e 56 millimetri (pare che Anders abbia trasformato alcuni proiettili in «dum dum» per farli esplodere dentro ai corpi).

L’isola di Utoya (felice assonanza con Utopia) è larga 300 metri e lunga 500. Per tre quarti è coperta da boschi, come tutto in Norvegia. Nelle uniche tre radure ci sono un campo di calcio, uno di pallavolo e un campeggio. L’isola è di proprietà del partito socialdemocratico, che ogni estate organizza campeggi per adolescenti. Alla fine arriva il leader del partito per un comizio, che ha larga eco nel Paese. Quest’anno è atteso il premier Jens Stoltenberg.

Quando Anders mette piede sull’isola, tutti sono felici. «Sono venuto da Oslo per proteggere i ragazzi, seguite le mie istruzioni. Portateli nell’edificio principale fra mezz’ora», dice agli organizzatori. Poi si dirige nello chalet di legno dello staff. Ma prima si ferma all’ufficio informazioni. Lì fredda la prima vittima: Monica, la manager del campus. Due colpi secchi. Non li sente nessuno tranne una giovane italiana fidanzata a un socialista norvegese, che si trova lì col figlio di undici anni Si affaccia alla finestra: «Vedo Monica accasciarsi al suolo. Poi da dietro l’angolo spunta un uomo in divisa, alto e muscoloso. sembra un agente delle forze speciali. Va avanti lasciandosi il corpo esanime alle spalle».

Calma e metodo: le due qualità di Anders. Che ora si dirige verso il centro dell’isola, dove stanno affluendo le decine di ragazzi campeggiatori. Lo guardano con fiducia. Ormai sono entrati quasi tutti, è pronto il collegamento web e tv per i ragguagli dopo la strage di Oslo. Improvvisamente, il poliziotto tira fuori dal sacco la mitraglietta e comincia a sparare all’impazzata. Mira soprattutto alle ragazze. Che, cadendo a terra colpite, non capiscono: chi è quell’uomo?

Anders entra nella grande sala, fa chiudere le porte. I ragazzi e i sorveglianti, di poco più anziani, hanno sentito gli spari e le urla fuori, ma non hanno visto che il killer è proprio lui. Ancora una volta Anders li rassicura: «Tranquilli, vi proteggo io». Poi però ricomincia a sparare.

L’unica guardia non armata cerca di fermarlo, ma viene falciato in un attimo. È Trond Berntsen, fratellastro della principessa Mette-Marit, futura regina di Norvegia. I ragazzi gridano terrorizzati, si allontanano dal poliziotto assassino e scappano verso le porte. Ma per Anders il lavoro è facile: spara nel mucchio, la carne è tanta. Calma e metodo. Cammina sui corpi, spara a quelli che ancora si muovono. Quando la sala è vuota esce. Chi rantola viene finito. «Sono salvo per miracolo perché ho fatto finta di essere morto», dice un ragazzo di 16 anni, «mi aveva colpito al braccio e morivo dal dolore, ma sono riuscito a stare zitto».

Ora Anders si dirige verso le tante piccole tende canadesi colorate del campeggio. Le apre una ad una. Chi si è nascosto lì dentro non ha scampo: trucidati come bestie. Si sono fatte le sei. Molti ragazzi hanno chiamato con i telefonini. Si nascondono nei boschi, aspettando aiuto. «Chiudete la suoneria, altrimenti vi sente», consiglia un padre. Ma Anders ha tutto il tempo di proseguire la mattanza. La polizia, infatti, è tutta impegnata nell’attentato di Oslo. Le forze speciali non trovano un elicottero. Decidono di partire in auto verso l’isola.

I ragazzi più coraggiosi si buttano in acqua. Che è gelida, e inghiotte chi non sa nuotare bene. Anders perlustra il bosco e ad ogni minuto trova qualche preda. Spara, ricarica. Ricomincia. Non corre. Fa il giro di quasi tutta la costa dell’isola, per stanare chi si è nascosto sotto le rocce della riva. Il turista tedesco Marcel Gleffe arriva con la sua barca per salvare qualche ragazzo. Anders prende la mira, ma riesce a colpire solo chi nuota ancora vicino. Alle sei e mezzo, finalmente, ecco le forze speciali: «Non ha opposto resistenza. Sembrava stanco. Ma era calmo e tranquillo». Ora, secondo la legge norvegese, rischia 21 anni di carcere per 78 morti.

Mauro Suttora

Friday, July 29, 2011

tutti pazzi per Cameron

Tredici anni dopo Tutti pazzi per Mary, Cameron Diaz ormai 40enne di nuovo strepitosa in Bad Teacher (Una cattiva maestra), nei cinema italiani dal 31 agosto. Può un film basarsi sulla bravura di una sola attrice? Sì.

Battute da scuola media inferiore, quindi divertentissime. Justin Timberlake recita se stesso. Una chicca nella colonna sonora: la canzone Nothing from Nothing di Billy Preston, il quinto Beatle (piano elettrico in Get Back e organo in Let it be)

Consigliato alle rifattone.
Sconsigliato agli ammiratori di quella pizza tremenda che è The tree of life.

Scena migliore: quando Cameron vuole rifarsi le tette.
Scena peggiore: quando Timberlake canta una canzone composta da lui

Voto: 7

Thursday, July 07, 2011

Le tre agenzie che controllano il mondo

dall'inviato a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 giugno 2011

A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.

Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?

Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.

«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».

Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.

Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».

Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?

È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».

Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.

«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».

Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».

Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.

Mauro Suttora

Wednesday, June 29, 2011

Basta spedizioni all'estero

LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN

di Mauro Suttora

Oggi, 22 giugno 2011

Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.

Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».

Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.

In Kosovo da 12 anni: un'eternità

«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».

Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».

Inutile Libano

Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora

Wednesday, June 22, 2011

Chi è Lorenza Lei, direttrice Rai

Oggi, 15 giugno 2011

Passerà alla storia come colei che cacciò Michele Santoro dalla Rai? Dopo dieci anni di inutili tentativi altrui, Lorenza Lei ci ha messo pochissimo. Nominata direttrice generale Rai all’inizio di maggio, dopo un solo mese il turbolento tribuno di Annozero era già fuori. Con una liquidazione di 2,3 milioni, certo, e senza la clausola di non concorrenza per uno o due anni contro l’ex azienda, usuale per chi strappa buonuscite così pingui. Per questo il premier Silvio Berlusconi non è soddisfatto.

Ma anche la sinistra protesta per la fine di un programma che nell’ultima puntata ha attratto più di otto milioni di spettatori: uno su tre, e addirittura uno su due dopo il battibecco fra Santoro e il viceministro Roberto Castelli. Avendo scontentato tutti, può darsi che Lorenza Lei abbia fatto la cosa giusta.

