Thursday, August 03, 2023

Caro Briatore, ma pure lei considera diffamatorio essere indicati come clienti del Twiga?



In un’intervista al Corriere giustifica la querela mossa da Boccia al Foglio: “Se hanno scritto il falso, fa bene”. Ma, anche se è falso, non è infamante: almeno lui dovrebbe pensarlo e dirlo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 3 agosto 2023

Inarrivabile Flavio Briatore. Oggi sul Corriere della Sera dice all'intervistatrice Candida Morvillo che Francesco Boccia, presidente dei senatori pd, ha fatto bene a querelare il quotidiano Il Foglio per averlo indicato come frequentatore del Twiga. Ma come: lo stesso proprietario dello stabilimento balneare di Marina di Pietrasanta (Lucca) considera diffamatorio essere accostati al suo locale?

Contestualizziamo. Daniela Santanchè, ministra del Turismo e senatrice di Fratelli d'Italia, indagata per bancarotta e falso in bilancio, subisce un dibattito parlamentare con la richiesta di dimissioni da parte delle opposizioni. Per difendersi contrattacca: "Quanti di quelli che ora mi accusano sono stati miei ospiti al Twiga?"


La perfida Santanchè non fa nomi, ma il superperfido Foglio scrive che a quel punto molti senatori si sono voltati verso l'abbronzatissimo Boccia. Il quale fa subito partire un comunicato stampa del gruppo per annunciare vie legali.

Vera o falsa, la frequentazione del Twiga non dovrebbe apparire disdicevole. Soprattutto per il suo proprietario, al quale Santanchè ha girato metà della propria quota di proprietà dopo la nomina a ministro (l'altra metà è andata al suo compagno Dimitri Kunz). E invece Briatore, che noi ammiriamo perché riesce a far pagare cento ai ricchi cose che costano dieci, favorendo così la redistribuzione del reddito tanto invocata a sinistra, sembra dar ragione a chi considera tutte le sue creazioni, dal Billionaire al Twiga (che significa 'giraffa' in swahili), sentine di dubbia fama.

L'eterno dibattito ricchi/poveri si arricchisce così di un ulteriore avvincente capitolo. Il furbo Menenio Agrippa 2.500 anni fa riuscì a convincere i plebei di essere indispensabili quanto i patrizi. Però i primi erano come le gambe del corpo umano, i secondi lo stomaco. Poi, da Spartaco a Marx, i poveri si sono incattiviti contro lo stomaco che si limita a magnare, mentre agli altri organi tocca lavorare.

Da un quarto di secolo invece abbiamo il filosofo Flavio che teorizza la trinità "làcciori, fescion e glemor" come nuovo orizzonte interclassista. A giudicare dalle frotte di giovani neoproletari (mille € al mese) che proprio in queste notti, come ogni agosto, buttano nel suo Billionaire di Porto Cervo i risparmi di un anno, ha ragione lui.

In mezzo restano i politici. Ricchi o poveri? Devono vergognarsi per una cena chez Briatore e Santanchè a Forte dei Marmi, o esibirla come hanno fatto gli spregiudicati Maria Elena Boschi e i suoi due scudieri renziani poche sere fa?

La risposta all'ineffabile Piero Fassino, che sventola in aula i suoi miseri 4.700 € mensili netti. Dimenticando gli altri 10mila di fringe benefit che fanno il benessere di un parlamentare. Ma, come direbbe il maitre-à-penser di Monte Carlo, Versilia, Costa Smeralda e Dubai, le inibizioni sono "cose da poveri". 

Quindi, caro Boccia, vai a spendere allegramente da Briatore i tuoi soldi, invece di sperperarli in avvocati. E porta pure tua moglie: è perennemente invitata anche lei sotto i suoi ombrelloni da mille € al giorno e nelle splendide serate "fudenbeveregg".


Wednesday, August 02, 2023

Basta fake news. Sarkozy non "attaccò" la Libia

Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Notizia falsa

di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it , 2 agosto 2023

Mi arrendo, hanno vinto i grillini. Oggi perfino il Corriere della Sera, con un editoriale in prima pagina dell'ottimo Federico Rampini, sostiene che l'Italia fu "vittima di una scellerata decisione francese, quella di Nicholas Sarkozy che nel 2011 ebbe un ruolo determinante per l'attacco militare contro Gheddafi".
Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Fake non solo infondata, ma probabilmente inventata e sicuramente amplificata dai canali Telegram putiniani.
Sarkozy non "attaccò" la Libia. Semplicemente, il 17 marzo di dodici anni fa promosse la risoluzione numero 1973 dell'Onu, assieme a Usa, Regno Unito e Lega Araba, per proteggere i civili di Bengasi che si erano sollevati contro il dittatore nel quadro delle Primavere arabe. Risoluzione accettata anche da Russia e Cina, che si astennero e non misero il veto.
Dopo le cacciate del presidente tunisino Ben Ali e dell'egiziano Hosni Mubarak era arrivato il turno di Gheddafi. Il quale però, più coriaceo, non esitò a inviare i suoi tank contro la folla della capitale cirenaica. Era questione di ore.
Per evitare una strage tipo Srebrenica o Ruanda fu lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy a pressare il riluttante Sarkozy affinché facesse dichiarare dall'Onu una No fly zone sulla Libia. E il presidente francese a sua volta dovette faticare per convincere quello Usa Barack Obama, il quale dopo i fiaschi di George Bush jr in Afghanistan e Iraq non voleva altri coinvolgimenti esteri.
Ma gli Stati Uniti erano gli unici con la capacità tecnica di far rispettare con i suoi aerei la No fly zone sulla Libia. Quindi Obama accettò malvolentieri, con l'assicurazione che non ci sarebbero stati "boots on the ground" per i soldati Usa, niente interventi terrestri.
Perciò è falsa la vulgata grilloputiniansovranista di un Sarkozy giustiziere di Gheddafi. All'implementazione della risoluzione Onu sulla Libia partecipò un'ampia coalizione di Paesi, comprese le pacifiste Svezia e Norvegia.
La prova che la Francia non ha approfittato della cacciata di Gheddafi a scapito dell'Italia, d'altronde, è arrivata negli anni successivi. La francese Total non ha mai spodestato la nostra Eni come maggior estrattore di petrolio e gas in Libia. E oggi a Tripoli e Bengasi spadroneggiano milizie libiche, turchi, i russi di Wagner: chiunque, tranne i francesi.
Detto questo, fu un errore far cadere Gheddafi? Col senno di poi, forse sì. Però in quei giorni concitati fu non solo legittimo, ma doveroso proteggere i civili libici insorti spontaneamente contro un satrapo sanguinario che li opprimeva da 42 anni.
Ero lì in quei giorni, come giornalista. Sembrava che la Libia potesse autogovernarsi. Professionisti, ingegneri, medici, avvocati, molti tornati dall'esilio, si impegnarono nell'amministrazione provvisoria. Che però dopo qualche mese fu spazzata via da islamisti, militari e cosche tribali.
Si dice: almeno Gheddafi manteneva l'ordine e impediva il traffico dei clandestini verso l'Italia. Ma condannare un intero popolo a subire la dittatura pluridecennale di uno squilibrato non era possibile. Il tirannicidio è giustificato perfino dalla Chiesa cattolica. E sarebbe stato razzista bollare un Paese come non abbastanza maturo per la democrazia.
Neanche in Tunisia ed Egitto d'altronde è finita benissimo, dopo le primavere speranzose del 2011. La democrazia tunisina oggi è minacciata da un presidente autoritario e dalla crisi economica. E il Cairo si è rassegnato ai muscoli di Abdel Al Sisi dopo qualche anno di leggiadra follia dei Fratelli musulmani, così simili ai grillini quanto a incompetenza nel governare.

Insomma, Sarkozy ha tante colpe e le sta pure pagando. Ma basta, per favore, con la frottola di un suo complotto anti-italiano in Libia. 

Friday, July 28, 2023

Perché la schermitrice ucraina Olga ha sbagliato

Competere nello sport significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Se opponi una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 28 luglio 2023 

Nello sport competono avversari. Nella guerra invece si scontrano nemici. La schermitrice ucraina Olga Kharlan e la russa Anna Smirnova conoscono bene questa regola elementare: perciò hanno accettato di battersi fra loro ai mondiali di scherma di Milano. 

Poi però la vincitrice Olga è stata squalificata per aver rifiutato di stringere la mano ad Anna. A Olga va tutta la nostra simpatia, perché nelle stesse ore in cui in Italia si gareggia, in Ucraina i suoi amici e coetanei muoiono. Vengono uccisi da un anno e mezzo anche i giovani compagni della russa Anna, certo. Con la differenza che i primi difendono la libertà e l'indipendenza del loro Paese, mentre i secondi sono aggressori e occupanti di posti in cui non dovrebbero trovarsi. Scusate la banalità, ma dal 24 febbraio 2022 bene e male sono facili da individuare. 

Più difficile dirimere fra buoni e cattivi sulle pedane sportive. Sono stati scritti libri interi sulla funzione catartica e mimetica dello sport. Che sublima in riproduzioni non cruente le tensioni fra gruppi, scaricandole in situazioni di finta guerra trasferite dal campo di battaglia a quello agonistico. 

