IL VERO MOTIVO DELLA BATTAGLIA CHE DISTRUSSE L'ABBAZIA:
Gli alleati volevano tenere i tedeschi lontani dalla Francia. Così assediarono per otto mesi il monastero. Ora un documentario su History svela cosa accadde e perché
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2012
È stata una delle battaglie più lunghe della storia: quasi nove mesi. E fra le più sanguinose: 50 mila soldati alleati morti, 20 mila tedeschi e migliaia di civili italiani. Il primo spaventoso bombardamento angloamericano su Cassino (Frosinone) avvenne appena due giorni dopo l’illusione che con l’armistizio la guerra fosse finita: il 10 settembre 1943. Ma la cittadina e la sovrastante abbazia, fondata da San Benedetto nel 529, furono liberate soltanto il 18 maggio ’44.
Perché ci volle così tanto tempo? Il documentario Cassino, 9 mesi all’inferno, in onda su History (canale 407 di Sky) venerdì 25 maggio alle 21, rivela che la vera strategia alleata non era vincere presto, ma combattere a lungo. Grazie a documenti e testimonianze inedite, il regista Fabio Toncelli ha ricostruito i retroscena politico-militari della campagna anglo-americana in Italia nell’inverno 1943-44, i drammatici errori dei comandi, e le reciproche diffidenze nello schieramento alleato.
Cassino si trovava proprio sulla Linea Gustav che tagliava l’Italia in due fra il Tirreno (foce del Garigliano) e l’Adriatico (all’altezza di Ortona, in provincia di Chieti). Questa linea di fortificazioni era stata costruita dai nazisti dopo il «tradimento» dell’Italia non più fascista, guidata dal maresciallo Pietro Badoglio. Le truppe tedesche la scelsero come fronte di resistenza dopo lo sbarco alleato a Salerno, nel settembre ’43, perché era il punto più stretto della penisola italiana. Ma soprattutto perché l’abbazia di Montecassino controllava da un’altura la principale via d’accesso a Roma, con la statale Casilina.
Sacrificarsi per la Normandia
In attesa dello sbarco in Francia, il compito assegnato agli alleati in Italia era tenere impegnata la macchina bellica nazista, a qualunque costo e il più a lungo possibile. E questo segnò il destino di Cassino.
Dall’attacco a Monte Lungo a quello al fiume Rapido, fino al bombardamento del monastero, fu un susseguirsi di operazioni militari definite dagli stessi protagonisti “suicide”, e spesso basate su presupposti errati.
I documenti d’archivio con le clamorose dichiarazioni del premier britannico Winston Churchill e del generale Dwight Eisenhower, comandante delle truppe statunitensi in Europa, fanno capire le vere finalità della campagna di Cassino. Sono confermate dalle testimonianze dei soldati e dai racconti dei civili, ormai ottantenni.
La linea Gustav a Cassino era imprendibile. Già negli ultimi mesi del ’43 gli alleati avevano capito che, nonostante i bombardamenti, era impossibile sfondare in quella parte del fronte. I tedeschi erano ben piazzati sulle alture, anche se non si erano installati dentro l’abbazia.
Il generale francese Alphonse Juin, che comandava le truppe francesi composte in gran parte da arabi delle colonie (i «marocchini» diventati poi tristemente famosi per la libertà di stupro loro concessa, come mostra il film La Ciociara con Sophia Loren), lanciò quindi i suoi a dicembre in una spedizione di aggiramento all’interno, sulle Mainarde. Riuscirono a creare un varco, ma poi gli alleati non insistettero.
Perché? In realtà, quel che volevano Churchill ed Eisenhower, svanita la speranza di una veloce liberazione dell’Italia, era impegnare il maggior numero possibile di divisioni naziste nella nostra penisola. Obiettivo: distoglierle il più a lungo possibile dal già previsto sbarco in Francia. Indecisi inizialmente fra il Mediterraneo e la Normandia, alla fine gli alleati optarono per quest’ultima.
In quei mesi eroici e convulsi soltanto Churchill aveva capito il vero problema della guerra. Che non era più vincere i tedeschi, ma contenere la futura minaccia sovietica. Il premier britannico avrebbe fatto di tutto per impedire che Stalin si impadronisse di metà Europa, come poi accadde. Di qui le trattative segrete con Benito Mussolini per una pace separata con Salò: se il Duce avesse convinto Adolf Hitler a ritirare le sue truppe dall’Italia, i nazisti le avrebbero inviate sul fronte orientale, rallentando l’avanzata russa. E gli alleati avrebbero potuto egualmente sbarcare in Francia.
Carneficina anche ad Anzio
È nel quadro di queste strategie, e nel timore che i tedeschi riuscissero ad arrivare alla bomba atomica prima degli americani, che si spiega lo stallo di Cassino.
Il generale Mark Clark, comandante delle truppe statunitensi in Italia, mordeva invece il freno. Voleva passare alla storia come il liberatore di Roma, e per questo sbarcò ad Anzio nel gennaio ’44, alle spalle di Cassino. Si era quindi stabilita una testa di ponte a soli 50 km dalla capitale, aggirando ancora un volta la linea Gustav. Niente da fare. Nonostante la via verso Roma fosse libera e raggiungibile in poche ore, le truppe da sbarco alleate preferirono consolidare le loro posizioni. Così i tedeschi ebbero il tempo di riorganizzarsi, di contrattaccare, e fu una carneficina.
Dovettero passare altri quattro mesi fino alla liberazione della capitale, il 4 giugno 1944. Nel frattempo, ci andò di mezzo anche l’abbazia. Che, in quanto territorio neutrale (apparteneva giuridicamente allo Stato della Città del Vaticano), non poteva essere bombardata dagli alleati, i quali detenevano il dominio dell’aria.
Ma i nazisti ne approfittarono: stiparono a pochi metri dalle mura esterne enormi depositi di munizioni. Gli angloamericani sostenevano che erano anche entrati nell’abbazia, e da lì bersagliavano gli assedianti. Non era così, e nella guerra della propaganda i tedeschi nei mesi seguenti usarono le foto dell’abbazia distrutta come esempio di una pretesa «barbarie» degli alleati.
In ogni caso, nel maggio ’44 tutto è pronto per lo sbarco segreto in Normandia. Churchill ed Eisenhower non hanno più bisogno di tenere impegnate le otto divisioni tedesche in Italia, per paura che ripieghino in Francia. Danno quindi il via libera a Clark. E, ancora una volta, la Linea Gustav viene aggirata dai francesi, questa volta sui monti Aurunci.
Mauro Suttora
Wednesday, May 30, 2012
La frana della Lega Nord
DOPO LE RIVELAZIONI DI 'OGGI', LA BATOSTA AL VOTO
di Mauro Suttora
Oggi, 21 maggio 2012
Il 9 aprile, Pasquetta, le agenzie di stampa annunciano l’intervista di Oggi ad Alessandro Marmello, autista di Renzo Bossi («Trota»): «Al figlio di Umberto passo contanti ritirati dalle casse della Lega a mio nome». Quattro video confermano l’accusa. Dopo poche ore Renzo Bossi si dimette da consigliere regionale della Lombardia.