Ma chi è questa signora dallo strano cognome, prima donna a guidare la Rai (Letizia Moratti e Lucia Annunziata furono presidenti, carica non operativa)? Coro unanime: «Gran lavoratrice». In questi suoi primi 40 giorni al comando non ha cambiato abitudini: prima ad arrivare al mattino, ultima ad andarsene alla sera. «Fa impazzire il settimo piano di viale Mazzini, lavora anche la domenica», dice il consigliere d’amministrazione Pdl Antonio Verro. Niente feste romane alla sera. Unica uscita pubblica: un convegno dei Fratelli delle scuole cristiane con la sua protetta Lorena Bianchetti e i suoi protettori Gianni Letta e cardinale Camillo Ruini. Nessuna dichiarazione o intervista. Unica volontà filtrata all’esterno: più servizio pubblico, meno reality.

Bolognese, 51 anni, figlia di comunisti, separata, un figlio 28enne chef che vive con lei e la nonna, e cucina cene per gli ospiti (di recente Anna Falchi). Lorenza Lei è la risposta vivente a tutti i genitori che allontanano i figli da studi ritenuti poco «produttivi» come antropologia o filosofia. Lei si è laureata al magistero in antropologia filosofica. E ora eccola alla guida della più grande industria culturale italiana (13 mila dipendenti, 16 canali), dopo una carriera fulminea: l’assunzione a tempo indeterminato in Rai, infatti, risale ad appena dodici anni fa. Prima, dal 1996 al ’99, era solo una manager precaria, introdotta in Rai International da Renzo Arbore che la apprezzava.
«L’ho conosciuta a Bologna prima che entrasse in Rai», dice a Oggi Piero Di Pasquale, ex vicedirettore di Rai International, «è sempre stata una donna risoluta e sicura, con obiettivi molto alti. Aveva una visione precisa di ciò che voleva e doveva fare».

Ce l’avrà anche adesso che le piovono addosso critiche da destra e sinistra, dopo i consensi unanimi raccolti al momento della nomina? Perché la Rai è un gigante malato da risanare (98 milioni di deficit nel 2010), ma le spine sono soprattutto politiche. E le quattro maggiori tutte targate Rai3: Giovanni Floris (Ballarò), Fabio Fazio (Che tempo che fa), Milena Gabanelli (Report), Serena Dandini (Parla con me). Queste trasmissioni proseguirano, anche se il centrodestra le cancellerebbe volentieri. Fazio si è lamentato con una lettera a Repubblica: «Mi trattano male, non rifarò Vieni via con me in Rai con Roberto Saviano».

Il programma della Dandini perde

«Non è vero che Berlusconi sia deluso da Lei», dice Verro. «Non gli piace la gestione della Rai, ma lei che c’entra, è lì da poco. In tre consigli d’amministrazione ha presentato tre diversi palinsesti. Sull’ultimo ho grandi perplessità. La storia per cui vogliamo approvare preventivamente ospiti e scalette di Floris, Fazio e Gabanelli non ha senso. Chiuderle? No, a meno che non ci siano seri problemi economici, come nel caso della Perego. Anche la Dandini ha conti malmessi, perde cifre enormi. Quanto a Santoro, se fosse rimasto gli avrei impedito di tenere Travaglio, che non è servizio pubblico».

Lorenza Lei deve effettuare molte nomine nei Tg (il Tg2 è vacante da mesi) e nelle reti. I direttori di queste ultime rischiano poteri dimezzati se riuscirà a unificare tutti i programmi di intrattenimento in una sola direzione. «Lei sa bene quel che può fare, ma anche quello che è meglio non fare», spiega Di Pasquale, «perché sa essere molto dura, però con i piedi per terra. In questi ultimi anni si è fatta apprezzare ma anche temere. Prende lei le decisioni, non è una yes-woman».

Dopo aver seguito i programmi per il Giubileo e Rai1, dal 2002 al 2006 Lei è stata capo dello staf di tre direttori generali: Agostino Saccà, il leghista Flavio Cattaneo e Alfredo Meocci. Ha assistito a trecento consigli d’amministrazione, conosce la Rai come le sue tasche. In più è cattolica, partecipa ai convegni del Vaticano e frequenta i cardinali più potenti d’Italia: Angelo Bagnasco e Tarcisio Bertone. Fu lei, prima di entrare in Rai, a organizzare la famosa mostra sulle icone russe nei Musei vaticani. Sul versante modaiolo, invece, nel ’91 curò l’evento «Valentino, 30 anni di magia».

Ci vorrà un po’ di magia anche per sopravvivere fra i trabocchetti e gli anfratti Rai. Dopo i lunghi regni dei dc Ettore Bernabei, Biagio Agnes e Gianni Pasquarelli, i direttori generali non sopravvivono più di due-tre anni. La Lei è diversa dagli ultimi due, il prodiano Claudio Cappon uomo del parastato Iri, e il berlusconiano Mauro Masi, gran manovratore del potere romano. Aziendalista, da cinque anni era «direttrice delle risorse tv». In pratica, ogni contratto e budget è passato dalla sua scrivania. Per far abbassare le richieste ad agenti e artisti pare abbia una tecnica infallibile: li fa aspettare ore senza aria condizionata d’estate e senza riscaldamento d’inverno. Per il produttore Bibi Ballandi «è una tosta, non ti regala nulla».

Si è subito scontrata con il potente agente Lucio Presta. Prima ha fatto trapelare che avrebbe cancellato i programmi di Paola Perego (fidanzata di Presta), di Lorella Cuccarini, e che avrebbe affidato il festival di Sanremo a Carlo Conti, sottraendolo a Presta. Ma di recente pare ci sia stato un riavvicinamento a Presta, che è anche agente di Roberto Benigni e altri importanti artisti. Per Lei, donna di numeri, pianificazioni, share e prodotti, in Rai non devono prosperare potentati.

Ma la Tv di stato, lo sanno tutti, non è una semplice azienda. È anche un ministero, un po’ come il vicino palazzo del Coni. E fra i più importanti di Roma. Quindi per guidare la Rai bisogna essere anche sperimentati politici, oltre che efficaci manager. Altro che Bocconi: chissà che a Lorenza Lei in questi giorni tormentati non venga buona soprattutto la laurea in antropologia filosofica...

Mauro Suttora
(hanno collaborato
Marianna Aprile e Tommaso Gandino)

Il "va e vieni" delle società alimentari

PARMALAT ALLA LACTALIS, MA ALTRE AZIENDE TORNANO ITALIANE

di Mauro Suttora

15 giugno 2011

Aziende che vanno, aziende che vengono. La multinazionale francese Lactalis sta comprando il nostro sfortunato gigante Parmalat che, nonostante i suoi 4,3 miliardi di ricavi e 280 milioni di utile nel 2010, dopo il crac di Calisto Tanzi è diventata una preda appetibile. E ormai parlano francese quasi tutte le grandi marche industriali italiane di formaggi: Lactalis ha cominciato lo shopping nel 1997 acquisendo Locatelli da Nestlè, sei anni dopo Invernizzi da Kraft, poi Cademartori da Bel Group e infine Galbani nel 2006 da Danone, che l’aveva comprata nell’89.