Consideriamo Olga nostra sorella e figlia. Lei giocava quadruplamente in casa, non solo perché tutti tifiamo Ucraina (come nel 1936 avremmo parteggiato per il nero Usa Jesse Owens a Berlino davanti ad Adolf Hitler); ma anche perché Olga si è rifugiata da noi con la famiglia per sfuggire ai bombardamenti di Vladimir Putin, perché vive a Bologna con il fidanzato schermidore italiano, e perché ha gareggiato a Milano. 

Le consigliamo tuttavia di leggere il libro 'Sport e aggressività' (ed.Il Mulino, 2001). Imparerà dagli autori, i sociologi Norbert Elias (scappato dalla Germania nel 1933 perché ebreo, imprigionato in Inghilterra sette anni dopo perché tedesco) ed Eric Dunning che competere nello sport ('sportivamente', appunto) significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Un gioco, non un sopruso come quelli di Putin. 

Se invece Olga considerava Anna una nemica da distruggere, e non una leale avversaria con cui misurarsi, per coerenza non le restavano che due scelte: rifiutarsi di incontrarla ('in-contro', non scontro), oppure cercare di farle del male con la spada che impugnava. "Olga lotta per la sua gente e per la sua patria", la giustifica il fidanzato campione Luigi Samele. E fa bene. Ma se oppone una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra. 

Nell'antica Grecia ogni conflitto armato veniva sospeso durante le Olimpiadi. Nell'incivile mondo moderno accade l'esatto contrario: le Olimpiadi vengono sospese durante le guerre. Oppure boicottate: Mosca 1980 per l'invasione sovietica dell'Afghanistan (vizio abituale); Los Angeles 1984 per ripicca dei Paesi comunisti. 

Putin è riuscito anche in questo campo a fare di peggio: ha sfregiato i Giochi di Pechino 2008 violando i giorni di tregua olimpica con l'attacco alla Georgia. Insomma, ci sono mille motivi per escludere il regime putinista dallo sport. Già prima dell'aggressione a Kiev, la Russia non poteva partecipare alle Olimpiadi perché barava (anche) sul doping.

Ma proprio questa condizione di paria internazionale avrebbe potuto consigliare meglio Olga. Senza contare che nella vittoria lo sportivo è magnanimo: battuta Anna, una velocissima stretta di mano (magari volgendo gli occhi da un'altra parte) avrebbe impedito alla russa di spacciarsi perfino per vittima.

Friday, July 21, 2023

Il "regalo" di Stalin alla Polonia? Putin vaneggia, ecco perché



Non c'è nulla per cui i polacchi debbano ringraziare, perché dopo il conflitto mondiale la Polonia si ritrovò con una superficie totale di 312mila chilometri quadri, contro i 386mila dell'anteguerra. Una perdita di 74mila kmq particolarmente ingiusta per un Paese che nel 1939 era stato aggredito e spartito fra Adolf Hitler e il dittatore sovietico

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 21 luglio 2023

Ha molto torto e poca ragione, come sempre, il Vladimir Putin che ora minaccia la Polonia: "Parte del suo territorio è regalo di Stalin, glielo ricorderemo". 

Nel 1945 l'Unione Sovietica, vincitrice della guerra mondiale, pretendeva di espandersi a ovest. Lo fece direttamente a spese della Polonia, occupando tutta la sua parte orientale. E indirettamente a spese della Germania, togliendole le regioni storiche Prussia, Pomerania, Slesia e parte del Brandeburgo, girate a Varsavia fino ai fiumi Oder e Neisse, come parziale compensazione dell'amputazione subìta a est. 

Ma non c'è nulla per cui i polacchi debbano ringraziare Stalin, perché nel colossale scambio ci persero, e molto. Infatti la Polonia si ritrovò con una superficie totale di 312mila chilometri quadri, contro i 386mila dell'anteguerra. Una perdita di 74mila kmq. particolarmente ingiusta per un Paese che nel 1939 era stato aggredito e spartito fra Adolf Hitler e il dittatore sovietico.

Fu il più gigantesco spostamento di confini nella storia d'Europa. Una vera e propria dislocazione per centinaia di chilometri verso ovest. Decine di milioni di profughi polacchi e tedeschi furono vittime di un'immensa pulizia etnica, espulsi e costretti a lasciare le proprie case e campi dove vivevano da secoli.

Ne beneficiarono la Lituania, che recuperò la capitale storica Vilnius/Wilno, la Bielorussia e l'Ucraina, cui andò Lviv/Leopoli, ma anche la Russia, che si annesse direttamente come exclave la Prussia settentrionale, culla tedesca con la città di Königsberg, patria di Emmanuel Kant. La quale venne ribattezzata Kaliningrad, imponendole artificialmente il nome del gerarca stalinista Michail Kalinin.

Insomma, fu un "regalo" particolarmente avvelenato quello di Stalin alla Polonia, e con gran guadagno per Mosca. Sarebbe come se l'Italia fosse stata amputata di Veneto e Friuli, e compensata a ovest con Provenza e Savoia. 

A onor del vero, l'attuale confine orientale della Polonia con la Bielorussia ricalca quello proposto già nel 1919 dal ministro degli Esteri inglese George Curzon, che rispettava le complicate prevalenze etniche in regioni oggi scomparse come Galizia, Rutenia, Podlachia o Volinia.

Ma l'esuberanza nazionalista della Polonia, rinata dopo la sua sparizione e spartizione secolare fra gli imperi tedesco, russo e austriaco, impose all'Urss una frontiera penalizzante. Quindi Stalin ebbe gioco facile durante le conferenze di Yalta e Potsdam nell'imporre a Winston Churchill e agli Usa le proprie rivendicazioni territoriali. 

Più difficile oggi per Putin spacciare le sue falsificazioni storiche. Particolarmente pericolose, perché rischiano di accendere nuovi focolai bellici a Kaliningrad e nel corridoio lituano di Suwalki, che collegherebbe l'exclave russa alla Bielorussia putiniana.




Wednesday, July 12, 2023

La grande fortuna di non essere giudici in un caso di stupro

Ho seguito il processo al figlio di Beppe Grillo, e non vorrei essere nei panni di chi dovrà decidere se uno è stupratore o calunniato, l’altra vittima o calunniatrice, senza vie di mezzo. Storie andate di bevute in frasca e amori consumati sull’inglese dei Rolling Stones

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 luglio 2023

"Mi hai stuprato. Ti denuncio".


"Ieri sera alla festa? Ma dopo l'amore abbiamo parlato. Mi sembravi contenta".


"Ero ubriaca".


"Anch'io".


"Hai approfittato di me".


"Ma se mi hai mormorato 'Come on!'"


"Appunto".


"'Come on' vuol dire 'Dai, forza, vai avanti'"


"Neanche per sogno. Significa 'Dai, smettila, fermati'".

Nel 1976 frequentavo l'ultimo anno di liceo (high school) a Madison, Connecticut (Usa) grazie agli scambi Intercultura/Afs. "You raped me, I'll sue you", mi minacciò l'incantevole Cheryl, compagna di scuola. Eppure ero convinto che nella loro canzone "Come On" i Rolling Stones fossero stati chiari: si trattava di un esplicito invito. "And I don't mean maybe", aggiungeva Mick Jagger, "non voglio dire forse". La mia rudimentale conoscenza dell'inglese si basava sui testi rock, e comunque alla fine la graziosa mi graziò. Ma per qualche giorno fu un incubo. 

Per questo non vorrei mai essere un giudice che deve decidere su certe denunce di violenza sessuale assai scivolose. In cui si fronteggiano due versioni indimostrabili dell'intimità più intima, senza testimoni. La mia parola contro la tua.

Lo dimostra il processo surreale che si trascina da ben quattro anni a Tempio Pausania (Sassari) per lo stupro di gruppo di cui è accusato Ciro Grillo, figlio di Beppe. Lo seguo con acribia, è più complicato di un giallo di Agatha Christie. L'ultima udienza si è tenuta lunedì, la prossima il 22 settembre. Ormai ci siamo assuefatti, ci sembra normale che in Italia ogni volta le corti si aggiornino non a domani, come nei film, ma dopo due-tre mesi. La scusa è che "le parti e il collegio giudicante devono avere il tempo di studiare gli atti acquisiti". Eppure il processo Johnny Depp/Amber Heard si è risolto in un mese e mezzo. 

Invece fra registrazioni, video, foto, chat, testimonianze e relazioni, i consulenti hanno inondato i magistrati di Tempio con materiale informatico misurabile non in giga, ma in terabyte. Miliardi di bit, migliaia di pagine di trascrizioni. Un esercito di avvocati, perché i giovani imputati sono quattro e ognuno ne ha nominati due. I genitori dell'accusatrice hanno ingaggiato Giulia Bongiorno, senatrice leghista, ex ministra. A ogni udienza eccoli arrivare tutti in aereo a Olbia da Genova, Roma, Milano con i loro assistenti e valigie colme di hard disk, per poi trasferirsi nel cuore della Gallura fra i boschi di querce da sughero.

Tanto dispiegamento per accertare se in quella notte del luglio 2019 a Porto Cervo, dopo il Billionaire, la ragazza era abbastanza consenziente o troppo ubriaca per un rapporto sessuale. Così, avanti col filmato della telecamera di sorveglianza di un tabaccaio di Abbiadori dove la giovane andò in auto la mattina dopo accompagnata dagli stessi suoi presunti stupratori per comprare le sigarette. Che espressione aveva il suo volto? Tranquilla, disperata, arrabbiata? E poi il testimone istruttore di kitesurf a Porto Pollo con cui aveva appuntamento il giorno dopo per una lezione: "Era stordita, mi disse che aveva fatto una cazzata, aveva bisogno di parlarmi". I talk tv gli hanno offerto soldi per invitarlo, l'Arena di Massimo Giletti ha mostrato un suo video gratis in cui il 45enne geme: "Mi sento violentato anch'io da questo assedio mediatico".