Inizia così la frana della famiglia Bossi e della Lega Nord. Un mese dopo, arriva l’avviso di garanzia per appropriazione indebita di finanziamento pubblico a Umberto, Renzo e l’altro fratello, Riccardo. Ai quali, si scopre, il tesoriere della Lega Francesco Belsito pagava uno «stipendio» di 5 mila euro al mese, oltre ad avere acquistato lauree in Albania per Renzo e per la guardia del corpo di Rosi Mauro, tuttora vicepresidente del Senato, già fedelissima di Bossi ma ora espulsa dalla Lega. Belsito è indagato per truffa e riciclaggio: aveva investito in oro e diamanti parte dei rimborsi elettorali, finiti anche a Cipro e in Tanzania. Rapporti sospetti perfino con la ‘ndrangheta.
Il voto del 6 e 20 maggio ha punito la Lega. Unico sindaco eletto al primo turno quello di Verona, Flavio Tosi. Risultati pessimi nelle ex roccaforti: 5% a Belluno, 6 ad Alessandria, 7 a Monza, 8 a Como. Leghisti battuti perfino a Cassano Magnago (Varese), dov’è nato Umberto Bossi, e a Mozzo (Bergamo), dove vive l’ex ministro Roberto Calderoli. Il quale per ora guida il partito assieme a Manuela Dal Lago e a Roberto Maroni. Quest’ultimo sarà eletto segretario unico nel congresso alla fine di giugno.
Per la Lega sarà dura riconquistare il 12% delle regionali 2010, e il 35% in Veneto. Regione, quest’ultima, guidata dal leghista Luca Zaia, così come il Piemonte è in mano a Roberto Cota. Ma dopo la rottura con il Pdl e l’opposizione al governo Monti, tutti i giochi sono aperti.
m.s.
di Mauro Suttora
Oggi, 21 maggio 2012
Il 9 aprile, Pasquetta, le agenzie di stampa annunciano l’intervista di Oggi ad Alessandro Marmello, autista di Renzo Bossi («Trota»): «Al figlio di Umberto passo contanti ritirati dalle casse della Lega a mio nome». Quattro video confermano l’accusa. Dopo poche ore Renzo Bossi si dimette da consigliere regionale della Lombardia.
Inizia così la frana della famiglia Bossi e della Lega Nord. Un mese dopo, arriva l’avviso di garanzia per appropriazione indebita di finanziamento pubblico a Umberto, Renzo e l’altro fratello, Riccardo. Ai quali, si scopre, il tesoriere della Lega Francesco Belsito pagava uno «stipendio» di 5 mila euro al mese, oltre ad avere acquistato lauree in Albania per Renzo e per la guardia del corpo di Rosi Mauro, tuttora vicepresidente del Senato, già fedelissima di Bossi ma ora espulsa dalla Lega. Belsito è indagato per truffa e riciclaggio: aveva investito in oro e diamanti parte dei rimborsi elettorali, finiti anche a Cipro e in Tanzania. Rapporti sospetti perfino con la ‘ndrangheta.
Il voto del 6 e 20 maggio ha punito la Lega. Unico sindaco eletto al primo turno quello di Verona, Flavio Tosi. Risultati pessimi nelle ex roccaforti: 5% a Belluno, 6 ad Alessandria, 7 a Monza, 8 a Como. Leghisti battuti perfino a Cassano Magnago (Varese), dov’è nato Umberto Bossi, e a Mozzo (Bergamo), dove vive l’ex ministro Roberto Calderoli. Il quale per ora guida il partito assieme a Manuela Dal Lago e a Roberto Maroni. Quest’ultimo sarà eletto segretario unico nel congresso alla fine di giugno.
Per la Lega sarà dura riconquistare il 12% delle regionali 2010, e il 35% in Veneto. Regione, quest’ultima, guidata dal leghista Luca Zaia, così come il Piemonte è in mano a Roberto Cota. Ma dopo la rottura con il Pdl e l’opposizione al governo Monti, tutti i giochi sono aperti.
m.s.
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Friday, May 25, 2012
il cerchio magico di Grillo
Movimento spontaneo di cittadini? Piano. Dietro al boom del Movimento 5 stelle c’è un’attenta strategia di marketing. E un “Richelieu”
di Mauro Suttora
Oggi, 16 maggio 2012
Il “Richelieu” di Beppe Grillo si chiama Gianroberto Casaleggio: possiede una società di marketing e strategie informatiche che gli cura il sito web. Non solo: i capilista alle elezioni sono stati selezionati dopo colloqui di ore nella sede milanese della società.
● Quindi, se i 5 stelle confermeranno l’exploit elettorale alle politiche fra un anno, le centinaia di nuovi e sconosciuti eletti non saranno stati scelti per caso, ma saranno il frutto di un’attenta regia.
● Casaleggio compare raramente in pubblico, ma è il principale consulente di Grillo. Ex di Egg Web, quando la società informatica di Telecom viene venduta nel 2004 Casaleggio si mette in proprio. Suoi collaboratori sono Enrico Sassoon, ex giornalista del Sole 24 Ore e direttore della Harvard Business Review, il figlio Davide, gli ingegneri Luca Eleuteri e Mario Bucchich. Nello stesso anno Casaleggio va da Grillo e riesce a entusiasmarlo sulle prospettive della rete.
● Fino a due anni fa la sua società curava anche il sito di Di Pietro (per 700 mila euro l’anno), oggi lavora in esclusiva con i 5 stelle.
● È prevedibile che nei prossimi mesi ci sarà un assedio al carro del vincitore, con tanti arrivisti che cercheranno di farsi eleggere con Grillo. Sarà compito di Casaleggio evitare infortuni come quelli di Scilipoti e De Gregorio, eletti deputati da Di Pietro prima di passare con Berlusconi.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 16 maggio 2012
Il “Richelieu” di Beppe Grillo si chiama Gianroberto Casaleggio: possiede una società di marketing e strategie informatiche che gli cura il sito web. Non solo: i capilista alle elezioni sono stati selezionati dopo colloqui di ore nella sede milanese della società.
● Quindi, se i 5 stelle confermeranno l’exploit elettorale alle politiche fra un anno, le centinaia di nuovi e sconosciuti eletti non saranno stati scelti per caso, ma saranno il frutto di un’attenta regia.
● Casaleggio compare raramente in pubblico, ma è il principale consulente di Grillo. Ex di Egg Web, quando la società informatica di Telecom viene venduta nel 2004 Casaleggio si mette in proprio. Suoi collaboratori sono Enrico Sassoon, ex giornalista del Sole 24 Ore e direttore della Harvard Business Review, il figlio Davide, gli ingegneri Luca Eleuteri e Mario Bucchich. Nello stesso anno Casaleggio va da Grillo e riesce a entusiasmarlo sulle prospettive della rete.
● Fino a due anni fa la sua società curava anche il sito di Di Pietro (per 700 mila euro l’anno), oggi lavora in esclusiva con i 5 stelle.