Un vero innamoramento, quello di Lactalis per l’Italia. Né si può imputarle di averci «preso» tutti i latticini, perché da molti anni le storiche famiglie proprietarie avevano trovato conveniente vendere ad acquirenti esteri. I primi furono i Locatelli, che cedettero a Nestlé addirittura mezzo secolo fa (in quello stesso anno, 1961, Tanzi fondò a Parma il suo «gioiellino»).

Nell’ultimo decennio, però, altre famose società alimentari italiane che erano finite in mano straniera sono tornate a casa. Agnesi, la pasta più antica d’Italia fondata nel 1824 a Imperia, è stata acquistata dalla Colussi nel 1999. Lo storico marchio con il bastimento a vela (la nave che portava nel mulino ligure il grano duro dal mare d’Azov, allora considerato il migliore del mondo) era passato alla francese Danone, la quale a sua volta per qualche anno fu degli Agnelli, e sponsorizzava la Juventus.

Giri di valzer all’estero anche per i salumi Negroni, nati a Cremona nel 1907: «La società è stata della famiglia fino agli anni 80, quando venne acquisita dal gruppo Kraft», dice a Oggi il dirigente Massimiliano Ceresini, «per poi essere ceduta al gruppo Malgara. Dal 2002 è entrata a far parte del gruppo Veronesi». Cioè la quarta azienda alimentare italiana, che fattura 2,3 miliardi di euro con il pollo Aia e i salumi Montorsi, Fini e Daniel.

Nel 2005 la famiglia napoletana Pontecorvo ha acquistato, sempre da Danone, le acque minerali Ferrarelle (Caserta) e Boario (Brescia). Ferrarelle e Sangemini erano state vendute nell’87 dalla famiglia Violati (Giulio è il marito di Maria Grazia Cucinotta), che cinque anni dopo ha riacquistato Sangemini.

Nel 2008 è la volta di Charms e Sanagola: le caramelle lanciate negli anni 60 da Motta-Alemagna rientrano alla Fida di Castagnole delle Lanze (Asti) dopo una peregrinazione fra multinazionali svizzere, inglesi e olandesi. Nello stesso anno Angelo Mastrolia di Newlat (Polenghi, Giglio, Optimus, Ala, Torre in Pietra) rileva la pasta Buitoni da Nestlè, che però conserva oil marchio per surgelati, pasta fresca e salse.

Nel 2009 l’olio Dante, nato a Genova nel 1854, viene rilevato dagli oleifici Mataluni di Montesarchio (Benevento), che hanno i marchi Topazio e Oio. Per un solo anno Dante era stato della spagnola Sos Cuetara (Carapelli, Sasso, Bertolli), dopo 23 anni di Unilever.

Motta e Alemagna, infine. Le due storiche società sono state vendute due anni fa dalla Nestlè alla Bauli di Verona. Il che rappresenta la vittoria del pandoro industriale sul panettone. I gelati Motta però continuano a essere della Nestlè.

E adesso? Il governo italiano può impedire che Parmalat, senza debiti e anzi con un miliardo e mezzo di liquidità, finisca alla Lactalis indebitata già per tre miliardi, che aumenteranno a sette dopo l’acquisto? In base alle leggi di mercato, no. Ma nel 2005 il governo francese le ignorò, quando bloccò la scalata dell’americana Pepsi alla francese Danone.

Mauro Suttora

Wednesday, June 15, 2011

2011: fuga da Berlusconi?

DOPO LA SCONFITTA A MILANO E NAPOLI, I LEGHISTI E PERFINO QUALCUNO NEL PDL LO CONSIDERA UNA ZAVORRA

di Mauro Suttora

Oggi, 8 giugno 2011

Bollito. Debole. Esibizionista. Re Mida al contrario. E poi leggero, imprudente, logoro, nervoso, ossessionato dai giudici, bislacco, poco lucido... Perfino «ingessato come Breznev». Così è stato definito Silvio Berlusconi dopo il voto del 30 maggio. Ormai il centrodestra, perse Milano, Napoli, Trieste e Cagliari, non governa più alcuna grande città d’Italia tranne Roma e Palermo. Un disastro.

La novità è che questi giudizi contro il premier non sono stati pronunciati da avversari, ma da esponenti del suo partito o alleati. Il candidato sindaco napoletano Gianni Lettieri addirittura non voleva che Berlusconi partecipasse al concerto di chiusura della campagna elettorale con il cantante Gigi D’Alessio. Invece il capo è arrivato, per la prima volta dopo 18 anni è stato contestato, e alla fine il dipietrista Luigi De Magistris ha trionfato con il 65 per cento. Cosicché Berlusconi, forse temendo altri fischi, è andato in auto alla parata militare del 2 giugno a Roma, senza concedersi il bagno di folla (plaudente) degli anni scorsi.

Cos’è successo? 2011, fuga da Silvio? Neanche nella sua piazza Duomo a Milano il premier si è fatto vedere al comizio finale per il ballottaggio di Letizia Moratti. E pensare che fino a pochi mesi fa la sua presenza era contesa ovunque ci fosse un’elezione: bastava una sua apparizione per far vincere perfetti sconosciuti del Pdl, dalla Sardegna agli Abruzzi. «Era come re Mida, trasformava in oro tutto ciò che toccava. Ora invece...», sibilano i leghisti. Adesso qualcuno considera Berlusconi quasi una zavorra. «Il suo modo di comunicare non funziona più», lo boccia Paolo Glisenti, consulente della Moratti. Insulto sanguinoso, per colui che perfino i nemici ammettono sia stato il mago indiscusso della comunicazione negli ultimi trent’anni in Italia, prima con le tv e poi in politica.

Cominciano le defezioni. Elio Catania, capo dell’Atm milanese famoso per gli otto milioni di liquidazione ricevuti dal centrodestra dopo due soli anni non brillanti alle Fs, si è subito proposto con un’e-mail al nuovo sindaco di Milano Giuliano Pisapia. La vistosa sottosegretaria Daniela Melchiorre ha lasciato l’incarico appena ricevuto. L’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato ha votato De Magistris. E anche il presidente della Bpm (Banca popolare di Milano), l’ex prodiano Massimo Ponzellini, sembra pronto a un altro salto della quaglia. Piccoli episodi, ma indicativi di un cambio di vento. «Viviamo alla giornata», confessa la parlamentare Pdl Deborah Bergamini.