Ai tre poveri giudici prima o poi toccherà emettere una sentenza. Che inevitabilmente trasformerà Ciro e i suoi amici in mostri o martiri, e la ragazza in vittima o calunniatrice. Niente vie di mezzo. Intanto però i loro genitori – tutti – sono accomunati dal salasso di centinaia di migliaia di euro in spese legali. Poi l'appello, poi la Cassazione. E ci si meraviglia che l'accusatrice di Grillo junior abbia fatto passare otto giorni prima di denunciarlo, e quella di Leonardo Apache La Russa 40 giorni?

Se io venissi violentato andrei in commissariato nel giro di due ore, subito dopo la perizia in ospedale. Ma è comprensibile che le ragazze ci mettano giorni prima di realizzare appieno, o che le famiglie ci pensino mille volte prima di imbarcarsi in un costoso calvario pluriennale. Forse la sfortuna di Ciro e Apache è stata quella di (far) finire a letto (con) figlie di benestanti. Perché là fuori, dopo ogni discoteca, in tutte le notti italiane, quante sono le ragazze stuprate o costrette al sesso da figli di papà, ma senza genitori con le spalle abbastanza larghe e le tasche così capienti da potersi permettere avvocati al livello della Bongiorno?

Noialtri provinciali, che siamo dovuti emigrare da Udine fino in America per fare l'amore a 17 anni, non correvamo questi rischi. Possiamo solo ringraziare le bottiglie di Verduzzo fatte bere alle nostre stupende coetanee friulane in osteria o in frasca. Ci hanno aperto varie porte verso il settimo cielo. Un mio amico calcolò scientificamente che occorreva arrivare a due-tre bicchieri per superare la riluttanza, ma mai oltrepassare il quarto perché subentrava il sonno. Era questo il nostro limite, il confine invalicabile fra disinibire e drogare che salvava l'innocenza: era inconcepibile far sesso con una ragazza a sua insaputa. 

D'altronde, quale gusto perverso può esserci nel possedere un corpo inerte, a parte ogni considerazione giuridica sulla mancanza di libero consenso? E chi cianciava di "vis grata puellae" era considerato burino, troglo. Sfigato, soprattutto, perché non riusciva a 'conquistare' con baci e carezze con-vincenti. Eravamo tutti belli brilli, certo, la mattina dopo qualcuna faceva finta di non ricordare bene se si era spinta troppo in là. Certi rimediavano fidanzandosi. Abbiamo cominciato a regalar soldi ad avvocati e a intasare tribunali solo molti anni più tardi, dopo sposati e separati.

Sunday, July 09, 2023

La politica che stupra sé stessa attraverso i figli degli avversari

Andiamoci piano con i linciaggi preventivi. Ciro Grillo e Leonardo Apache sono colpevoli sicuramente di cattivo gusto maschilista e orrende canzoni trap, ma penalmente innocenti fino a sentenza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 9 luglio 2023 

Politici astenersi. Per non sprofondare nelle bassezze delle speculazioni su faccende private, sarebbe ottimo che gli avversari di Ignazio La Russa evitassero d'ora in poi commenti sul suo dramma familiare: il figlio accusato di stupro.

Certo, è difficile mantenere il silenzio dopo quattro anni di frecciate contro Beppe Grillo, preso di mira dal centrodestra per lo stesso motivo: il figlio accusato di avere violentato una ragazza a Porto Cervo nel 2019. Ancor più difficile risulta non esprimersi dopo l'improvvida difesa del figlio da parte di La Russa senior, con annessa sottolineatura della cocaina assunta dalla presunta vittima. E anche il mancato sequestro del cellulare del junior sembra un riguardo istituzionale eccessivo: certo che il figlio avrà telefonato anche al padre, ma lo scudo da parlamentare non può intralciare le indagini su chat rivelatrici.

Tuttavia, prima o poi qualcuno dovrà dichiarare un armistizio su questo genere di questioni, per evitare gli abissi delle accuse reciproche pre-sentenza. E tanto meglio se il disarmo dialettico sarà unilaterale: come dimostra il caso di Leonardo Apache, il contrappasso è sempre in agguato. 

E da sempre, peraltro: era il luglio 1953, esattamente 70 anni fa, quando la seconda carica non dello stato come La Russa, ma della Democrazia Cristiana, Attilio Piccioni, dovette rinunciare a succedere alla presidenza del Consiglio ad Alcide De Gasperi, di cui era vice e delfino. Il figlio Piero risultava accusato per un'orgia terminata con la morte di una ragazza. 

Lo scandalo Montesi finì con l'assoluzione di Piero e la parziale ma difficoltosa riabilitazione del padre, che solo negli anni '60 recuperò le cariche di vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Nel frattempo, però, fu sbertucciato l'avvocato comunista Giuseppe Sotgiu, che cavalcava l'affaire difendendo un accusatore di Piccioni: beccato mentre entrava con la moglie in un bordello dove lui la guardava divertirsi con un gigolò. 

Leggendarie anche le accuse di dolce vita contro i figli del presidente Giovanni Leone. Niente morti e stupri, tuttavia le loro avventure contribuirono alle dimissioni del padre. Pure qui, tardive scuse dei principali accusatori di Leone, Marco Pannella ed Emma Bonino, quando il presidente compì 90 anni. E condanna per diffamazione alla giornalista Camilla Cederna per il libro contro Leone, che però intanto aveva venduto 600mila copie. 

Quindi, ora andiamoci piano con i linciaggi preventivi. Contro Ciro Grillo e Leonardo Apache, colpevoli sicuramente di cattivo gusto maschilista e orrende canzoni trap, ma penalmente innocenti fino a sentenza. E soprattutto niente strumentalizzazioni contro i genitori, con tutta probabilità pessimi educatori e nulla più. Anche perché i tempi assurdi dei tribunali già li condannano a graticole giornalistiche pluriennali. 

A giudicare dal processo di Tempio Pausania (Sassari) contro il pargolo Grillo, che riprende proprio domani e rischia di dover ricominciare per il trasferimento di un giudice, i La Russa hanno di fronte a sè almeno un lustro di calvario, fra primo grado, appello e cassazione. In caso di assoluzione, l'anticipo di pena causato dalle cronache su indagini e udienze è inevitabile. Ma almeno lo sciacallaggio politico si può evitare.

Saturday, July 01, 2023

Rischio Gorizia per i giovani ucraini: quanti morti per ogni km liberato?

Un paragone con il prezzo pagato dall'Italia in vite umane dal maggio 1915 all'ottobre 1917. Che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 luglio 2023

Tre chilometri. Di tanto i soldati italiani riuscirono ad avanzare in due anni e mezzo della Grande guerra, dalle "radiose giornate" del maggio 1915 alla disfatta di Caporetto nell'ottobre 1917. Al prezzo atroce di 400mila morti e 300mila mutilati: una vittima ogni sette millimetri conquistati.

È questo l'incubo dei generali ucraini. Perché in cento anni le armi hanno fatto grandi progressi (chiamiamoli così): oggi ci sono tank, elettronica, droni. Ma alla fine, in tutte le guerre bisogna mettere gli stivali o i cingoli dei blindati nel fango. E i campi minati dai russi al di qua del fiume Dnipro sono più o meno gli stessi che gli austriaci minarono al di qua dell'Isonzo, e che falcidiarono una generazione di giovani italiani.

Soprattutto, attaccare costa molto più che difendersi. Allora come oggi. Agli ucraini è bastato giocare al tiro a bersaglio con i missili Javelin per distruggere le colonne di carri armati russi diretti a Kiev. Ma adesso per loro le strade verso Mariupol e Melitopol sono egualmente insidiose. Le parti si sono invertite, è arrivato il turno degli ucraini rischiare di fare la fine del piccione.

"Ogni metro, ogni giorno ci costa sangue", ammette con il Washington Post il generale Valery Zaluzhny, comandante in capo dell'esercito ucraino. Sa bene che ci vollero per esempio, nella Seconda guerra mondiale, due anni agli Alleati per liberare l'Italia nel 1943-45, ai sovietici per arrivare a Berlino; un anno dalla Normandia alla Germania.

Gorizia è un nome slavo, come quelli russi e ucraini. Significa "piccolo monte", collina. Per farla diventare italiana nell'agosto 1916 ci vollero sei offensive in un anno: sono le famose "battaglie dell'Isonzo" che ci hanno insegnato a scuola. In realtà carneficine che costarono ciascuna decine di migliaia di vittime all'Italia. I soldati austriaci erano la metà dei nostri ed ebbero metà dei morti. Non perché fossero più bravi, prudenti, coraggiosi o vigliacchi, ma perché appunto difendersi è più facile.

Subito dopo la conquista di Gorizia il comandante in capo Luigi Cadorna, dal suo tranquillo quartier generale nell'attuale liceo classico Stellini di Udine, lanciò altri centomila giovani militari alla conquista di Trieste. 
Non sapeva che il suo avversario generale Svetozar Borojević, serbo ma nato in Croazia e quindi cittadino austroungarico (Vienna era un impero modernamente multietnico, i nazionalisti allora eravamo noi), aveva costretto migliaia di suoi prigionieri di guerra russi a costruire fortificazioni invalicabili sul Carso. 