● È prevedibile che nei prossimi mesi ci sarà un assedio al carro del vincitore, con tanti arrivisti che cercheranno di farsi eleggere con Grillo. Sarà compito di Casaleggio evitare infortuni come quelli di Scilipoti e De Gregorio, eletti deputati da Di Pietro prima di passare con Berlusconi.
Mauro Suttora
Friday, May 18, 2012
Pio XI assassinato dal padre di Claretta?
Un 'buco' nel diario della Petacci riaccende i sospetti sul medico del pontefice. Dall'agenda dell'amante di Mussolini qualcuno ha strappato le pagine dal 5 al 12 febbraio 1939, e il pontefice morì il 10. Sul tavolo del Papa era pronta l'enciclica contro l'antisemitismo
di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 18 maggio 2012
Papa Pio XI morì veramente d'infarto, o fu ucciso? Qualcuno lo sospettò subito, dopo che all’alba del 10 febbraio 1939 Achille Ratti mancò all'improvviso. Certo, era un 82enne cardiopatico. Ma proprio il giorno seguente avrebbe dovuto pronunciare un discorso per il decennale del Concordato. E molti si aspettavano che avrebbe condannato le dittature nazista e fascista, dopo le roventi polemiche dei mesi precedenti sulle leggi razziali.
La scomparsa del pontefice - che aveva sul tavolo di lavoro anche la bozza di un'enciclica contro l'antisemitismo poi accantonata dal successore, Pio XII - fu provvidenziale per entrambi i regimi.
Vent'anni dopo papa Giovanni XXIII fece pubblicare solo in parte la bozza di quel discorso, in cui Benito Mussolini e Adolf Hitler venivano paragonati a Nerone. Nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant, in un memoriale a lui attribuito, avrebbe affermato riguardo alla morte di Pio XI: "Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato". E indicò anche la mano che, se non causò direttamente il decesso, almeno lo favorì o affrettò: quella del medico personale Francesco Saverio Petacci, padre dell'amante di Mussolini Claretta. Ipotesi incredibile, e ritenuta tuttavia plausibile dallo storico Piero Melograni, che ha studiato a fondo quel periodo: «Petacci era un personaggio ricattabile da parte del regime».
Si sperava che i diari di Claretta Petacci, sicuramente autentici e desecretati dall’Archivio centrale dello Stato settant'anni dopo la loro redazione, avrebbero gettato qualche luce in più sul mistero. Al contrario: dall'agenda 1939 qualcuno ha eliminato proprio le pagine su quei giorni di febbraio. Dopo avere controllato la copia originale, conservata negli uffici dell’Eur, abbiamo scoperto una settimana di buco: dal 5 al 12 febbraio. Dal diario sono state chiaramente sottratte una o più pagine.
La prova? Claretta non scriveva tutti i giorni, ma quando lo faceva terminava sempre il racconto della giornata. Invece, come si può vedere, il foglio del 5 febbraio s’interrompe bruscamente, nel mezzo di una frase ("Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna. Poi dice: questi sanno..."). E riprende il 12 febbraio come se nulla fosse, con Mussolini che alle nove e tre quarti telefona a Claretta parlando della salma del papa che vuole andare ad omaggiare a San Pietro: “Vado con mia moglie. È bene anche per il mondo che lo faccia. Ma non farò tardi”. Quindi chi ha strappato i fogli ha lasciato involontariamente traccia della clamorosa manomissione.
Nei diari il duce parla di tutto con l’amante, anche di delicati argomenti politici. È sincero, si lascia andare come non fa neppure a casa propria. E lei riporta fedelmente, quasi maniacalmente, ogni sua frase.
Nelle settimane precedenti il dittatore si era scagliato più volte contro Pio XI, definendolo addirittura "una calamità, nefasto per la religione: peggio di questo papa in questo periodo non poteva capitare [...] Tu non sai il male che fa alla Chiesa. Fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e [ora] siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto" (8 ottobre '38).
E il giorno dopo, ancora più chiaro: "Porci ebrei, li ucciderò tutti". Anche Galeazzo Ciano nel suo diario scrive che Mussolini il 14 dicembre 1938 ebbe uno scatto d’ira contro il papa, di cui si augurò la morte.
Ma è possibile che Mussolini abbia fatto sopprimere Pio XI tramite il dottor Petacci? Quel che è quasi impossibile, è che nei diari di Claretta non si accenni mai alla vicenda. Soprattutto dati il ruolo di archiatra pontificio ricoperto dal padre e la familiarità che si era instaurata con Mussolini, al quale a sua volta Claretta raccontava le proprie vicende domestiche. Il duce s’interessava a Petacci, lo faceva scrivere sul Messaggero, voleva nominarlo senatore.
L’eliminazione delle pagine scottanti è quindi sicura. Difficile invece stabilire quando avvenne: prima che Claretta in fuga dal lago di Garda nell’aprile ‘45 consegnasse i diari all’amica contessa Rina Cervis? O dopo che furono ritrovati dai carabinieri, cinque anni più tardi, sotterrati nel giardino della contessa a Gardone (Brescia)?
E chi li purgò dei fogli ritenuti imbarazzanti? Claretta stessa, oppure le autorità italiane, oppure i servizi segreti alleati (americano, inglese), ai quali erano stati fatti leggere prima di seppellirli di nuovo per sette decenni nell’Archivio romano in nome della privacy.
L’unico e ultimo erede Petacci è il 70enne Ferdinando, figlio di Marcello (il fratello di Claretta ucciso a Dongo). Vive in Arizona e difende la memoria del nonno: “Perché avrebbe dovuto uccidere un amico che curava da quand’era cardinale, e che per lui era una gallina dalle uova d'oro, la massima referenza? Per fare un favore a Mussolini?”.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 18 maggio 2012
Papa Pio XI morì veramente d'infarto, o fu ucciso? Qualcuno lo sospettò subito, dopo che all’alba del 10 febbraio 1939 Achille Ratti mancò all'improvviso. Certo, era un 82enne cardiopatico. Ma proprio il giorno seguente avrebbe dovuto pronunciare un discorso per il decennale del Concordato. E molti si aspettavano che avrebbe condannato le dittature nazista e fascista, dopo le roventi polemiche dei mesi precedenti sulle leggi razziali.
La scomparsa del pontefice - che aveva sul tavolo di lavoro anche la bozza di un'enciclica contro l'antisemitismo poi accantonata dal successore, Pio XII - fu provvidenziale per entrambi i regimi.
Vent'anni dopo papa Giovanni XXIII fece pubblicare solo in parte la bozza di quel discorso, in cui Benito Mussolini e Adolf Hitler venivano paragonati a Nerone. Nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant, in un memoriale a lui attribuito, avrebbe affermato riguardo alla morte di Pio XI: "Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato". E indicò anche la mano che, se non causò direttamente il decesso, almeno lo favorì o affrettò: quella del medico personale Francesco Saverio Petacci, padre dell'amante di Mussolini Claretta. Ipotesi incredibile, e ritenuta tuttavia plausibile dallo storico Piero Melograni, che ha studiato a fondo quel periodo: «Petacci era un personaggio ricattabile da parte del regime».
