IL GOVERNATORE DELLA BANCA D'ITALIA VA A PRENDERE LA NIPOTINA ALL'ASILO A MILANO
di Mauro Suttora
Oggi, 11 maggio 2011
Le foto che pubblichiamo in queste pagine non sono una «paparazzata». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, infatti, è una delle persone più riservate della scena pubblica: nessuna apparizione a feste, inaugurazioni o salotti, vita sociale limitata a pochi amici fidati di vecchia data, rarissime interviste. Non è quindi, «materiale da gossip».
E proprio perché nessun fotografo lo (in)segue mai, grande è stata la sorpresa di un nostro reporter quando l'altra mattina se l'è trovato di fronte, tranquillamente seduto con la moglie al tavolino di un bar all'aperto nel parco Sempione di Milano. All'inizio non l'aveva neppure riconosciuto. Poi il governatore si è alzato, ed è stato chiaro il motivo della sua presenza in quel luogo: aspettava l'uscita della sua nipotina da un asilo lì vicino.
Draghi sta per diventare l'uomo più importante d'Europa. A giorni si aspetta il via libera della Germania alla sua nomina a presidente della Bce (Banca centrale europea). Carica che dura otto anni, e che dà il potere di guidare l'economia di un intero continente. Poltrona molto ambita, quindi, ed è un onore per l'Italia che sia un nostro concittadino a ricoprirla. Eppure Draghi non rinuncia ai piccoli piaceri anonimi della vita di ogni giorno, come quello dei nonni che accompagnano a casa la nipotina. Senza scorta, senza pompa, senza auto blu, senza fanfare.
Non è la prima volta che lo schivo governatore della Banca d'Italia finisce sui giornali proprio per questa sua «normalità», così rara fra politici, potenti e «vip» di ogni risma. Quattro anni fa, per esempio, fece notizia perché salì su un semplice treno Intercity tornando da un convegno da Brescia a Milano. A Roma rinunciò a frequentare un club di fitness dopo essersi lasciato scappare una mezza confidenza con un compagno di spogliatoio. Il quale era un giornalista, e subito la pubblicò.
È appassionato di calcio tiene per la Roma, ma nessuno lo ha mai visto nella tribuna dello stadio Olimpico, sempre affollata di autorità e invitati vari. Quando suo figlio Giacomo (oggi 32enne vicepresidente alla banca Morgan Stanley a Londra) si è laureato all'università Bocconi (tesi con il professor Francesco Giavazzi), la famiglia lo ha festeggiato con una semplice pizza, nel ristorante milanese Rossopomodoro. Oltre al tennis e al jogging, da un po' Draghi pratica anche il golf. Ma non risulta iscritto ad alcun circolo esclusivo.
Insomma, un vero teutonico, alieno ai fasti del potere. Proprio per questo i tedeschi hanno accettato la sua nomina a guardiano dell'euro, nonostante provenga dal Paese che, dopo la Grecia, ha il peggior debito statale. D'altra parte, quando parla in pubblico (solo nelle occasioni ufficiali), Draghi incita sempre al rigore: «Per pareggiare il bilancio l'Italia deve ridurre le spese del sette per cento», ha incitato l'ultima volta dieci giorni fa.
Anche suo padre era dirigente bancario, ma lo lasciò orfano a soli 15 anni. E la madre scomparve poco dopo. Draghi frequentava il liceo Massimo dei gesuiti all'Eur. Fra i suoi compagni di scuola, Luca Montezemolo e i fratelli Abete. Divenne lui il capofamiglia, occupandosi del fratello e della sorella minore Andreina, storica dell'arte diventata famosa nel 1999 per avere scoperto affreschi medioevali nella chiesa dei Quattro Coronati a Roma. A 19 anni ha conosciuto la moglie Serena, padovana di origini nobili, durante una vacanza sul Brenta. Prima di Giacomo ha avuto la figlia Federica, laureata in biologia, oggi 35enne dirigente della società biotech Genextra e mamma della bimba che appare in queste foto.
Mauro Suttora
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Wednesday, May 18, 2011
Wednesday, November 12, 2008
Gli universitari protestano
LE VERE CIFRE DEI TAGLI
Roma, 3 novembre 2008
Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.
Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
«Attacco all’autonomia»
Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.
Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.
La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.
«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.
Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.
E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».
«Molti sprechi da evitare»
«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».
Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»
«Bloccare i nuovi atenei»
«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».
Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».
Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».
Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.
«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».
Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».
E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.
Mauro Suttora
Roma, 3 novembre 2008
Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.
Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
«Attacco all’autonomia»
Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.
Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.
La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.
«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.
Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.
E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».
«Molti sprechi da evitare»
«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».
Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»
«Bloccare i nuovi atenei»
«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».
Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».
Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».
Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.
«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».
Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».
E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.
Mauro Suttora
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