Gli austriaci, come i russi oggi, ricorsero anche all'allagamento: fecero esondare le acque dell'Isonzo captate dal canale Dottori a Sagrado (Gorizia), trasformando centinaia di ettari in acquitrini impraticabili per i fanti italiani. I quali uscivano dalle trincee solo per farsi falcidiare dalle mitragliatrici asburgiche. E se rifiutavano di andare verso la morte certa finivano giustiziati dai tribunali militari italiani. Così la nostra settima offensiva sull'Isonzo non riuscì a raggiungere neppure Duino. Al solito prezzo di 20mila morti.


Non ci credete? Guardate il film 'Uomini Contro' di Francesco Rosi con Gian Maria Volonté, tratto dal libro 'Un anno sull'altipiano' di Emilio Lussu, padre della Repubblica. Oppure visitate il Parco tematico della Grande Guerra a Monfalcone (Gorizia) e il cimitero di Redipuglia, per comprendere la grande assurdità della guerra.
Perché dopo quelle sette battaglie dell'Isonzo ce ne furono altre cinque, tutte egualmente sanguinose e inutili. Due anni dopo invece ne bastò una, partita di slancio dal Piave nell'ottobre 1918, per vincere il conflitto.


Dopo l'effimera liberazione del 1916 Gorizia cambiò padrone ben sette volte nei successivi trent'anni (record mondiale): austriaci dopo Caporetto, italiani dopo il Piave, jugoslavi nel 1943, poi tedeschi, di nuovo jugoslavi, nel '45 angloamericani, infine divisa a metà nel '47 fra Italia e Jugoslavia (dal 1991 Slovenia).

Auguriamo agli ucraini che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo. Auguriamo ogni male a Vladimir Putin, che con la sua aggressione ha riportato l'Europa indietro di cent'anni. Ma il rischio Gorizia per i giovani ucraini rimane. 

Wednesday, June 14, 2023

Il vero abuso? L'inconcludente abuso dell'abuso d'ufficio. Lo dicono i numeri

Nel 2021 4.400 procedimenti su 5.400 sono stati archiviati. Uno spreco di risorse colossale: agenti che devono ricevere e verbalizzare le denunce, ufficiali giudiziari mandati a notificare gli atti, cancellieri occupati a verbalizzare. Tutti pagati con le nostre tasse. Fa bene Nordio a presentare il disegno di legge per abrogare il reato

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 14 giugno 2023 

In questo momento in Italia 4.400 magistrati stanno lavorando per nulla. Invece di indagare e punire reati gravi, e soprattutto farlo in tempi ragionevoli, devono occuparsi di scremare la valanga di inutili denunce per abuso di ufficio con cui inondiamo le procure.

Sindaci, assessori, medici, professori, poliziotti, vigili, impiegati: tutti i funzionari pubblici e incaricati di pubblico ufficio sono costretti a vivere sotto la spada di Damocle della nostra suscettibilità. Ogni volta che immaginiamo di aver subito un torto dalla burocrazia, ecco che troviamo un avvocaticchio pronto a dar battaglia, promettendoci lucrosi risarcimenti. 

Peccato che otto volte su dieci le nostre pretese risultino infondate. Nel 2021, infatti, 4.400 procedimenti per abuso d'ufficio su 5.400 sono stati archiviati. Ma prima di buttarli nel cestino, i magistrati hanno dovuto perdere tempo prezioso per studiarli, esaminarli, cercare prove, valutarle, soppesarle. E del migliaio di denunce arrivate a processo, sapete quante sono finite con una condanna nel 2021? Soltanto nove. Nove. In 35 casi c'è stato un patteggiamento, in 176 la prescrizione, in 72 l'assoluzione. Negli altri casi i processi sono ancora in corso. 

Una macchina gigantesca e infernale per chi ci incappa, perché comunque dopo ogni denuncia, anche infondata, bisogna nominare e pagare un avvocato difensore. Preoccupazioni, patemi d'animo. Uno spreco di risorse colossale: agenti che devono ricevere e verbalizzare le denunce, ufficiali giudiziari mandati a notificare gli atti, cancellieri occupati a verbalizzare. Tutti pagati con le nostre tasse, e pazienza se questa è la tipica frase di chi le tasse non le paga.

Ma, soprattutto, la minaccia di reato di abuso d'ufficio ("Io la denuncio!") è un potente freno per la burocrazia, che già veloce di suo non è. "Paura della firma", la chiama l'Anci, l'Associazione dei comuni italiani. Che notoriamente è al di sopra delle parti, riunendo sindaci e assessori sia di destra che di sinistra. I quali conoscono bene il danno subìto dalla semplice notizia di una loro iscrizione nel registro degli indagati. Così, piuttosto che rischiare una denuncia o un esposto, la pubblica amministrazione rinvia licenze e concessioni edilizie, passa tutte le pratiche agli uffici legali, si tutela perfino con assicurazioni contro la possibilità di ricorsi e condanne penali e civili. 

Fa bene quindi il ministro della Giustizia Carlo Nordio a presentare in consiglio dei ministri il disegno di legge per abrogare il reato di abuso d'ufficio. Aumenteranno così gli abusi? Le malversazioni di politici e funzionari sono già punite con reati più precisi: corruzione, concussione, peculato.  L'abrogazione è una misura eccessiva? Il dibattito parlamentare porterà utili correzioni. Non è un mistero che nella stessa maggioranza Lega e Fratelli d'Italia avanzino perplessità. Gli unici totalmente favorevoli alla cancellazione del reato sono Forza Italia e, all'opposizione, Italia Viva e Azione. 

I giustizialisti tuoneranno contro "il partito dei disonesti"? Onestà è ammettere che i semplici numeri citati dimostrano la necessità di intervenire. Perché siamo uno dei popoli più litigiosi al mondo, ma anche la culla del diritto. E i romani, che avevano lo stesso nostro problema dai tempi delle malversazioni di Verre, si limitavano a punire pochi, chiari e semplici reati. I quali "non sunt multiplicanda sine necessitate". 

Monday, June 12, 2023

L'ultimo sfregio a Berlusconi: per i liberal di Manhattan era solo uno showman



Difficile, per i sussiegosi democratici americani, accettare un fenomeno come il Cavaliere. Ma anche i repubblicani pre-Trump, gli eleganti rockefelleriani trincerati nei loro grattacieli miliardari di Park Avenue, lo consideravano un pittoresco parvenu. Al massimo un "media mogul turned politician"

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 giugno 2023 

Un ultimo sfregio: il New York Times, annunciando la morte di Silvio Berlusconi, lo ha definito "showman" e non politico. Concedendogli solo di avere capovolto ("upended") la politica e la cultura italiane: "È stato il premier più divisivo e inquisito, ('polarizing and prosecuted')".

Difficile, per i sussiegosi liberal di Manhattan, accettare un fenomeno come il Cavaliere. Ma anche i repubblicani pre-Trump, gli eleganti rockefelleriani trincerati nei loro grattacieli miliardari di Park Avenue, lo consideravano un pittoresco parvenu. Al massimo un "media mogul turned politician". Con l'aggravante di controllare un impero mediatico impensabile negli Usa, dove sarebbe stato subito spezzettato dalle leggi antitrust.

"Mauro, ma sei sicuro di quel che hai scritto?", mi telefonò Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, nella calda estate 2004, quella della bandana con Tony Blair a Porto Cervo. Gli avevo mandato un articolo sulle ultime imprese e gaffes berlusconiane. Gli inflessibili fact checkers del settimanale controllarono le mie parole una a una, sospettando che avessi esagerato.

Stessa diffidenza l'anno precedente, quando Newsweek titolò un altro mio resoconto divertito dalla Sardegna chiamandolo Mr. B, e parificandolo a Flavio Briatore, Gigi Buffon e Tom Barrack, il trumpiano Usa che aveva appena comprato tutti gli hotel di lusso della Costa Smeralda.

Nel settembre 2003 Silvio accompagnò a New York una delegazione di Confindustria, ma il Council on Foreign Relations (massimo luogo d'incontro dei poteri forti statunitensi) lo snobbò: non lo invitò a tenere una conferenza nella sua prestigiosa sede, come invece faceva con qualunque premier del mondo di passaggio in città. 

Berlusconi fu dirottato verso la Borsa, dove fece inorridire i perbenisti con una delle sue leggendarie battute: "Venite a investire da noi, perché oltre al bel tempo e alla bellezza dell'Italia abbiamo anche bellissime segretarie". Alla sera, cena di gala al Plaza. I giornalisti italiani al seguito cercavano di avvicinarlo per carpire qualche sua frase in esclusiva. Conoscendo le sue abitudini, mi appostai in cucina. E immancabilmente riuscii a incontrarlo, perché nel dopocena venne a complimentarsi col cuoco e i camerieri.

Stesse scene simpatiche al G8 di Genova nel 2001. Era la prima volta che Berlusconi incontrava il presidente George Bush jr, entrambi neoeletti. Fu commovente incrociare il nostro premier nelle ore prima del vertice, mentre controllava ansioso di persona ogni piccolo dettaglio, dalle piante di limone in vaso che adornavano il porto riprogettato da Renzo Piano, alle forme di formaggio grana per sfamare giornalisti e delegazioni. "Ti è piaciuto il prosciutto crudo di Parma?", chiese a Bush afferrandolo affettuoso per un braccio. Gli americani educati a Yale detestano qualsiasi contatto fisico. Ma fra loro fu subito amore. 