Si sperava che i diari di Claretta Petacci, sicuramente autentici e desecretati dall’Archivio centrale dello Stato settant'anni dopo la loro redazione, avrebbero gettato qualche luce in più sul mistero. Al contrario: dall'agenda 1939 qualcuno ha eliminato proprio le pagine su quei giorni di febbraio. Dopo avere controllato la copia originale, conservata negli uffici dell’Eur, abbiamo scoperto una settimana di buco: dal 5 al 12 febbraio. Dal diario sono state chiaramente sottratte una o più pagine.
La prova? Claretta non scriveva tutti i giorni, ma quando lo faceva terminava sempre il racconto della giornata. Invece, come si può vedere, il foglio del 5 febbraio s’interrompe bruscamente, nel mezzo di una frase ("Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna. Poi dice: questi sanno..."). E riprende il 12 febbraio come se nulla fosse, con Mussolini che alle nove e tre quarti telefona a Claretta parlando della salma del papa che vuole andare ad omaggiare a San Pietro: “Vado con mia moglie. È bene anche per il mondo che lo faccia. Ma non farò tardi”. Quindi chi ha strappato i fogli ha lasciato involontariamente traccia della clamorosa manomissione.
Nei diari il duce parla di tutto con l’amante, anche di delicati argomenti politici. È sincero, si lascia andare come non fa neppure a casa propria. E lei riporta fedelmente, quasi maniacalmente, ogni sua frase.
Nelle settimane precedenti il dittatore si era scagliato più volte contro Pio XI, definendolo addirittura "una calamità, nefasto per la religione: peggio di questo papa in questo periodo non poteva capitare [...] Tu non sai il male che fa alla Chiesa. Fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e [ora] siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto" (8 ottobre '38).
E il giorno dopo, ancora più chiaro: "Porci ebrei, li ucciderò tutti". Anche Galeazzo Ciano nel suo diario scrive che Mussolini il 14 dicembre 1938 ebbe uno scatto d’ira contro il papa, di cui si augurò la morte.
Ma è possibile che Mussolini abbia fatto sopprimere Pio XI tramite il dottor Petacci? Quel che è quasi impossibile, è che nei diari di Claretta non si accenni mai alla vicenda. Soprattutto dati il ruolo di archiatra pontificio ricoperto dal padre e la familiarità che si era instaurata con Mussolini, al quale a sua volta Claretta raccontava le proprie vicende domestiche. Il duce s’interessava a Petacci, lo faceva scrivere sul Messaggero, voleva nominarlo senatore.
L’eliminazione delle pagine scottanti è quindi sicura. Difficile invece stabilire quando avvenne: prima che Claretta in fuga dal lago di Garda nell’aprile ‘45 consegnasse i diari all’amica contessa Rina Cervis? O dopo che furono ritrovati dai carabinieri, cinque anni più tardi, sotterrati nel giardino della contessa a Gardone (Brescia)?
E chi li purgò dei fogli ritenuti imbarazzanti? Claretta stessa, oppure le autorità italiane, oppure i servizi segreti alleati (americano, inglese), ai quali erano stati fatti leggere prima di seppellirli di nuovo per sette decenni nell’Archivio romano in nome della privacy.
L’unico e ultimo erede Petacci è il 70enne Ferdinando, figlio di Marcello (il fratello di Claretta ucciso a Dongo). Vive in Arizona e difende la memoria del nonno: “Perché avrebbe dovuto uccidere un amico che curava da quand’era cardinale, e che per lui era una gallina dalle uova d'oro, la massima referenza? Per fare un favore a Mussolini?”.
Mauro Suttora
Wednesday, May 16, 2012
Olimpiadi Londra: -70 giorni
Londra, 6 maggio 2012
dall'inviato Mauro Suttora
Mancano dieci settimane alle Olimpiadi di Londra, ma con puntualità ed efficienza britanniche tutto è già pronto. Così, per la prima volta lo scorso fine settimana i principali impianti sono stati aperti: lo stadio dell’atletica per i campionati universitari britannici, quello della pallanuoto per un quadrangolare femminile Gran Bretagna-Stati Uniti-Australia-Ungheria (le squadre si riaffronteranno dal 28 luglio, con l’Italia fra le favorite), e poi tennis, tiro con l’arco e hockey.
Arriviamo al parco olimpico di Stratford (comune della Grande Londra a dieci km. dal centro) in sei minuti dalla stazione di St. Pancras con il treno veloce Javelin costruito apposta, che poi prosegue per Canterbury e Dover. Ci sono anche due linee di metropolitana.
Centro commerciale annesso
Migliaia di londinesi si riversano con disciplinata allegria negli stadi. Per raggiungerli bisogna passare attraverso un nuovo centro commerciale: un modo per rientrare nei costi, già aumentati da nove a 14 miliardi.
Abbiamo sperimentato per primi sabato i controlli ai cancelli della zona olimpica: simili a quelli degli aeroporti, anche qui non si possono introdurre liquidi. Al varco ci imbattiamo per caso in Sir Sebastian Coe, indimenticabile medaglia d’oro del mezzofondo a Mosca 1980 e Los Angeles ‘84, poi datosi alla politica (conservatore), nominato Lord e oggi capo del Comitato organizzatore.
In Italia arriverebbe in auto blu, scortato da gorilla. Qui si aggira a piedi con la tessera di riconoscimento al collo come tutti, con su scritto «guest» (ospite) e solo dopo la specificazione «chairman» (presidente). Accetta sorridente di fermarsi per una foto, parla italiano.
Fra gli eventi collaterali c’è il sorteggio dei gironi di pallanuoto. In quella maschile gli italiani campioni del mondo sono testa di serie con i serbi. Accompagniamo alla cerimonia Sandro Campagna, ct della nazionale. È presente il gotha degli sport acquatici mondiali: tutti i dirigenti dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina al presidente della federazione internazionale Julio Maglione, uruguaiano. Segretario è Paolo Barelli, campione di nuoto anni 70, olimpionico a Monaco e Montreal, oggi senatore Pdl. Dirige il sorteggio un’altra vecchia gloria: Gianni Lonzi, oro del Settebello a Roma ’60.
Sono tutte qua, le leggende viventi dell’ultimo mezzo secolo. Compreso Ratko Rudic, allenatore di Campagna nella nostra nazionale che trionfò a Barcellona ’92, unico ct al mondo ad aver conquistato l’oro con squadre diverse (prima con la Jugoslavia). Ora ci riprova con la Croazia. Chiediamo a Compagna: che squadra spera di evitare? «Montenegro». Accontentato: è finito nell’altro girone.
Intanto, Londra si prepara. Non che una grande metropoli abbia bisogno di un’Olimpiade per accendersi, com’è stato per Pechino. Ma c’è egualmente entusiasmo: sono ben 70 mila i volontari, anche di una certa età, che già in questi giorni hanno diretto il traffico pedonale, controllato le borse degli spettatori ed effettuato altri compiti nella grande prova generale.
Unica preoccupazione: i terroristi
Un giornalista del quotidiano Sun ha sbeffeggiato i controlli portando dell’esplosivo nella zona protetta. Ma sono ben 23 mila gli agenti e soldati che dal 27 luglio al 12 agosto veglieranno sui 10 mila atleti da 200 nazioni (330 italiani) e i seimila giornalisti che daranno vita al più grande spettacolo del mondo: 900 medagli da assegnare in 26 sport.