L’unica deputata berlusconiana che finora ha avuto il coraggio di dissociarsi pubblicamente è la bionda bolzanina Micaela Biancofiore: «In queste condizioni il Pdl non va da nessuna parte», ha sbottato, minacciando addirittura di fondare un nuovo partito. Poi però ha precisato che se Silvio la chiamasse personalmente, potrebbe recedere. Così come hanno fatto nei mesi scorsi le ministre Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo, riconquistate dopo pochi giorni di capricci dal fascino (politico) del capo.

Ecco, il carisma: «Berlusconi ha perso altre volte, ma nel ’96 e nel 2006, dopo le sconfitte con Prodi, il suo carisma era fuori discussione», spiega Giuliano Ferrara, berlusconiano di ferro. Ora invece «Berlusconi è indebolito, sta prendendo tratti di immobilismo impressionanti. È risucchiato da una logica conservatrice che lo isola e lo induce a un monologo ripetitivo».

Più brutale Vittorio Feltri, altro campione del centrodestra: «Berlusconi è talmente preso dalle sue cose che non ha più testa per pensare ai cittadini. Per questo il vento ha cominciato a cambiare. L’uomo è robusto, ma ha le sue debolezze. Mi riferisco alle donne, ma non solo: c’è anche la mania di esibirle. Il Cavaliere ha esagerato. Prima Noemi, poi la D’Addario, infine il fragoroso epilogo del bunga bunga, Olgettina, Minetti e Ruby. Anche i tifosi di Berlusconi hanno arricciato il naso. Se si fa la somma delle sue leggerezze, si comprende perché molti elettori si sono stancati».

E i processi, la guerra con i magistrati? «Per anni hanno procurato voti perché c’era la convinzione che il premier fosse vittima di un intrigo. Ma negli ultimi tempi hanno dato l’impressione di assorbire tutte le sue energie fisiche e mentali».

Le conclusioni di Feltri sono drastiche: «Nel Pdl la parola d’ordine è “Si salvi chi può”. Ciascuno cerca di arraffare e di assicurarsi un bottino per sopravvivere. Spero di sbagliarmi, ma se si va avanti così fra poco chi ha issato Silvio sul piedistallo più alto si impegnerà a farlo precipitare con gran fragore».

Addirittura? E chi sarà il Pietro che rinnegherà prima che il gallo canti? Il ministro della Cultura Giancarlo Galan, già governatore del Veneto, non ha dubbi: «Il vecchio nucleo centrale di Forza Italia è nettamente distinto da altre esperienze. Per esempio quella di Formigoni. Anche la fusione con An è stata uno sbaglio. Oggi nel Pdl cercano di dettar legge La Russa e Alemanno che, con tutto il rispetto, hanno un’altra storia e valori diversi dai nostri, liberali e moderati. Forse loro sono lì che piangono perché in Italia c’è il divorzio, invece noi siamo felici».

E, in polemica con avversari del testamento biologico come il ministro Maurizio Sacconi, la sottosegretaria Eugenia Roccella o il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello, il laico Galan aggiunge: «Volevamo meno regole, e ora pretendiamo di regolamentare perfino gli ultimi minuti di vita di un malato. Ma almeno da queste elezioni è uscito qualcosa di positivo: la saldatura fra i fondatori di Forza Italia e nuove personalità come Alfano, Frattini, la Prestigiacomo».

Angelino Alfano, nuovo segretario unico del Pdl: riuscirà a governare il Pdl, tenerlo unito, e far durare la legislatura fino alla scadenza naturale del 2013? La Lega Nord non tradirà? Chi sarà il nuovo candidato premier? Anche il Pdl organizzerà primarie per stabilirlo, e con quali regole? Ma soprattutto: Berlusconi accetterà il pur fedele Alfano come delfino, oppure anche lui farà la triste fine degli altri eredi designati (Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Giulio Tremonti)?

Fra tre mesi Silvio compie 75 anni. È l’età in cui perfino i cardinali vengono mandati in pensione. Ma c’è da scommettere che, dopo 17 anni in cui ogni settimana gli avversari lo hanno dato per finito, Berlusconi si senta ancora assai in forma. «Teniamocelo, a costo di rimetterlo a nuovo», dice Feltri. «Anche se il motore batte un po’ in testa, meglio lui revisionato che qualche rottame comunista riverniciato di buonismo». Insomma la lotta continua, nonostante tutto. I berlusconiani possono criticarlo, anche con durezza. Possono litigare e dividersi fra loro. Ma, come dice Ferrara, «Berlusconi è ancora senza alternative per il suo movimento popolare».

Mauro Suttora

Wednesday, June 08, 2011

Il triangolo del potere mondiale

GOOGLE, APPLE, YAHOO, FACEBOOK, SKYPE, LINKEDIN: LE MULTINAZIONALI DELL'ERA DIGITALE HANNO TUTTE SEDE IN UN TRIANGOLO DI SOLI 9 KM NELLA SILICON VALLEY

San Francisco (Stati Uniti), 1 giugno 2011

di Mauro Suttora

Mai nella storia era successo che tanto potere fosse concentrato in così poco spazio. All’interno di un triangolo californiano di soli nove chilometri hanno le loro sedi tutti i giganti mondiali dell’era digitale: la Apple con i suoi i-pod, iphone e i-pad, Yahoo e Google con i motori di ricerca, i social network Facebook e Linkedin, i videotelefoni Skype.

Siamo nella Silicon Valley, cuore già dagli anni 70 di tutto ciò ha a che fare col silicio. Cioè la materia base dei chip, anima dei computer. La Hewlett-Packard nacque a Stanford 70 anni fa. L’omonima università di Palo Alto ha sfornato decine di premi Nobel, e il suo «science park» è l’humus di molte aziende informatiche: Intel, Sun, Oracle. Pochi chilometri a nord, a San Francisco, ci sono Twitter e Wikipedia. E un po’ più a sud, a San Josè, ecco Cisco, Adobe, E-bay.

Insomma, chiunque apra un computer oggi nel mondo usa qualcosa che viene da questo piccolo «triangolo». Un tale dominio planetario non si era mai verificato. L’antica Roma non andò mai oltre la Persia. Londra e Parigi avevano imperi coloniali, ma in contrasto fra loro. E neanche la New York del XX secolo americano era riuscita a sottomettere potenze come Russia o Cina. Ora invece i giovani russi, cinesi o arabi si scambiano video su Youtube e organizzano rivoluzioni con Facebook. Tanto che il capo di Wikileaks Julian Assange accusa, un po’ paranoico: «Gli Stati Uniti controllano il mondo con i social network».