E Silvio avrebbe voluto allargare questo idillio trasformandolo in una chose à trois con l'amico Vladimir Putin l'anno dopo nel vertice a Pratica di Mare (Roma). Ma la sua geniale idea di far entrare la Russia nella Nato non ebbe fortuna. Tipico di Berlusconi, voler conquistare gli avversari con la seduzione. Contrariamente al complesso militare-industriale, detestava avere nemici. Con Barack Obama invece fu subito gelo: qualcuno gli riferì la definizione di "abbronzato", incomprensioni su Gheddafi, e il Cavaliere tornò fra i fenomeni folkloristici.

La vendetta della storia si è abbattuta sulle schizzinose élite di Washington con la vittoria di Donald Trump nel 2016. L'epitome del populista peronista si è trasferita da Berlusconi a quell'altro buffo outsider dai capelli arancioni. Stessa fortuna accumulata con le costruzioni, stesso successo televisivo, stessa passione "womanizer" per le belle donne, con incursioni al confine del dubbio gusto.

E adesso, con le due incriminazioni di Trump, ecco che li accomuna anche il calvario giudiziario: perché in inglese "prosecution" (messa in stato di accusa) si confonde con "persecution". E Donald, proprio come Silvio, ha già cominciato a sfruttare le sue disavventure con la legge, ribaltandole contro chi lo considera un mascalzone. Sperando di indossare anche lui l'aureola di martire, così utile per farsi rieleggere.

Ma quanto a stile, la burina Trump Tower non è la verde Milano 2. E, soprattutto, Silvio era più simpatico e buono di Donald. 

Tuesday, May 30, 2023

Inutile intestardirsi sullo status quo in Kosovo: non funziona

Non c'è peace-keeping né peace-enforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia. Una soluzione è possibile e va cercata, perché Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dalla Ue

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 maggio 2023  

Si può dire? Questa volta hanno ragione i serbi. I quattro paesi nel nord del Kosovo che protestano contro l'insediamento di sindaci di etnia albanese sono serbi al 90%. Il voto di un mese fa è stato boicottato in massa, cosicché i sindaci hanno raccolto appena il 3%. Non v'è chi non veda che non hanno alcuna possibilità di governare.

Sì, le proteste sono state violente: lanci di sassi e molotov. Ma non più di quanto lo siano quelle che devastano periodicamente il centro di Parigi. La differenza è che i soldati non sono addestrati per fare i poliziotti, e quindi non possono mantenere l'ordine in situazioni infuocate. Devono sapere proteggersi con caschi e scudi, effettuare cariche di alleggerimento, affrontare gruppi di teppisti in continuo movimento.

È un mestiere diverso da quello dei militari. Possiamo solo ringraziare il senso di responsabilità dei comandanti italiani se non ci sono state vittime dall'una e dall'altra parte. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è creare un martire serbo. 

I soldati Nato sono in Kosovo da un quarto di secolo. Ero con gli italiani nel 1999, quando fummo accolti come liberatori dagli albanesi vessati dal presidente fasciocomunista serbo Slobodan Milosevic. Che è stato processato come criminale di guerra e si è suicidato prima della condanna. Ma oggi all'Aja il Tribunale internazionale sta processando l'ex presidente del Kosovo liberato Hashim Thaci, accusato anch'egli di successive violenze contro la minoranza serba. 

La soluzione del nodo kosovaro sarebbe semplice: dare a Belgrado la zona a maggioranza serba di Mitrovica, in cambio di compensazioni territoriali nei paesi di confine albanesi rimasti in Serbia. Inutile intestardirsi nel voler mantenere uno status quo che ha ampiamente dimostrato di non poter funzionare.

Vladimir Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dall'Unione Europea. I filorussi serbi soffiano sul fuoco, ora che sono passati dall'aggressione della minoranza albanese alla difesa della minoranza serba in Kosovo. Sta a noi evitare un nuovo Donbass casalingo. Perché a est di Trieste purtroppo le etnie contano ancora. Non illudiamoci di coprirle con militari Nato mandati allo sbaraglio in una missione che non è più la loro: non c'è peacekeeping né peaceenforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia.

Saturday, May 20, 2023

Come Augusta, per difendere Eugenia in una partita già vinta, è passata dalla parte del torto

La contestazione alla Roccella, che non ha potuto parlare al Salone di Torino, va condannata senza appello. Ma poi la Montaruli ha cominciato ad urlare contro Nicola Lagioia, e nel racconto di quanto è successo qualcosa è cambiato...

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 maggio 2023

Una trentina di femministe ha impedito alla ex femminista Eugenia Roccella, oggi ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità (quante cose, povero biglietto da visita extralarge) di presentare il suo libro 'Una famiglia radicale' (ed. Rubbettino) al Salone del libro di Torino.
 E questo è quanto. Non ci sarebbe molto altro su cui discutere, soprattutto con chi non vuole discutere. La contestazione è stata violenta, perché le urla hanno reso impossibile parlare alla ministra.

Le manifestanti hanno commesso un preciso reato, violenza privata, qualche giudice valuterà se punirle. Roccella le aveva invitate al dialogo sul palco, ma loro si sono rifiutate di interloquire. Si sono limitate a leggere un comunicato al microfono. Poi si sono piazzate per terra gridando. Qualche poliziotto voleva trascinarle via. La ministra lo ha impedito, memore di quando era lei a fare i sit-in mezzo secolo fa per la legalizzazione dell'aborto. Lo stesso diritto di aborto in nome del quale oggi le femministe hanno fatto abortire il diritto di parola per Roccella.

Ho visto i video, impeccabile la minuscola Eugenia di fronte alla corpulenta avversaria che non voleva parlarle. Voleva solo sfregiarla. Poi però è arrivata Augusta. Nata cinque anni dopo il 22 maggio 1978, storico giorno di promulgazione della legge 194 sull'aborto, conquistata dopo anni di lotte (quelle sì nonviolente, non ricordo irruzioni e interruzioni di dibattiti) da Roccella e dalla sua ex famiglia radicale (il padre deputato, Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio).

Augusta Montaruli ha rovinato tutto. Troppo giovane per essere fascista, ha accusato di fascismo le antifasciste fasciste che hanno censurato la sua ministra. E fin qui tutto bene. Deputata di Fratelli d'Italia dal 2018, era diventata sottosegretaria all'università nel governo Meloni. Ha dovuto dimettersi tre mesi fa dopo la condanna definitiva a un anno e mezzo di carcere per peculato. L'ex presidente leghista del Piemonte Roberto Cota acquistò con soldi pubblici delle strabilianti mutande verdi. Montaruli invece ha fatto passare per spese necessarie al suo mandato di consigliera regionale 25mila euro per Swarovski, vestiti e borse firmati, strenne natalizie, uno studio sulla propria reputazione social.

Chissà com'è la reputazione social di Augusta in queste ore, dopo che è riuscita a passare dalla parte del torto perfino in una partita già vinta come quella di Eugenia. Infatti pure lei a un certo punto ha cominciato a urlare. Ma non contro le femministe. Contro Nicola Lagioia, direttore del Salone, reo di avere difeso troppo blandamente Roccella.


Il povero Lagioia non è ubiquo, il palco del fattaccio è subappaltato alla Regione Piemonte. Probabilmente a quell'ora stava pranzando, lo hanno chiamato, lui si è precipitato lì. Ha cercato di accomodare le cose, pure lui auspicando come Roccella dialogo e dibattito. Figurarsi. Sicuramente non è un cuor di leone, non ha risposto con aggressività all'aggressione, è stato troppo salomonico. Ma lo ha tolto dall'imbarazzo la pugnace Montaruli, anni di screzi pregressi torinesi, aggredendolo a sua volta. 
Così, come nei falli di reazione, la scia della cometa ha preso il sopravvento sulla cometa.

Ora, da ore, quelli di destra accusano di intolleranza le femministe e Lagioia. Quelli di sinistra sono felici di ribattere prendendosela con Augusta Montaruli. Come da copione vintage.


Siamo in attesa di politici di sinistra che difendano l'apostata Eugenia ("nata bene") Roccella. E di Fratelli di Augusta che tirino le orecchie pure a lei. Altrimenti al prossimo G7 Justin Trudeau dovrà preoccuparsi per la violenza verbale attorno ai libri in Italia.