Capita solo una volta ogni quattro anni, Londra è immune da attacchi terroristici dal 2005, ma la preoccupazione è palpabile. Sul Tamigi si è ancorata la più grande nave da guerra inglese, una portaelicotteri. Speriamo che rimanga inattiva...
Mauro Suttora
dall'inviato Mauro Suttora
Mancano dieci settimane alle Olimpiadi di Londra, ma con puntualità ed efficienza britanniche tutto è già pronto. Così, per la prima volta lo scorso fine settimana i principali impianti sono stati aperti: lo stadio dell’atletica per i campionati universitari britannici, quello della pallanuoto per un quadrangolare femminile Gran Bretagna-Stati Uniti-Australia-Ungheria (le squadre si riaffronteranno dal 28 luglio, con l’Italia fra le favorite), e poi tennis, tiro con l’arco e hockey.
Arriviamo al parco olimpico di Stratford (comune della Grande Londra a dieci km. dal centro) in sei minuti dalla stazione di St. Pancras con il treno veloce Javelin costruito apposta, che poi prosegue per Canterbury e Dover. Ci sono anche due linee di metropolitana.
Centro commerciale annesso
Migliaia di londinesi si riversano con disciplinata allegria negli stadi. Per raggiungerli bisogna passare attraverso un nuovo centro commerciale: un modo per rientrare nei costi, già aumentati da nove a 14 miliardi.
Abbiamo sperimentato per primi sabato i controlli ai cancelli della zona olimpica: simili a quelli degli aeroporti, anche qui non si possono introdurre liquidi. Al varco ci imbattiamo per caso in Sir Sebastian Coe, indimenticabile medaglia d’oro del mezzofondo a Mosca 1980 e Los Angeles ‘84, poi datosi alla politica (conservatore), nominato Lord e oggi capo del Comitato organizzatore.
In Italia arriverebbe in auto blu, scortato da gorilla. Qui si aggira a piedi con la tessera di riconoscimento al collo come tutti, con su scritto «guest» (ospite) e solo dopo la specificazione «chairman» (presidente). Accetta sorridente di fermarsi per una foto, parla italiano.
Fra gli eventi collaterali c’è il sorteggio dei gironi di pallanuoto. In quella maschile gli italiani campioni del mondo sono testa di serie con i serbi. Accompagniamo alla cerimonia Sandro Campagna, ct della nazionale. È presente il gotha degli sport acquatici mondiali: tutti i dirigenti dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina al presidente della federazione internazionale Julio Maglione, uruguaiano. Segretario è Paolo Barelli, campione di nuoto anni 70, olimpionico a Monaco e Montreal, oggi senatore Pdl. Dirige il sorteggio un’altra vecchia gloria: Gianni Lonzi, oro del Settebello a Roma ’60.
Sono tutte qua, le leggende viventi dell’ultimo mezzo secolo. Compreso Ratko Rudic, allenatore di Campagna nella nostra nazionale che trionfò a Barcellona ’92, unico ct al mondo ad aver conquistato l’oro con squadre diverse (prima con la Jugoslavia). Ora ci riprova con la Croazia. Chiediamo a Compagna: che squadra spera di evitare? «Montenegro». Accontentato: è finito nell’altro girone.
Intanto, Londra si prepara. Non che una grande metropoli abbia bisogno di un’Olimpiade per accendersi, com’è stato per Pechino. Ma c’è egualmente entusiasmo: sono ben 70 mila i volontari, anche di una certa età, che già in questi giorni hanno diretto il traffico pedonale, controllato le borse degli spettatori ed effettuato altri compiti nella grande prova generale.
Unica preoccupazione: i terroristi
Un giornalista del quotidiano Sun ha sbeffeggiato i controlli portando dell’esplosivo nella zona protetta. Ma sono ben 23 mila gli agenti e soldati che dal 27 luglio al 12 agosto veglieranno sui 10 mila atleti da 200 nazioni (330 italiani) e i seimila giornalisti che daranno vita al più grande spettacolo del mondo: 900 medagli da assegnare in 26 sport.
Capita solo una volta ogni quattro anni, Londra è immune da attacchi terroristici dal 2005, ma la preoccupazione è palpabile. Sul Tamigi si è ancorata la più grande nave da guerra inglese, una portaelicotteri. Speriamo che rimanga inattiva...
Mauro Suttora
Monday, April 30, 2012
Parla il Grillo furioso
67 COMIZI IN 25 GIORNI: IL COMICO GENOVESE E' L'UNICO LEADER NAZIONALE CHE STA FACENDO CAMPAGNA ELETTORALE PER IL VOTO DEL 6 MAGGIO. ECCO COSA DICE
dal nostro inviato a Palazzolo (Brescia) Mauro Suttora - foto di Maki Galimberti
Oggi, 24 aprile 2012
«Sì, toccatemi! Così vi tolgo un po’ del debito che avete addosso…»
Arriva Beppe Grillo per un comizio a Palazzolo sull’Oglio, paese al confine fra Bergamo e Brescia. È il terzo di oggi: prima è stato ad Arese (Milano) dagli operai dell’ex Alfa Romeo smantellata, poi andrà a Desenzano sul Garda.
Entusiasmo fra i 300 che lo circondano sul prato del parco comunale.
Grillo è l’unico leader politico italiano che sta facendo campagna elettorale con comizi in tutti i paesi e città dove si vota il 6 maggio. Il suo tour in camper dura 25 giorni con 67 tappe, dal Piemonte alla Sicilia.
L’esordio comico è da applauso garantito: «Cittadini di Palazzolo, voi avete regalato natali illustri al Paese, avete partorito soggetti importanti: Maurizio Belpietro, Luisa Corna, che pare sia responsabile di qualcosa…»
Non ha paura che succeda a lei qualcosa? È senza scorta, ai suoi comizi non c’è polizia, solo qualche vigile urbano.
«Gli agenti sono già troppo occupati, li costringono a scortare i magnaccia della politica. Qualcosa faranno, certo qualcosa inventeranno. Magari con qualche trucco rimanderanno le elezioni politiche. Io sono sotto processo per diffamazione. E i giornalisti continuano ad accusarmi: sono un miliardario, avevo una Ferrari vent’anni fa…
La settimana scorsa ero a Fabriano, l’Ansa è uscita con un comunicato: clamoroso, Grillo ha parcheggiato il suo camper contromano! Ma è una notizia? Cosa scriveranno adesso, che sul camper ho scoreggiato?»
Per i sondaggi ora siete il terzo partito.
«Non è vero che siamo il terzo partito, siamo il primo movimento. Hanno scoperto che abbiamo il sette per cento, l’otto, forse il dieci? Ma a me non interessa, so solo che gli altri partiti sono già scomparsi: il 92 per cento li manda aff…. Noi su Facebook siamo 800 mila, e ognuno di questi ha 50 amici: siamo quattro milioni».
Facile attaccare i partiti, adesso.