È incredibile anche la durata del fenomeno Silicon Valley, oltre che la sua concentrazione geografica. Nel 1976 Steve Jobs fonda la Apple a Cupertino: i suoi computer Macintosh sono più moderni di quelli della newyorkese Ibm. Negli anni 80 la Microsoft di Bill Gates domina nel software (programmi), ma Seattle sta comunque nella West Coast. E nel decennio successivo il «triangolo» californiano si prende la rivincita con i motori di ricerca: nel 1995 Yahoo, tre anni dopo Google.

Ma è con il nuovo millennio che riesplode la Silicon Valley: Skype nel 2002, l’anno dopo Linkedin, nel 2004 Facebook. Il ritmo si fa vorticoso: il primo social network My Space, acquistato a peso d’oro dal magnate Rupert Murdoch, in soli due anni è sorpassato da Facebook, che oggi connette istantaneamente 600 milioni di persone in tutto il mondo.

Anche l’inventiva di Jobs è insuperabile: nel 2001 l’i-pod che distrugge l’intera industria discografica; poi l’i-phone, che fa subito sembrare vecchio il blackberry; infine l’i-pad, che un giorno potrebbe sostituire anche il giornale che state leggendo in questo momento. La Apple decuplica il giro d’affari: oggi vale in Borsa 300 miliardi di dollari, ma qualcuno già scommette che arriverà presto a mille...

Facebook è l’unica società nata a Boston, e non in California. Ma Mark Zuckerberg è presto costretto a trasferirla a Palo Alto: anche lui nel «triangolo», perché qui si fa la storia, circolano le idee, nascono i prodotti.
Fra questi viali alberati si combattono anche guerre all’ultimo sangue, con ingegneri che le società si strappano a suon di milioni di dollari. Perché in palio ci sono i miliardi della «New Economy»: Linkedin, ultima quotata, ha subito raggiunto in Borsa nove miliardi, nonostante fatturi solo 200 milioni. Skype è stata comprata da Microsoft per più di otto miliardi: 17 volte i suoi ricavi. E Facebook, se si quotasse, varrebbe 50 miliardi.

Mauro Suttora

Tuesday, June 07, 2011

intervista al quotidiano "La Provincia"

I DIARI DI MUSSOLINI

«Veri o falsi, sono una noia mortale»

intervista a Mauro Suttora di Barbara Faverio

La Provincia di Como, 7 giugno 2011

«Sono peggio che falsi, i diari di Mussolini sono noiosissimi». Mauro Suttora, giornalista di Oggi, di Mussolini e di diari se ne intende: è stato infatti il curatore, in Mussolini segreto (Rizzoli 2009), della pubblicazione dei diari di Claretta Petacci dal 1932 al ’38.

Che idea si è fatto dei Diari di Dell’Utri, anche alla luce della sua profonda conoscenza di quelli di Claretta?

«Li ho confrontati giorno per giorno, per quanto riguarda il 1939, e ho trovato un elemento a favore e uno contro l’autenticità.
Quello contrario, anche se è solo un indizio, è annotato sul 6 gennaio: Mussolini scrive che nevica su tutta la Romagna e decanta lo spettacolo della campagna innevata; ma noi sappiamo non solo dai diari della Petacci ma anche da altre fonti, per esempio le agende della Presidenza del Consiglio, che quel giorno Mussolini non era in Romagna, era già tornato a Roma dopo le vacanze di Natale.
L’altro riscontro, positivo, si riferisce al 27 gennaio dello stesso anno: Mussolini racconta un incontro con la Petacci sulle nevi del Terminillo, e Claretta nei suoi diari rievoca lo stesso episodio, anche se lo colloca al 26 febbraio: ora, a parte lei stessa e forse la scorta di Mussolini, nessuno poteva sapere di questi incontri segreti, tantomeno un falsario».

La convince la ricostruzione di Franzinelli [nel suo libro Autopsia di un falso, ndr]?

«È possibile che le cose siano andate così, ma nessuno storico a parte Franzinelli sostiene con certezza che i diari sono falsi. Anche la perizia di Emilio Gentile non esprime un giudizio definitivo. E comunque io parto dalla premessa che tutti i diari sono falsi, perché l’autore li scrive per fare bella figura: per questo ritengo che se si vuole sapere davvero cosa faceva Mussolini bisogna leggere i diari di Claretta, una vera candid-camera nella camera da letto di Mussolini ricca però di annotazioni di grande valore storico. Per esempio il giorno di Pasquetta del ’38 - quattro anni prima che i nazisti decidessero per lo sterminio - scrive [che Mussolini dice]: "Gli ebrei verranno sterminati". E fa così piazza pulita in un colpo solo di tutti i luoghi comuni sugli "italiani brava gente" inconsapevoli della deriva razzista del nazi-fascismo. Comunque, anche se credo che i diari siano falsi, ha fatto benissimo Bompiani a pubblicarli».

Perché?

«La curiosità era troppa, ognuno vuole farsi un’idea in prima persona. Ma la verità è che io leggendoli sono svenuto dalla noia, non dicono nulla, non aggiungono nulla: e questo è strano perché Mussolini era un giornalista brillante».

Wednesday, May 25, 2011

Comunali 2011, primo turno

DISASTRO MORATTI, TRIONFO DE MAGISTRIS, BENE FASSINO a TORINO E GRILLO A BOLOGNA

di Mauro Suttora

Oggi, 16 maggio 2011

MILANO: scende il Pdl
Letizia Moratti, 61 anni, (sopra, nella foto con il suo avversario Giuliano Pisapia, 62, che non le stringe la mano dopo che lei lo ha accusato in tv di essere stato vicino ai terroristi), sindaco dal 2006 (con il 52%), questa volta non solo non raggiunge la maggioranza assoluta, ma viene superata da Pisapia. Ci sarà quindi un secondo turno il 29 maggio. La Lega avanza sulle comunali del 2006, ma crolla rispetto all'anno scorso: come fa il "partito del nord" a non raggiungere neanche il 10% nella sua capitale?

TORINO: «Grissino» ok
È l’unica grande città dove il voto del 14-15 maggio è andato bene per il Pd. L’ex segretario Piero «grissino» Fassino ha infatti superato il 50%, ed è già sindaco. Merito anche del predecessore Sergio Chiamparino, che dopo dieci anni non era più ricandidabile. Chiamparino comunque nel 2006 ebbe il 66% contro Rocco Buttiglione. Percentuale ineguagliata.

BOLOGNA: Grillo al 10%
Non ce l’ha fatta il candidato della sinistra Virginio Merola a farsi eleggere al primo turno, come Sergio Cofferati che nel 2004 ebbe il 56%, e Flavio Delbono che due anni fa superò il 60 prima di doversi dimettere per i favori all’amante. Il ballottaggio sarà con Manes Bernardini. Buon risultato per Beppe Grillo: il suo Massimo Bugani raggiunge il 10 per cento.