Friday, May 19, 2023

Oggi è morto il ciclismo

OGGI È MORTO IL CICLISMO

19 maggio 2023
Oggi è morto il ciclismo. Quello che doveva essere il tappone alpino del Giro d'Italia, Ivrea-Crans Montana, è stato ridotto a 75 chilometri eliminando la scalata del Gran San Bernardo (Aosta).
Troppo freddo, troppo lungo, duro, pericoloso. Il politicamente corretto è arrivato anche nello sport. Addio fughe leggendarie di Coppi, Gimondi, Pantani, addio distacchi di 20 minuti. Addio mito, byebye spettacolo.
Il ciclismo è l'unico sport, oltre alle maratone, che non si svolge in luoghi delimitati, ma va dappertutto. Per questo è popolare: si innerva in tutte le nostre strade, come il sangue percorre le vene.
Oggi lo hanno sterilizzato. Forse è stata la decisione giusta, perché i giorni scorsi sono stati funestati da pioggia, ritiri, spaventose cadute. L'inglese Tao Geoghegan Hart, terzo in classifica generale, ha dovuto ritirarsi con una frattura all'anca. Anche il covid ha colpito, fuori tempo massimo: ha eliminato il grande favorito Remco Evenepoel, giovane belga considerato il nuovo Merckx, e il nostro Filippo Ganna.
Così è diventato maglia rosa l'attempato britannico Geraint Thomas, separato da appena due secondi dall'altro favorito, lo sloveno Primoz Roglic. E questo distacco millimetrico dà la misura della mediocrità voluta del ciclismo moderno.
Che stia trionfando anche nelle gare lo slogan buonista ugualitario "Nessuno deve restare indietro"? Ad aiutare i campioni in difficoltà finora erano i compagni di squadra, i valorosi gregari che si attardano quando i loro capitani vanno in crisi, pilotandoli verso le cime delle montagne.
Da oggi invece ci penseranno gli organizzatori ad alleviare le fatiche dei ciclisti, tagliando le asperità, eliminando pioggia e neve dai percorsi delle tappe.
Stiamo parlando di campioni che meritano tutto il nostro rispetto, anche perché possono solo sognare gli stipendi milionari di calciatori o tennisti. E infatti nessuno di loro aveva chiesto esplicitamente di evitare il passo del Gran San Bernardo. C'è solo stato un sondaggio anonimo che ha esplorato le loro preferenze: ovvia la scelta per il risparmio di energie. Ma sarebbero tutti partiti disciplinatamente anche sul tracciato lungo, perché sono orgogliosi professionisti.
Niente, il principio di precauzione ha prevalso anche fra i tornanti che creano i miti. Per certi dirigenti sportivi i campioni devono ridursi a parastatali: tante garanzie, pochi rischi. Nessuna avventura.

Tuesday, May 09, 2023

Democrazie e dittature? Ancora oggi per qualcuno pari sono



Nell'articolo principale di questa settimana de La Lettura, Manlio Graziano, docente di geopolitica a Parigi, scrive che Usa e Cina "si scambiano provocazioni con tanta aggressività e leggerezza"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 9 maggio 2023 

"Taiwan è diventata la posta principale di un gioco al rialzo da cui nessuno vuole recedere. Né Joe Biden né Xi Jinping possono permettersi di mostrare segni di cedimento al pubblico di casa". Nell'articolo principale di questa settimana de La Lettura, supplemento letterario del Corriere della Sera, Manlio Graziano, docente di geopolitica a Parigi, scrive che Usa e Cina "si scambiano provocazioni con tanta aggressività e leggerezza" quanto quelle che portarono alla Prima guerra mondiale nel 1914 e all'attacco del Giappone contro gli Stati Uniti nel 1941. 

"Giocare con il fuoco dei ricatti reciproci, senza considerare che la situazione è per certi aspetti più grave di allora, è una prova del sonnambulismo degli attuali 'responsabili' politici", scrive Graziano. Il quale mette quindi sullo stesso livello un dittatore come il cinese e un presidente eletto come l'americano. Entrambi responsabili ma scritti tra virgolette, perciò in realtà irresponsabili. Anche se Xi non deve rispondere a nessuno, mentre Biden fra due anni sarà liberamente valutato dai suoi elettori. 

Graziano riconosce l'impossibilità dell'equivalenza, ma solo per dire che Xi è più vulnerabile: "Il leader autoritario, privo di legittimazione elettorale, è forse più esposto del leader democratico, perché quando perde la legittimità interna trascina nella caduta il suo regime". Come accadde ai colonnelli greci dopo il golpe di Cipro nel 1974, o ai generali argentini dopo la sconfitta delle Falkland/Malvine nel 1982. 

Graziano però precisa che anche la legittimazione elettorale di Biden "è da alcuni contestata". Questi 'alcuni' sarebbero Donald Trump e i suoi teppisti di Capitol Hill? Proseguendo nell'equiparazione, il professore cita un sondaggio con il 70% dei cinesi favorevoli all'uso della forza per "riunificare" (alias attaccare) Taiwan, e uno di Newsweek con "più della metà degli americani pronta ad appoggiare un intervento degli Usa in difesa di Taiwan". Come se in Cina esistesse un'opinione pubblica libera di esprimersi. E come se attaccare e difendere siano la stessa cosa. 

Graziano poi scrive che davanti alle coste cinesi ci sarebbe "una catena di isole controllate da Paesi rivali, spada di Damocle sui suoi traffici", riecheggiando la paranoia da accerchiamento di Vladimir Putin. Ma i traffici della Cina sono indirizzati verso l'intero mondo libero, il quale quindi non ha alcun interesse a bloccarli. 

L'affermazione più sconcertante di Graziano arriva quando dà credito alla prima teoria complottista del dopoguerra: l'accusa a Franklin Roosevelt di avere "scientemente provocato" Pearl Harbour. "Secondo alcuni storici" scrive lui; i quali però si riducono a un contrammiraglio Usa cacciato dopo una sconfitta, e a un fotografo.

La conclusione di Graziano è in linea con la sua idea di equipollenza fra democrazie e dittature. Accusa santorianamente "i 'responsabili' politici delle potenze minori [come la Ue, ndr]" di "accodarsi all'uno o all'altro dei due contendenti". I quali per lui pari sono. Dimenticando che invece a Taiwan, come in Ucraina, c'è un enorme lupo che minaccia un piccolo agnello. 

Povero Angelo Panebianco, l'editorialista del Corsera che ancora pochi giorni fa ammoniva a rendersi conto dell'ineliminabile conflitto di valori fra il mondo libero e le autocrazie (Cina, Russia). L'illusione della neutralità è forte anche nel suo stesso giornale. 

Saturday, May 06, 2023

Dio salvi il re, le carrozze e l'incoronazione. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo

La monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 6 maggio 2023 

"Her Majesty is a pretty nice girl, but she doesn't have a lot to say (...) Someday I'm gonna make her mine". "Sua Maestà è una ragazza carina, ma non ha molto da dire (...) Prima o poi me la faccio": sono le parole dell'ultima canzone nell'ultimo disco dei Beatles, Abbey Road, 1969. Dura solo 23 secondi, e il suo titolo non appare sulla copertina dell'Lp.

Molto 'naughty', birichino, l'autore Paul McCartney. In Italia magari qualcuno l'avrebbe denunciato per vilipendio. Gli inglesi invece adorano questo humour sottile. Mentre detestano sparate melodrammatiche come quella dell'altro beatle John Lennon, che in quei mesi restituì alla regina il titolo di baronetto per protesta contro lo scarso successo del suo 45 giri 'Cold Turkey'. 

A proposito della nomina a baronetti: fu ancora Lennon a rivelare che si fumarono una canna nei bagni di Buckingham Palace nel 1965, prima di ricevere il titolo. E sempre Lennon capitanò la fronda sbarazzina quando, durante un concerto alla presenza della regina madre e della principessa Margaret, invitò il pubblico ad accompagnare 'Twist and Shout' battendo le mani. "Voialtri invece", aggiunse rivolgendosi al palco reale, "fate tintinnare i vostri gioielli".

Ecco, i Beatles (unici inglesi a eguagliare la fama planetaria della regina) rappresentano bene il massimo grado di contestazione cui è sottoposta la Corona britannica. Più silenziosi ma concreti i Rolling Stones: pare che Mick Jagger abbia portato a termine con Margaret l'impresa solo sognata da McCartney. Adesso i tifosi scozzesi dei Rangers di Glasgow cantano: "Carlo, l'incoronazione mettitela in quel posto!" Ma sono solo cori da stadio. Quando si è trattato di votare la secessione dalla monarchia inglese, anche in Scozia hanno vinto gli unionisti.

Prevale l'indifferenza: ai due terzi dei britannici, e ai tre quarti degli under 25, la cerimonia di oggi non interessa. Ma è un disinteresse per niente bellicoso, anzi benevolo: la maggioranza assoluta degli inglesi si dichiara comunque monarchica. Come quel proverbio romanesco: "Se ci sei sono contento, se sparisci nun m'accorgo". Forse la monarchia è un ente così inutile che non vale neanche la pena combatterla. C'è, e buonanotte. Attrazione turistica, miniera di gossip, cerniera istituzionale. Perchè rinunciarci? Per sostituirla con un esangue presidente civile? Peggio: per passare a un regime presidenziale come in Usa o Francia, con il rischio di eleggere soggettoni tipo Donald Trump o Boris Johnson?

 "Quaeta non movere", non tocchiamo ciò che funziona. Quindi becchiamoci pure Carlo e Camilla. Se saranno una disgrazia, non dureranno molto: l'anagrafe è quella che è. Poi, un'onesta successione è garantita per il prossimo mezzo secolo con l'equilibrato William, sua moglie che piace alle commesse, e suo figlio George che mostra già movenze da monarca. Poi, certo, ci sono anche le disgrazie. Ma le paturnie del principe Harry hanno dominato le classifiche mondiali delle vendite di libri negli ultimi mesi: la sua autobiografia ha avuto più successo di quella di Winston Churchill. Se è questo che vogliono i sudditi, diamoglielo. Come il favoloso corteo odierno con le carrozze. 

Ho lavorato 22 anni nel settimanale Oggi. Ogni volta che abbiamo dedicato la copertina a un resoconto scritto dalla nostra impareggiabile 'royal correspondant' Michela Auriti, le vendite schizzavano all'insù. Quindi God save the King. E salvi anche le tirature dei giornali. 