«Sì, dicono che sono un demagogo, imbonitore, populista… Ma il male se lo fanno da soli, io non invento nulla. Basta leggere i giornali ogni mattina. Ora Rigor Montis, o Mortis, fa politica col the: invita i segretari di partito a prendere i pasticcini. Alfano: con quegli occhi non sai dove guardarlo, ti viene la labirintite… Casini, l’Anthony Perkins delle vecchie mignotte: quando il suo Cuffaro presidente della Sicilia era processato disse: “Se lo condannano, dò le dimissioni”. Quello ora è in carcere, lui è ancora lì. Bersani: meglio fare le punte a un riccio. Vuole fare gestire l’acqua alle multinazionali. No, no, tutta questa gente è finita. Scaroni, il capo dell’Eni, che decide la nostra politica energetica è uno che ha patteggiato un anno e quattro mesi per le tangenti che aveva dato al Psi».
Sul finanziamento pubblico le stanno facendo un regalo grosso così.
«Ora qualcuno propone che i partiti rinuncino almeno alla fetta di 180 milioni di luglio. Ma è saltato subito su il tesoriere del Pd che ha detto: “Siete pazzi? Quei soldi ce li siamo già mangiati”. Perché quelli ancora prima di prendere i soldi se li fanno scontare in banca. Provate voi ad andare in banca a farvi scontare qualcosa».
Un politico che salva? Vendola?
«Ma se parla male di me tutti i giorni! Eppure in Puglia l’avevo aiutato. Poi, appena eletto, va a dare 140 milioni di euro a don Verzè, vuole privatizzare l’acquedotto pugliese e fa cinque inceneritori. No, è il sistema che è tutto marcio. Tanto vale fare come in Belgio: sono rimasti due anni senza governo, è andata benissimo.
L’Islanda era andata in bancarotta? Ha chiuso le banche, non hanno pagato gli arretrati alle banche straniere. Facciamo anche noi così. Le banche francesi hanno 300 miliardi dei nostri debiti? Non ve li paghiamo più, peggio per voi. Come succede a tutti noi quando perdiamo in Borsa: nessuno ci ridà i soldi se le azioni vanno giù».
È vero che mira ai voti della Lega?
«Il tour elettorale lo faccio in tutta Italia, non solo al Nord. I capi leghisti sembrano quelli dell’ultima scena del film Le Iene di Tarantino, quando si sparano fra loro. Vorrei avere io un tesoriere come Belsito, quello aveva già capito tutto: l’euro va a puttane, quindi investo in oro, diamanti e Tanzania…»
Ma quando critica le tasse o la cittadinanza automatica per i figli degli immigrati, non strizza l’occhio agli elettori leghisti?
«Lo dico chiaro: pagare le tasse è la cosa più giusta del mondo, bisogna farlo. Il problema è che i nostri politici, i responsabili del nostro debito, quelli che lo hanno creato, si giustificano dicendo: i conti vanno male perché ci sono gli evasori. Ma anche se pagassimo il doppio, loro ruberebbero il doppio.
Quindi: le tasse vanno pagate, ma stabilendo prima la destinazione d’uso. Lo devono dire prima, se con i nostri soldi vogliono comprare aerei da guerra o fare Tav che costano il triplo che in Francia e Spagna. Da anni chiediamo i “bilanci partecipativi” nei comuni e nelle regioni. Altrimenti avremo sempre il costo del lavoro più alto d’Europa, ma gli stipendi più bassi».
Quindi nessun appello contro le tasse?
«I disastri li combinano da soli, ogni giorno ne inventano una nuova. L’Imu, per esempio. Il mio commercialista è dovuto andare in analisi: si paga in due rate, no in tre, però non si sa ancora quanto, poi magari ci sarà un conguaglio… Ho visto la dichiarazione dei redditi di un operaio in Danimarca: due paginette, se la compila da solo, non deve dare soldi al patronato per farsi aiutare».
Come finanziare la politica?
«Come noi: niente soldi pubblici, niente sedi, niente funzionari da pagare. Tutto in rete. Tutti volontari, con sottoscrizioni. Dopo le regionali del 2010 avevamo diritto a un milione e 700 mila euro di rimborso elettorale. Non l’abbiamo preso, è tornato allo stato. Ai nostri quattro consiglieri regionali eletti in Piemonte ed Emilia ho fatto un corso di economia genovese. Si sono autoridotti lo stipendio, invece di prendere 12 mila al mese vivono benissimo con 2.500.
Andiamo avanti con l’entusiasmo, io faccio queste serate e non paga nessuno. È la forza delle nostre idee, altro che le “ideone” che non vengono al ministro Passera. Siamo come il partito dei Pirati in Germania, ragazzi di vent’anni che sono arrivati al dieci per cento. Il nostro consigliere comunale appena eletto a Milano, Mattia Calise, ha 21 anni. È troppo giovane, è inesperto? Certo, non sa ancora come rubare e truccare i bilanci…»
Ha una ricetta contro la crisi?
«Intanto c’è un dato da toccarsi i co…: 170 mila imprese hanno chiuso negli ultimi mesi. Questi pensano al rialzo dello spread, ma e il tasso di suicidio che aumenta. Dobbiamo essere veloci, perché se continua così in un anno falliscono 600 mila aziende. Ma ci sono, 600 mila aziende in Italia? Altro che Grecia.
Questi politici hanno rovinato due generazioni, che dovranno ripagare il debito. Non si accorgono che sta arrivando uno tsunami di disperazione».
Quindi?
«Noi diciamo: cambiare totalmente la classe politica. E poi buona amministrazione, risparmio, efficienza energetica, raccolta differenziata dei rifiuti. Perché, per esempio, Palazzolo è al 40 per cento della differenziata, mentre i paesi vicini sono al 70? Perché perfino le aziende della nettezza urbana e le municipalizzate le hanno ridotte a poltronifici?»
Il vostro sarà il classico voto di protesta. Un tempo gli scontenti, se non si astenevano, votavano radicale o Lega. Ma che garanzie danno i vostri candidati?
«Sono cittadini incensurati, il che in Italia per chi fa politica è già molto. E non sono professionisti della politica: fanno due mandati, poi a casa. Non come Formigoni, che è al quarto mandato mentre per legge non dovrebbe superarne due. E il Pd che non può dire niente, perché anche il suo Errani in Emilia è al terzo.
Noi invece a Desenzano candidiamo sindaco una bibliotecaria, e nelle liste abbiamo gente che lavora: cuochi, elettricisti, tecnici informatici. In ogni caso, meglio un salto nel buio con il movimento Cinque stelle che il suicidio assistito con gli altri».
Mauro Suttora
dal nostro inviato a Palazzolo (Brescia) Mauro Suttora - foto di Maki Galimberti
Oggi, 24 aprile 2012
«Sì, toccatemi! Così vi tolgo un po’ del debito che avete addosso…»
Arriva Beppe Grillo per un comizio a Palazzolo sull’Oglio, paese al confine fra Bergamo e Brescia. È il terzo di oggi: prima è stato ad Arese (Milano) dagli operai dell’ex Alfa Romeo smantellata, poi andrà a Desenzano sul Garda.