NAPOLI: Democratici ko
La maggiore sorpresa è arrivata dal trionfo di Luigi De Magistris, l’ex magistrato eurodeputato da due anni con Di Pietro: sarà lui a battersi al secondo turno con Gianni Lettieri del Pdl. Il candidato Pd, superato da De Magistris, paga i non brillanti risultati degli ex sindaci del centrosinistra Bassolino e Jervolino. Ma De Magistris andrà d’accordo con Di Pietro?

Parla Walter Sisti

INTERVISTA ALL'EX DIRIGENTE DELL'EXTRASINISTRA CHE AVREBBE DOVUTO ESSERE RAPITO DAGLI AUTONOMI

Volevano coprirlo di catrame e impiumarlo, come nel Far West

di Mauro Suttora

Oggi, 14 maggio 2011

Volevano incatramarlo e impiumarlo, come nel Far West. Perciò gli autonomi del centro sociale milanese di via Decembrio nel 1977 avevano progettato di sequestrare William Sisti, (foto sopra, con Mario Capanna nel ’73) oggi 59enne, allora dirigente del Movimento lavoratori per il socialismo. Che oggi ricorda così quell’episodio: «Il vicequestore Lucchese mi convocò in questura e mi disse che erano state arrestate due persone dell’area dell’autonomia armata, vicini al gruppo terroristico Prima linea. Avevano rubato un furgone con cui volevano rapirmi per farmi un processo politico».

E lei si impaurì?

«Caddi dalle nuvole. Alla sera quando tornavo a casa mi guardavo dietro per controllare se qualcuno mi seguiva. Ma anche nel clima di quegli anni sembrava una cosa strana. Probabilmente c’era stata una soffiata».

Estremisti di sinistra che volevano colpire non un fascista, ma un dirigente della sinistra extraparlamentare.

«Il nostro movimento era assolutamente contrario alla lotta armata. Le pistole nei cortei erano vietate. Invece dal gruppo di Potere operaio erano nati gli autonomi, che teorizzavano lo scontro armato e l’“attacco al cuore dello stato”. Come sempre, a sinistra si passava la maggior parte del tempo a litigare al proprio interno».

Seppe il nome di Pisapia?

«Assolutamente no. E non seguii il processo negli anni Ottanta, perché non ero parte lesa. Avevo lasciato la politica per il mio attuale lavoro di immobiliarista, dopo un periodo nel Psi nel quale Martelli aveva invitato molti di noi ex sessantottini».

Che effetto le fa rievocare quei tempi, dopo 35 anni?

«Se la Moratti vuole dimostrare che Pisapia non ha origini liberaldemocratiche,
non c’era bisogno di scomodare la contestazione studentesca. Alla quale partecipò buona parte dell’attuale classe dirigente italiana: politici, finanzieri, avvocati, medici, scienziati...»

Compreso lo stimato architetto Stefano Boeri, oggi leader Pd.

«Che era mio compagno nel movimento studentesco. Siamo ancora amici. Il nostro leader era Mario Capanna, ma con noi c’erano anche Gino Strada, Nando dalla Chiesa, Ferruccio de Bortoli, Dario Di Vico, Michele Cucuzza, Sergio Cusani, e tantissimi altri. Oggi sono tutti ottimi professionisti. In Germania l’ex sessantottino e adesso verde Joschka Fischer potrebbe addirittura diventare cancelliere dopo Angela Merkel».

Mauro Suttora

Politici estremisti

DOPO LE ACCUSE DELLA MORATTI A PISAPIA, ECCO GLI SCHELETRI NEGLI ARMADI DEGLI ULTRAS DEGLI ANNI DI PIOMBO

di Mauro Suttora

Oggi, 14 maggio 2011

Chi sono i «politici con passato estremista», come Silvio Berlusconi ha bollato Giuliano Pisapia, concorrente di Letizia Moratti alla carica di sindaco di Milano? Dipende da cosa si intende per «estremista». Tutti sanno che Pisapia fino a cinque anni fa era deputato di Rifondazione comunista. Quasi nessuno, invece, ricordava che fosse stato in carcere per ben quattro mesi e poi processato per il furto del furgone con cui nel 1977 gli autonomi volevano sequestrare William Sisti, dirigente della sinistra extraparlamentare.

Glielo ha rinfacciato la Moratti in un dibattito tv, e Pisapia l’ha querelata per diffamazione. Da quel processo, infatti, fu assolto. «E chiesi l’appello per essere completamente scagionato: non grazie a un’amnistia, ma con formula piena», precisa il politico-avvocato milanese.

Nell’Italia lacerata durante l’intero decennio dei ’70 dagli «anni di piombo», però, Pisapia non è l’unico politico famoso a essere stato estremista da giovane. A sinistra, ma anche a destra. Massimo D’Alema, per esempio, non ha mai avuto guai con la giustizia, eppure ricorda perfino con un certo orgoglio di avere lanciato una bottiglia molotov durante il ’68 a Pisa: frequentava la prestigiosa Normale, era del Pci e non un extraparlamentare, ma partecipò anche lui alle rivolte studentesche. Così come il pacatissimo ex ministro della Margherita Paolo Gentiloni.

E, per andare nel centrodestra, l’altrettanto moderato ministro degli Esteri Franco Frattini praticava la vendita militante del Manifesto, mentre il siciliano Gianfranco Micciché era di Lotta Continua. Fabrizio Cicchitto è sempre stato nel Psi, però si è vantato di «avere fatto a botte con i fascisti nel ’68. Prendendole». Quanto a Gaetano Pecorella, deputato Pdl, prima di difendere Berlusconi è stato l’avvocato di tutti gli extraparlamentari rossi a Milano. Ancora nell’87 sostenne in un’arringa che un pestaggio a colpi di chiave inglese poteva essere «la legittima applicazione di un principio costituzionale».

Con la sconfitta di Rifondazione comunista e Verdi tre anni fa sono usciti dal Parlamento quasi tutti i sessantottini. I loro avversari ex neofascisti, invece, hanno fatto carriera. A cominciare dal leader Gianfranco Fini, ferito da un candelotto al ginocchio durante gli scontri con la polizia. A Milano nessun «rosso» osava passare per piazza San Babila: lì il capo dei giovani missini era Ignazio La Russa, con cane lupo al guinzaglio.

L’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno finì in prigione nell’81 per avere aggredito con quattro camerati uno studente. Ce l’aveva sia con con i russi, sia con gli americani: per una molotov contro l’ambasciata sovietica fece addirittura otto mesi di carcere, mentre nell’89 lo arrestarono per avere bloccato l’auto del presidente George Bush padre. Ma alla fine è sempre stato assolto.