Friday, May 05, 2023

Il déjà-vu. Che peccato, non conosciamo più né i francesi né il francese

Se, come fino a pochi anni fa, ricominciassimo a studiare Molière e Camus, o ad ascoltare Brassens, forse litigheremmo meno. Brevi cenni a una fratellanza che è un peccato smarrire

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 maggio 2023

Il predecessore del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il quale offeso cancella un incontro con la sua omologa francese, andò a Parigi per congratularsi con i teppisti in gilet giallo che mettevano a ferro e a fuoco i boulevards, in odio a Emmanuel Macron. Tanto sgarbo istituzionale non impedì però al presidente francese di incontrare l’ineffabile Luigi Di Maio il quale, dopo un miracolo e due o tre capriole, decise infine di indossare il gilet dell’apprendista statista (e, per scusarsi, si dichiarò ammiratore della “millenaria” democrazia francese. Forse si era confuso con Atene). 

Il problema però, al di là del cabaret politico, esiste e resiste: non pochi italiani detestano i francesi. Quanti italiani? Sicuramente sono aumentati più di qualche decennio fa. Perché? Una delle ragioni, la più semplice e banale, è che non li conosciamo più. 

Fino agli anni Ottanta metà delle cattedre di lingua straniera alle medie inferiori erano di francese (compresa quella di mia madre). Poi ha prevalso l’inglese, giustamente, cosicché oggi quasi nessun italiano under 50 parla francese. E quel che è peggio ignora la cultura della Francia, da Molière ad Albert Camus. Perfino in zone di frontiera come Ventimiglia solo il 10 per cento dei nostri studenti impara il francese.

Risultato: quelli che erano i nostri fratelli, assieme agli spagnoli, ora ci sembrano estranei. Nessuno pronuncia bene menu e déjà-vu, non parliamo di Champs-Élysées. I romani poi, soprattutto in Rai, dicono Courmayer per impedimento glottologico. Dalida, Sylvie Vartan e Françoise Hardy erano ogni settimana in tv, i nostri attori preferiti erano Alain Delon e BB. Ora qualcuno conosce un cantante francese?

È subentrato addirittura astio: ho visto la finale mondiale Francia-Croazia del 2018 in un albergo pugliese, quasi tutti stavano per i croati. Ho chiesto perché: mi risposero che era Africa-Croazia, troppi neri francesi.

I nostri antifascisti, da Sandro Pertini ai fratelli Rosselli, si rifugiavano in Francia. Più recentemente con discutibili motivazioni Parigi ha concesso asilo a ex terroristi. Ma comunque è lì che scappa chi ha problemi con la giustizia: dietro casa, quasi a casa. 

Un mese fa il Salone del libro francese ha onorato l’Italia, celebrandola come Paese ospite d’onore. In quella occasione Alessandro Baricco ha ricordato che per lui e i giovani torinesi era più facile, rapido e semplice andare in treno a Parigi che a Roma, se si voleva raggiungere una capitale europea. Adesso invece qualche esagitato protesta contro il Tav che dimezzerà le otto ore del Torino-Parigi, così come l’alta velocita ha fatto col Torino-Roma.

Pure io andavo ogni anno a Parigi e ogni estate in Costa Azzurra, come tanti sono cresciuto quasi bilingue, ora leggo Michel Houellebecq in originale. La controcultura, cioè la cultura moderna, è nata in Inghilterra con i Beatles e negli Stati Uniti con la contestazione studentesca. Ma tutti ricordano il Maggio ’68 di Parigi, non il ’64 di Berkeley. E gli esistenzialisti francesi degli anni Cinquanta, da Jean-Paul Sartre a Georges Brassens (padre di Fabrizio De André), alla distanza dimostrano più spessore culturale dei poeti beat Usa Allen Ginsberg o Jack Kerouak. 

Sì, lo so che i francesi usano la locuzione italiana “dolcefarniente” per definirci fra l’invidia e il fastidio, che le cose fatte male per loro sono “grossomodò”. La speranza è che grazie a Erasmus e ai voli low cost la conoscenza diretta riprenda e le cose si sistemino. Le Alpi non sono alte, e comunque Emmanuel Macron e Giorgia Meloni sono alti uguale. 

Monday, April 24, 2023

Il '68 di Belafonte



Fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 aprile 2023

È difficile oggi rendersi conto dell'impatto che ebbe Harry Belafonte nel febbraio 1968, quando condusse per una settimana il Tonight Show sul network statunitense Nbc. Ogni sera, davanti a oltre dieci milioni di esterrefatti benpensanti, il leggendario cantante appena scomparso offrì il massimo podio televisivo ai principali esponenti del movimento per i diritti civili e della controcultura.


La sua stessa presenza era storica: fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti. Gli aveva lasciato temporaneamente la poltrona Johnny Carson, monumento catodico, che condusse il Tonight Show per trent'anni (1962-92) facendone uno dei programmi anche politici più ambiti: una specie di Maurizio Costanzo più Lilli Gruber più Fabio Fazio, poi lasciato in eredità a Jay Leno, oggi a Jimmy Fallon, e soprattutto al concorrente David Letterman.

Nel 1968 gli Stati Uniti erano una polveriera. Per tre motivi: la rivolta studentesca iniziata quattro anni prima a Berkeley col Free Speech Movement; i ghetti neri in fiamme, non placati dalla legge sui diritti civili che il presidente Lyndon Johnson aveva concesso a Martin Luther King; la guerra del Vietnam, che proprio in quei mesi raggiunse il suo apice con l'offensiva del Tet, massacrando decine di migliaia di giovani americani che tornavano a casa in bara o mutilati.

Quando Belafonte sottopose la lista dei suoi invitati ai dirigenti Nbc, loro barcollarono. Metà erano di colore, e fra i bianchi il più moderato era il giovane Paul Newman, che però quando arrivò in trasmissione si trasformò in un estremista radical. Purtroppo allora non tutte le trasmissioni tv Usa venivano registrate, cosicché oggi ce ne rimane solo qualche spezzone. Memorabile quello con M.L.King: l'ultima intervista del Nobel per la pace, che verrà assassinato il 4 aprile. Robert Kennedy annunciò la sua candidatura a presidente subito dopo la partecipazione, sfruttando l'onda di consenso e interesse che aveva provocato. Anch'egli ucciso. 

Notevoli anche Aretha Franklin e Sidney Poitier: il premio Oscar di Indovina chi viene a cena, come lo stesso Belafonte, in quel periodo era accusato di 'ziotommismo' dai neri più estremisti come Malcolm X, Stokely Carmichael, le nascenti Pantere nere. E invece entrambi non sembrarono affatto sottomessi alla maggioranza silenziosa di destra che di lì a poco mandò alla Casa Bianca Richard Nixon.

Il cantante di Matilda e Banana Boat colpì nel segno, e niente fu come prima. Tre anni fa Sky ha trasmesso un documentario su questa impresa di Belafonte, e sicuramente ora la riproporrà. Non perdetela. 

Tuesday, April 11, 2023

Xi e Macron, postura e impostura



Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. L'appeasement francese, dopo il bacio della pantofola a Pechino, assomiglia a quello di Neville Chamberlain 85 anni fa, quando si convinse di aver scongiurato la guerra cedendo i Sudeti a Hitler

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 11 aprile 2023

"Indipendenza di Taiwan e pace sono incompatibili". Il grave di questa chiarissima minaccia di guerra non è che l'abbia pronunciata il dittatore cinese, ma che al resto del mondo sia scivolata via come niente fosse. Eppure siamo ammaestrati. Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. Adolf Hitler ce li anticipò perfino per iscritto nel Mein Kampf: ebrei e spazio vitale. Slobodan Milosevic vaneggiava di grande Serbia compresi Bosnia, Sarajevo e Kosovo molti anni prima della strage di Srebrenica. 

Vladimir Putin ha dovuto invadere l'Ucraina perché gli credessimo: finché ammassava truppe e inscenava manovre al confine ci illudevamo fosse solo "posturing", come dicono gli esperti di geopolitica quando vogliono impressionarci con parole difficili. In realtà significa abbaiare, ma non ditelo al Papa: lui ha suggerito che sia stata la pecorella aggredita a trasformarsi in cane provocatore, con la Nato.

I latrati di Xi Jinping contro Taiwan vanno avanti da dieci anni, ma il volume è aumentato da quando i taiwanesi hanno osato eleggere presidente una signora che non vuole farsi finlandizzare. Soprattutto oggi che la Finlandia si è definlandizzata, emancipandosi dallo stato di soggezione e libertà provvisoria cui l'aveva costretta l'Urss (esempi concreti: Helsinki dovette togliere dalle biblioteche 1700 libri ritenuti antisovietici, e l'Arcipelago Gulag del Nobel Aleksandr Solgenitsin fu stampato nel 1974 in finlandese, ma in Svezia). 

Quindi ora che la Finlandia si è taiwanizzata entrando nella Nato, la Cina vorrebbe che invece Taiwan stesse a cuccia. E potrebbe essere anche ragionevole non aizzare l'arrogante vicino, se non ci fosse lo spiacevole esempio di Hong Kong: lì la drammatica fine dei diritti civili più elementari dimostra che Pechino è incapace di tollerare qualsiasi isola di libertà ai propri confini. Come ogni dittatura, teme il contagio del virus democratico.