Entusiasmo fra i 300 che lo circondano sul prato del parco comunale.
Grillo è l’unico leader politico italiano che sta facendo campagna elettorale con comizi in tutti i paesi e città dove si vota il 6 maggio. Il suo tour in camper dura 25 giorni con 67 tappe, dal Piemonte alla Sicilia.
L’esordio comico è da applauso garantito: «Cittadini di Palazzolo, voi avete regalato natali illustri al Paese, avete partorito soggetti importanti: Maurizio Belpietro, Luisa Corna, che pare sia responsabile di qualcosa…»
Non ha paura che succeda a lei qualcosa? È senza scorta, ai suoi comizi non c’è polizia, solo qualche vigile urbano.
«Gli agenti sono già troppo occupati, li costringono a scortare i magnaccia della politica. Qualcosa faranno, certo qualcosa inventeranno. Magari con qualche trucco rimanderanno le elezioni politiche. Io sono sotto processo per diffamazione. E i giornalisti continuano ad accusarmi: sono un miliardario, avevo una Ferrari vent’anni fa…
La settimana scorsa ero a Fabriano, l’Ansa è uscita con un comunicato: clamoroso, Grillo ha parcheggiato il suo camper contromano! Ma è una notizia? Cosa scriveranno adesso, che sul camper ho scoreggiato?»
Per i sondaggi ora siete il terzo partito.
«Non è vero che siamo il terzo partito, siamo il primo movimento. Hanno scoperto che abbiamo il sette per cento, l’otto, forse il dieci? Ma a me non interessa, so solo che gli altri partiti sono già scomparsi: il 92 per cento li manda aff…. Noi su Facebook siamo 800 mila, e ognuno di questi ha 50 amici: siamo quattro milioni».
Facile attaccare i partiti, adesso.
«Sì, dicono che sono un demagogo, imbonitore, populista… Ma il male se lo fanno da soli, io non invento nulla. Basta leggere i giornali ogni mattina. Ora Rigor Montis, o Mortis, fa politica col the: invita i segretari di partito a prendere i pasticcini. Alfano: con quegli occhi non sai dove guardarlo, ti viene la labirintite… Casini, l’Anthony Perkins delle vecchie mignotte: quando il suo Cuffaro presidente della Sicilia era processato disse: “Se lo condannano, dò le dimissioni”. Quello ora è in carcere, lui è ancora lì. Bersani: meglio fare le punte a un riccio. Vuole fare gestire l’acqua alle multinazionali. No, no, tutta questa gente è finita. Scaroni, il capo dell’Eni, che decide la nostra politica energetica è uno che ha patteggiato un anno e quattro mesi per le tangenti che aveva dato al Psi».
Sul finanziamento pubblico le stanno facendo un regalo grosso così.
«Ora qualcuno propone che i partiti rinuncino almeno alla fetta di 180 milioni di luglio. Ma è saltato subito su il tesoriere del Pd che ha detto: “Siete pazzi? Quei soldi ce li siamo già mangiati”. Perché quelli ancora prima di prendere i soldi se li fanno scontare in banca. Provate voi ad andare in banca a farvi scontare qualcosa».
Un politico che salva? Vendola?
«Ma se parla male di me tutti i giorni! Eppure in Puglia l’avevo aiutato. Poi, appena eletto, va a dare 140 milioni di euro a don Verzè, vuole privatizzare l’acquedotto pugliese e fa cinque inceneritori. No, è il sistema che è tutto marcio. Tanto vale fare come in Belgio: sono rimasti due anni senza governo, è andata benissimo.
L’Islanda era andata in bancarotta? Ha chiuso le banche, non hanno pagato gli arretrati alle banche straniere. Facciamo anche noi così. Le banche francesi hanno 300 miliardi dei nostri debiti? Non ve li paghiamo più, peggio per voi. Come succede a tutti noi quando perdiamo in Borsa: nessuno ci ridà i soldi se le azioni vanno giù».
È vero che mira ai voti della Lega?
«Il tour elettorale lo faccio in tutta Italia, non solo al Nord. I capi leghisti sembrano quelli dell’ultima scena del film Le Iene di Tarantino, quando si sparano fra loro. Vorrei avere io un tesoriere come Belsito, quello aveva già capito tutto: l’euro va a puttane, quindi investo in oro, diamanti e Tanzania…»
Ma quando critica le tasse o la cittadinanza automatica per i figli degli immigrati, non strizza l’occhio agli elettori leghisti?
«Lo dico chiaro: pagare le tasse è la cosa più giusta del mondo, bisogna farlo. Il problema è che i nostri politici, i responsabili del nostro debito, quelli che lo hanno creato, si giustificano dicendo: i conti vanno male perché ci sono gli evasori. Ma anche se pagassimo il doppio, loro ruberebbero il doppio.
Quindi: le tasse vanno pagate, ma stabilendo prima la destinazione d’uso. Lo devono dire prima, se con i nostri soldi vogliono comprare aerei da guerra o fare Tav che costano il triplo che in Francia e Spagna. Da anni chiediamo i “bilanci partecipativi” nei comuni e nelle regioni. Altrimenti avremo sempre il costo del lavoro più alto d’Europa, ma gli stipendi più bassi».
Quindi nessun appello contro le tasse?
«I disastri li combinano da soli, ogni giorno ne inventano una nuova. L’Imu, per esempio. Il mio commercialista è dovuto andare in analisi: si paga in due rate, no in tre, però non si sa ancora quanto, poi magari ci sarà un conguaglio… Ho visto la dichiarazione dei redditi di un operaio in Danimarca: due paginette, se la compila da solo, non deve dare soldi al patronato per farsi aiutare».
Come finanziare la politica?
«Come noi: niente soldi pubblici, niente sedi, niente funzionari da pagare. Tutto in rete. Tutti volontari, con sottoscrizioni. Dopo le regionali del 2010 avevamo diritto a un milione e 700 mila euro di rimborso elettorale. Non l’abbiamo preso, è tornato allo stato. Ai nostri quattro consiglieri regionali eletti in Piemonte ed Emilia ho fatto un corso di economia genovese. Si sono autoridotti lo stipendio, invece di prendere 12 mila al mese vivono benissimo con 2.500.
Andiamo avanti con l’entusiasmo, io faccio queste serate e non paga nessuno. È la forza delle nostre idee, altro che le “ideone” che non vengono al ministro Passera. Siamo come il partito dei Pirati in Germania, ragazzi di vent’anni che sono arrivati al dieci per cento. Il nostro consigliere comunale appena eletto a Milano, Mattia Calise, ha 21 anni. È troppo giovane, è inesperto? Certo, non sa ancora come rubare e truccare i bilanci…»
Ha una ricetta contro la crisi?
«Intanto c’è un dato da toccarsi i co…: 170 mila imprese hanno chiuso negli ultimi mesi. Questi pensano al rialzo dello spread, ma e il tasso di suicidio che aumenta. Dobbiamo essere veloci, perché se continua così in un anno falliscono 600 mila aziende. Ma ci sono, 600 mila aziende in Italia? Altro che Grecia.