Cinque anni per «banda armata»

Il deputato Pdl Marcello De Angelis ha subìto una condanna definitiva a cinque anni per banda armata e associazione sovversiva: era nel gruppo terrorista di estrema destra Terza Posizione. Ne scontò tre (più sei mesi di carcere in Inghilterra, dov’era scappato), è uscito nell’89. Da poco è stato nominato direttore del quotidiano ex An Secolo d’Italia, strappato ai finiani.

C’è perfino un vicepresidente del Senato «pregiudicato»: lo stimatissimo Domenico Nania, pure lui ex Msi, fu condannato nel ’68 a sette mesi per lesioni volontarie personali durante scontri tra studenti di destra e di sinistra a Messina. Ma aveva solo 18 anni.

Era iscritto al Fronte della gioventù (i giovani missini guidati da Fini e poi da Alemanno) anche Niccolò Ghedini. L’attuale avvocato di Berlusconi venne interrogato in questura a Bologna dopo la strage del 1980 alla stazione, perché nella sua sezione padovana c’era un sospettato.

Insomma, molti dei dirigenti Pdl ex An e Msi hanno curriculum a dir poco turbolenti. Quindi, non si sa fino a che punto sia convenuto al premier e alla Moratti riesumare i peccati di gioventù degli avversari di sinistra, perché anche nel centrodestra potrebbe affiorare qualche imbarazzo.

E perfino il nonviolento Pannella...

Perfino i radicali gandhiani hanno dato scandalo, quando nell’83 fecero eleggere in Parlamento e liberare (dopo quattro anni di carcere preventivo) il professor Toni Negri, ideologo degli autonomi, condannato a 17 anni per insurrezione armata. Fuggito in Francia, tornò nel ‘97 per scontare la pena. Libero dal 2003.

Un altro caso si è verificato nel 2006: Marco Pannella fece eleggere deputato Sergio D’Elia, ex terrorista di Prima linea condannato a 25 anni (scontati la metà) per banda armata e concorso morale in omicidio. Due anni dopo il Pd non lo ha più voluto fra i nove eletti radicali ospitati nelle sue liste.

Lo stesso Pannella, comunque, ricorda: «All’inizio degli anni ’50 credo di aver slogato una spalla a Caradonna, capo degli universitari fascisti. Le ho date e le ho prese».
Mauro Suttora

Saturday, May 21, 2011

parla l'unica ministra libica

INTERVISTA A SALWA DAGHILI

di Mauro Suttora

per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera

Bengasi, 21 maggio 2011



Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».

Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.

«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.

La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».

Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».

Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».

Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».

A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.

Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».

«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»

Mauro Suttora

Wednesday, May 18, 2011

Mario Draghi e la nipotina

IL GOVERNATORE DELLA BANCA D'ITALIA VA A PRENDERE LA NIPOTINA ALL'ASILO A MILANO

di Mauro Suttora

Oggi, 11 maggio 2011

Le foto che pubblichiamo in queste pagine non sono una «paparazzata». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, infatti, è una delle persone più riservate della scena pubblica: nessuna apparizione a feste, inaugurazioni o salotti, vita sociale limitata a pochi amici fidati di vecchia data, rarissime interviste. Non è quindi, «materiale da gossip».

E proprio perché nessun fotografo lo (in)segue mai, grande è stata la sorpresa di un nostro reporter quando l'altra mattina se l'è trovato di fronte, tranquillamente seduto con la moglie al tavolino di un bar all'aperto nel parco Sempione di Milano. All'inizio non l'aveva neppure riconosciuto. Poi il governatore si è alzato, ed è stato chiaro il motivo della sua presenza in quel luogo: aspettava l'uscita della sua nipotina da un asilo lì vicino.

Draghi sta per diventare l'uomo più importante d'Europa. A giorni si aspetta il via libera della Germania alla sua nomina a presidente della Bce (Banca centrale europea). Carica che dura otto anni, e che dà il potere di guidare l'economia di un intero continente. Poltrona molto ambita, quindi, ed è un onore per l'Italia che sia un nostro concittadino a ricoprirla. Eppure Draghi non rinuncia ai piccoli piaceri anonimi della vita di ogni giorno, come quello dei nonni che accompagnano a casa la nipotina. Senza scorta, senza pompa, senza auto blu, senza fanfare.

Non è la prima volta che lo schivo governatore della Banca d'Italia finisce sui giornali proprio per questa sua «normalità», così rara fra politici, potenti e «vip» di ogni risma. Quattro anni fa, per esempio, fece notizia perché salì su un semplice treno Intercity tornando da un convegno da Brescia a Milano. A Roma rinunciò a frequentare un club di fitness dopo essersi lasciato scappare una mezza confidenza con un compagno di spogliatoio. Il quale era un giornalista, e subito la pubblicò.

È appassionato di calcio tiene per la Roma, ma nessuno lo ha mai visto nella tribuna dello stadio Olimpico, sempre affollata di autorità e invitati vari. Quando suo figlio Giacomo (oggi 32enne vicepresidente alla banca Morgan Stanley a Londra) si è laureato all'università Bocconi (tesi con il professor Francesco Giavazzi), la famiglia lo ha festeggiato con una semplice pizza, nel ristorante milanese Rossopomodoro. Oltre al tennis e al jogging, da un po' Draghi pratica anche il golf. Ma non risulta iscritto ad alcun circolo esclusivo.

Insomma, un vero teutonico, alieno ai fasti del potere. Proprio per questo i tedeschi hanno accettato la sua nomina a guardiano dell'euro, nonostante provenga dal Paese che, dopo la Grecia, ha il peggior debito statale. D'altra parte, quando parla in pubblico (solo nelle occasioni ufficiali), Draghi incita sempre al rigore: «Per pareggiare il bilancio l'Italia deve ridurre le spese del sette per cento», ha incitato l'ultima volta dieci giorni fa.

Anche suo padre era dirigente bancario, ma lo lasciò orfano a soli 15 anni. E la madre scomparve poco dopo. Draghi frequentava il liceo Massimo dei gesuiti all'Eur. Fra i suoi compagni di scuola, Luca Montezemolo e i fratelli Abete. Divenne lui il capofamiglia, occupandosi del fratello e della sorella minore Andreina, storica dell'arte diventata famosa nel 1999 per avere scoperto affreschi medioevali nella chiesa dei Quattro Coronati a Roma. A 19 anni ha conosciuto la moglie Serena, padovana di origini nobili, durante una vacanza sul Brenta. Prima di Giacomo ha avuto la figlia Federica, laureata in biologia, oggi 35enne dirigente della società biotech Genextra e mamma della bimba che appare in queste foto.