Per capire il tremendo dilemma dei taiwanesi (ma la campana suona per tutti noi) consiglio di vedere su Netflix il film "Monaco, sull'orlo di una guerra" (2022). In cui Jeremy Irons impersona il premier britannico Neville Chamberlain, applaudito dal mondo intero perché nel settembre 1938 era convinto di avere evitato la guerra mondiale con/cedendo i Sudeti a Hitler. Il quale solo cinque mesi dopo ripagò la sua sprovveduta fiducia invadendo tutta la Cecoslovacchia, e poi la Polonia.

Confesso che anch'io, come chiunque senza il senno di poi, ascoltando le ingenue ma sincere parole di Chamberlain/Irons gli avrei dato ragione: aborrire la replica di un'altra carneficina dopo quella della Grande Guerra era ragionevole, non occorreva essere pacifisti. Per la pace si possono pagare prezzi anche alti. 

Ma oggi l'appeasement di Emmanuel Macron, dopo il suo bacio della pantofola di Xi a Pechino, assomiglia un po' troppo a quello di Chamberlain 85 anni fa. Il presidente francese si dice felice per il gran riguardo che gli avrebbe riservato il tiranno cinese: aspettare la sua partenza prima di iniziare le grandi manovre militari che hanno accerchiato Taiwan simulandone l'invasione. 

Quanto al resto, la Cina non è più vicina, quindi chi se ne importa della sua aggressiva e reiterata rivendicazione su Taiwan. L'atteggiamento di Pechino è solo irredentismo passé, di posa? La realtà ci dice il contrario: dal 2012 la Cina ha raddoppiato le sue spese militari, che oggi superano quelle di tutti i suoi tredici vicini asiatici messi assieme. E allora, se quella di Xi non è una postura, quella di Macron è una benintenzionata impostura.


Thursday, April 06, 2023

Iena antidroga. Una ciocca per il populismo perbenista e per evitare la gogna preventiva



Prosegue fra barzellette e contrappassi la ienizzazione della politica italiana. In Sicilia ci pensa l'arrembante Ismaele La Vardera, che ha sfidato i colleghi dell'Assemblea regionale a sottoporsi al test della narcoverginità

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 7 aprile 2023


Che sfortunato Gaetano Galvagno, presidente del Consiglio regionale siciliano, ragazzo prodigio, 38enne di Fratelli d'Italia da Paternò (Catania), il paese di Ignazio La Russa. 

Aveva appena aderito entusiasta al taglio della ciocca di capelli per un test antidroga, proposto a tutti i settanta consiglieri regionali dal loro collega ex Iena tv Ismaele La Vardera, e zac: il capo della sua segreteria è stato beccato mentre comprava tre grammi di cocaina per 300 euro dallo chef di un noto ristorante palermitano.

Prosegue così, fra barzellette e contrappassi, la ienizzazione della politica italiana. Aveva cominciato Dino Giarrusso, arruolato dai grillini passando direttamente dal programma di Italia1 all’Europarlamento. E ora c’è l’arrembante Ismaele, eletto nell’assemblea siciliana dal partito “Sud chiama Nord”. Autonominatosi apostolo antidroga, ha sfidato i suoi colleghi: “Sottoponetevi alla prova del capello!”.

Quasi quaranta sventurati hanno finora risposto, accettando l’umiliazione per provare la loro narcoverginità e sottrarsi alla gogna preventiva.

Speriamo che nessun consigliere siciliano abbia preso ultimamente Moment, Brufen o qualcun altro degli antidolorifici che fanno risultare drogato il capello. Tuttavia il fenomeno dei falsi positivi è l’ultimo dei problemi. La vera disgrazia, davanti a questa caccia alle streghe, è che ormai nessuno ha il coraggio di obiettare che farsi una canna, ma anche maneggiare stupefacenti più pesanti per uso personale, è perfettamente legale oggi in Italia.

Però il grillismo, ridotto al 2 per cento nel Nord Italia, sopravvive ad altre latitudini, contagia altri partiti, ne figlia di nuovi. E non importa che, da Beppe Grillo in giù, gli ex moralizzatori si rivelino come sempre i più ipocriti, dai favori ai traghetti Moby alle intemperanze dell’ex capo delle Dogane. Il populismo perbenista si trasferisce dalle trasmissioni tv di assalto posticcio all’interno delle istituzioni, e naturalmente ora l’ex iena La Vardera promette di istituire con disegno di legge apposito una “Giornata regionale contro la droga con test per sindaci, consiglieri e assessori”.

Sventola orgoglioso il suo certificato dell’ospedale Cervello-Villa Sofia, il neoSavonarola della Trinacria, comunicandoci il trionfo: “Il mio test ha avuto esito negativo. Spero che anche gli altri 36 deputati che l’hanno fatto possano pubblicare il risultato. E gli altri 34? Non pervenuti. Qualcuno ha definito ridicola questa trovata, io invece credo che quando la politica parla di lotta alle droghe debba dare l’esempio. Le droghe fanno schifo. Uccidono e finanziano la mafia”.

Estasiati da tali bellicosi proclami, accorrono nel nuovo partito di La Vardera e Cateno De Luca, Sud chiama Nord, giganti della politica ingiustamente trombati come l’ex grillina Laura “questo lo dice lei” Castelli.

Prossima mossa in difesa della virtù: installare etilometri all’ingresso di ogni aula elettiva. E ci saranno sorprese, visto il consumo della droga etilica nelle buvette. Poi i guardiani della salute pretenderanno lastre dei polmoni contro il tabagismo, e sanzioni contro l’abuso di escort. Forse si salveranno gli obesi, sarebbe bodyshaming. Quanto al test antiscemenza, siamo in attesa.

Monday, April 03, 2023

Sapessi com'è strano piantare alberi a Milano


Li mettono in vasi sopra il cemento, oppure sui grattacieli. La tendenza dei parchi a bassa intensità di alberi sta dilagando in tutta la città. Forza sindaco Sala, un piccolo sforzo in più: sotto l'asfalto c'è la terra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 3 aprile 2023 

Nuova moda a Milano: invece di piantare gli alberi in terra, li mettono in vasi sopra il cemento e asfalto. Come in via Beroldo, una traversa di viale Brianza in zona Loreto, davanti al rinomato liceo classico Giosué Carducci. L'hanno appena pedonalizzata, e questo è lo squallido risultato. Altro che "forestare Milano"! Gli alberelli non potranno crescere più di tanto, non avendo terra per le radici. Dovranno essere sempre innaffiati, non potendo succhiare l'acqua dalla falda. Lodevole l'idea di installare due tavoli da ping pong in cemento, e qualche panchina. Ma per quanto riguarda il verde, ci sarebbe posto per ben altro: una trentina di alberi a medio fusto.

Forza sindaco Sala, un piccolo sforzo in più: sotto l'asfalto c'è la terra. 

Un'altra stupenda perversione tutta milanese è quella di togliere gli alberi dai parchi e di metterli sui grattacieli. È il concetto che ha trionfato con il famoso Bosco verticale dell'architetto Stefano Boeri. La torre è bellissima, ma sotto c'è una spianata ricoperta da un immenso prato, con sparuti alberelli che fanno poca ombra a viali e panchine. Si salva solo una piccola zona affollata di sontuosi salici piangenti. È una specie di desolata prateria, e infatti non hanno avuto il coraggio di chiamarla Parco. L'hanno battezzata "Biblioteca degli alberi". Si è così avverata la previsione di Adriano Celentano nella sua canzone di mezzo secolo fa, "Albero di 30 piani". 

Ma vedo che la tendenza dei parchi a bassa intensità di alberi sta dilagando in tutta la città. Il nuovo spazio di Citylife è egualmente spoglio. Un mese fa è stato inaugurato (dopo trent'anni) il parco 8 marzo dove sorgeva la stazione Porta Vittoria. È bello, ma anch'esso assomiglia più a una steppa/savana che a un parco. Gli alberi, piantumati col contagocce, sono così rari che vengono enumerati col loro nome scientifico nelle mappe che adornano gli ingressi. Ottima idea quella di presentarceli uno ad uno, ma lì c'è posto per il quadruplo di fusti. Come succede negli adiacenti parchi Marinai d'Italia e di piazzale Martini, creati decenni fa. 

Insomma, tutti parlano di "riforestazione urbana", però ogni volta che viene risistemata un'area, una piazza, una via, trionfa sempre il marmo. Come in largo Treves, a metà via Solferino, dove ci sarebbe spazio per molti più alberi. O dietro il palazzo di Giustizia.

Gli esperti mi dicono che gli alberi urbani sono detestati dai tecnici comunali perché le loro radici intralciano condutture, tubi, fogne, fibre ottiche wifi e altri fili e cavi elettrici che passano sotto i marciapiedi. Così anche quando i nuovi alberelli vengono collocati non in vaso ma in piena terra, i loro spazi sotterranei sono delimitati da uno strato di calce che fodera preventivamente i buchi della piantumazione. 

Risultato: i poveri alberi crescono rachitici, e la metà muore dopo due o tre estati secche. È quel che è successo nel parcheggio dietro la Rizzoli a Crescenzago. Speriamo che la campagna 'Riforestiamo Milano' (guidata anch'essa dall'architetto Boeri) ci regali invece dei veri polmoni verdi, con tanti alberi e soprattutto tantissime foglie che mangino la Co2 e ci restituiscano ossigeno. Per non parlare della temperatura nelle strade e zone alberate: sempre inferiore di vari gradi rispetto alle altre nelle calure estive.