Mauro Suttora

Obama e Osama

PERCHE' GLI AMERICANI HANNO UCCISO E NON ARRESTATO BIN LADEN

di Mauro Suttora

Oggi, 8 maggio 2011

Per una settimana il mondo intero ha discusso se il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dovesse pubblicare la foto di Osama Bin Laden morto. «Ce l’abbiamo, ma è troppo raccapricciante per mostrarla», è stata la puerile scusa accampata da Washington. Come se centinaia di immagini di guerra o di lager nazisti non fossero altrettanto orrende.

Alla fine gli autoeletti guardiani dei nostri stomachi presunti minorenni hanno mostrato non una foto, ma interi video del capo terrorista quand’era ancora vivo. Colpo da maestri: queste immagini hanno ucciso Osama più del colpo in fronte forse illegale che lo ha giustiziato.

Avete presente i «fuori onda» di Striscia la notizia? Anche i personaggi più rispettabili sprofondano nel ridicolo se li si sorprende a dire sciocchezze o a mettersi le dita nel naso pensando di non essere inquadrati. Non sapremo mai il nome dell’attendente di Al Qaeda che ha filmato il suo capo mentre ammira i propri video su una sgangherata tv. Ma dovrebbero dargli una medaglia. Egli è infatti un involontario eroe, quasi quanto i veri eroi del commando che è volato di notte con gli elicotteri in Pakistan per eliminare il «most wanted» dopo ben dieci anni di caccia.

Lo squallore di quelle inquadrature, la piccineria di un assassino esibizionista che si tinge la barba bianca per rivendicare le sue stragi, il suo sguardo perso quando guarda fuori campo chiedendo «Come sono venuto?», sono le vere armi letali che hanno distrutto in pochi secondi il mito del Male. Più di due intere guerre in Afghanistan e Iraq, più di migliaia di soldati (anche italiani) uccisi, più dei centomila civili arabi innocenti morti come «danni collaterali».

Ricordate il film Il grande dittatore di Charlie Chaplin? Hitler e Mussolini furono sepolti dalle risate, prima di finire annientati nel conflitto da loro provocato. Così oggi Osama perde qualsiasi «aura» fra i suoi miseri cavi tv e cenci ad Abbottabad, e nel 2003 l’altro Grande cattivo Saddam finì la carriera quando venne estratto da un buco e gli furono esaminati i denti come come ad un animale.

Piccoli dettagli che fanno la grande storia. Perché non c’è dubbio che la data del 2 maggio 2011 sarà ricordata come la fine dell’incubo mondiale che ci ha attanagliato per tutto il decennio degli «anni Zero». Andatelo a dire ai parenti delle migliaia di vittime di Osama, dell’11 settembre 2001 a New York ma anche del 2008 a Bombay, del 2002 a Bali, del 2003 a Nassirya, del 2004 a Madrid, del 2005 a Londra, fino ai poveri diciotto squartati vivi due settimane fa nella più bella terrazza con vista di Marrakesh, che il boia di Al Qaeda non doveva essere ucciso ma catturato vivo per poi venire sottoposto a regolare processo e naturalmente non essere condannato a morte perché noi europei siamo civili, e quindi contro la pena capitale. In ogni caso, se «pietà non l’è morta», la salma di Osama non doveva essere gettata in mare bensì sepolta dopo funerale. A costo di subire per un secolo sia un effetto Predappio (pellegrinaggi di aficionados), sia un rischio Mike Bongiorno (bara trafugata).

«Nessuno tocchi Caino?» Gli americani, compreso il democratico e raffinato Obama, hanno una concezione più biblica della giustizia: «You get what you give», prima o poi ti tocca quello che hai dato agli altri.

Sbagliano? Può darsi. Però, anche qui, proviamo a osservare i dettagli. Guardate le facce delle persone nella grande foto della pagina precedente. Non mostrano la stolidità di un Bush, l’arroganza di un Cheney. Sono quelle che abbiamo tutti noi quando siamo preoccupatissimi per un avvenimento pericoloso. I visi di Obama, di Hillary Clinton, del vicepresidente Joe Biden e degli altri dirigenti della superpotenza che ha violato il diritto internazionale, che ha invaso lo spazio aereo di uno stato sovrano per «fare giustizia», sembrano quelli di gente normale e perbene. Il più importante fra loro, il presidente, pare addirittura capitato lì per caso: se ne sta appartato, senza poltrona. Passava in corridoio una segretaria, era curiosa: hanno fatto entrare anche lei, però ora le tocca allungare il collo per vedere meglio...

Ma andiamo sul concreto. D’ora in poi saremo più sicuri? Certo che no. Continueremo a tribolare prima di salire sugli aerei, anche se proprio da qualche giorno - prima della morte di Osama - molti aeroporti hanno attenuato il divieto un po’ incomprensibile di portare qualsiasi liquido a bordo (sì, quel tizio si era confezionato una bombetta, ma guardateci: sembriamo tutti terroristi?). Nel covo del capo di Al Qaeda sono stati scoperti piani per far deragliare treni. Quindi, sono pericolosi anche quelli. Però lo sapevamo già da sette anni, dopo l’attentato alla stazione spagnola di Atocha. Idem per metrò e bus, dopo le bombe inglesi del 2005.

«Nelle prossime settimane e mesi potrebbero entrare in azione cellule di terroristi dormienti per vendicare la morte del loro capo», avvertono i servizi segreti occidentali. Insomma, abbiamo schiacciato la testa del serpente, ma forse abbiamo anche risvegliato un nido di vipere.

Ci sono però tre motivi di ottimismo. Innanzitutto la «primavera araba». Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen dimostrano che anche l’Islam vuole libertà e democrazia. Non si crede più alla favola degli estremisti religiosi, che davano tutte le colpe agli «infedeli» e dirottavano la rabbia popolare su Israele, Usa e Occidente. Per la prima volta nella storia i musulmani si ribellano ai propri dittatori. È una novità epocale, come il crollo del comunismo nel 1989.

Seconda buona notizia: Osama era ancora il capo operativo di Al Qaeda. Molti analisti pensavano che fosse rimasto una figura simbolica, ma staccata dalla gestione concreta degli attentati. Invece la grande quantità di documenti trovati a casa sua dimostra che il mascalzone comandava e decideva ancora. Quindi è stata decapitata la testa funzionante di Al Qaeda. E nelle organizzazioni verticistiche gli adepti si demoralizzano, quando i vertici scompaiono.

Il terzo motivo per ben sperare, infine, sta nella messe di «file» segreti portati via dal commando: ci vorranno settimane per tradurli tutti dall’arabo, ma sono in vista altri clamorosi arresti e blitz. È già partito un drone americano contro il capo di Al Qaeda nello Yemen. Obiettivo mancato, ma le fila dei terroristi sono ormai scompaginate, impaurite e frustrate. Prossimo bersaglio: Al Zawahiri, il vice-Osama egiziano.

Mauro Suttora