Questi politici hanno rovinato due generazioni, che dovranno ripagare il debito. Non si accorgono che sta arrivando uno tsunami di disperazione».
Quindi?
«Noi diciamo: cambiare totalmente la classe politica. E poi buona amministrazione, risparmio, efficienza energetica, raccolta differenziata dei rifiuti. Perché, per esempio, Palazzolo è al 40 per cento della differenziata, mentre i paesi vicini sono al 70? Perché perfino le aziende della nettezza urbana e le municipalizzate le hanno ridotte a poltronifici?»
Il vostro sarà il classico voto di protesta. Un tempo gli scontenti, se non si astenevano, votavano radicale o Lega. Ma che garanzie danno i vostri candidati?
«Sono cittadini incensurati, il che in Italia per chi fa politica è già molto. E non sono professionisti della politica: fanno due mandati, poi a casa. Non come Formigoni, che è al quarto mandato mentre per legge non dovrebbe superarne due. E il Pd che non può dire niente, perché anche il suo Errani in Emilia è al terzo.
Noi invece a Desenzano candidiamo sindaco una bibliotecaria, e nelle liste abbiamo gente che lavora: cuochi, elettricisti, tecnici informatici. In ogni caso, meglio un salto nel buio con il movimento Cinque stelle che il suicidio assistito con gli altri».
Mauro Suttora
Wednesday, April 25, 2012
Artisti rockstar
I TRUCCHI PER CREARE DIVI DA MILIONI DI DOLLARI: HIRST, CATTELAN, KOONS (E DALI', WARHOL, BASQUIAT)
Oggi, 18 aprile 2012
di Mauro Suttora
«Per Damien Hirst si può parlare di “grande truffa dell’arte”: una colossale messinscena mediatica, capace di cavalcare l’onda della cronaca con operazioni a effetto».
«Maurizio Cattelan è la prova vivente che un fallito può farcela più di un mediocre, che un pigro la spunta su un iperattivo, e che l’artista stupido è preferibile al presunto genio».
Non le manda a dire il critico d’arte Luca Beatrice nel suo nuovo libro: Pop, l’invenzione dell’artista come star (Rizzoli). Dove esamina a fondo e spiega il successo dei più importanti artisti contemporanei, partendo dagli scomparsi Salvador Dalì, Andy Warhol e Michel Basquiat, per arrivare alle tre superstar dei nostri giorni: Jeff Koons, Hirst e Cattelan.
Tutti accomunati da quotazioni milionarie e da un gusto per la provocazione continua. Hirst in questi giorni è massacrato da critici di tutto il mondo, in occasione della sua mostra retrospettiva (70 opere per 30 anni di carriera) al museo Tate Modern di Londra, aperta in previsione delle Olimpiadi e fino al 9 settembre: «Non è arte», «È solo uno speculatore», «È il re del plagio», «Non crea lui le sue opere, le fa fare da altri».
Risultato: biglietti (da 14 sterline) a ruba, obbligo di prenotazione anticipata. «Non c’è miglior pubblicità della cattiva pubblicità» è regola di marketing, e Hirst sa che fa parte del gioco: «Elvis Presley ha guadagnato tanti soldi sia dalle t-shirt con su scritto “Amo Elvis” sia con quelle “Odio Elvis”, e questa idea mi è sempre piaciuta», sorride il furbacchione.
«Basso, tarchiatello, dalla fisiognomica tipica del bad boy proveniente dalla working class», scrive Beatrice, «Hirst non ha per nulla il physique du role dell’artista predestinato al successo. Eppure è riuscito a tracciare la strada verso la gloria. Oggi gli artisti hanno sostituito le rock star in rapida e inesorabile estinzione».
Lanciato dal pubblicitario Charles Saatchi, Hirst è passato dallo squalo (vero) conservato sotto formaldeide e valutato 12 milioni di euro al teschio tempestato di diamanti del 2007 che ha battuto ogni record di quotazione: 78 milioni.
«Sviluppare un marchio così forte su un’arte così povera è qualcosa di immensamente creativo, addirittura rivoluzionario»: così la femminista australiana Germaine Greer loda la cialtronaggine.
L’unico accenno di normalità di Hirst sta nella vita familiare. La compagna californiana Maia Norman, stilista, surfista e ciclista, fa l’uomo di casa che prende le decisioni. Lui preferisce dedicarsi alla passione per i fornelli, e cucinare per i tre figli maschi: Connor, Cassius e Cyrus.
Cattelan baby pensionato a 51 anni?
«Basta, mi ritiro». Alla vigilia della definitiva consacrazione mondiale nel super gotha dell’arte, con la mostra al Guggenheim di New York dell’autunno 2011, Cattelan ha annunciato il suo addio alle scene. «E, come Veronica Lario, sceglie la Repubblica per diffondere la clamorosa decisione», commenta perfido Beatrice. Il quale ovviamente non crede al ritiro della nostra maggiore star artistica, annunciato guarda caso il 1° aprile.
Cattelan approda al successo con la Biennale di Venezia del 1993. Per farsi notare inventa un gesto clamoroso: affitta il “suo” spazio a un’azienda di cosmetici che pubblicizzava uno dei suoi prodotti. Però lo firma, titolandolo Lavorare è un brutto mestiere.
Da allora, passando per papi atterrati, bimbi impiccati e diti medi che mandano aff... la Borsa di Milano, Cattelan non ha mai smesso di far parlare di sé. E di far alzare le quotazioni.
«Lui e Berlusconi sono due facce della stessa medaglia», decreta Beatrice, «personaggi controversi che annoverano fan entusiasti e feroci detrattori, icone italiche degli ultimi vent’anni. Cattelan è frutto dell’antiarte: niente scuola, nessuna accademia, furbissimo, capisce che nell’arte contemporanea bisogna picchiare sodo, provocare, inseguire la notizia. L’altro è figlio dell’antipolitica, pratica l’incoerenza come valore assoluto, leader dei conservatori e moderati che però nei comportamenti pubblici e privati rasenta il modello irriverente e irregolare delle rockstar».
Fidanzato con la collega Vanessa Beecroft, Cattelan poi è stato per qualche tempo con la conduttrice tv Victoria Cabello di 15 anni più giovane, che gli ha permesso di “scollinare” dalle riviste d’arte ai magazine di gossip: per la prima volta ha avuto a che fare con un tipo più mediatico di lui. Non è durata molto.
PRECURSORI DECADENTI A NEW YORK
Beatrice individua in Dalì e Warhol i precursori dell’attuale tendenza a far diventare personaggi gli artisti, al di là della loro arte: «Uno slogan di Warhol è “Pensare da ricco, sembrare povero”. Mette a punto un’invenzione di Dalì: uno stile diventa tale quando viene diffuso dai media (stampa, foto, tv). L’artista, oltre alle opere, deve creare una propria immagine, quindi dal 1963 chiama nel suo studio newyorkese vari fotografi per raccontare la sua banale quotidianità. Posa con l’abilità consumata di un divo, è un guru che detta le proprie regole alla moda degli Anni 60».
Fra le sue tante «muse» (maschi e femmine, da Lou Reed a Nico), il gay decadente Warhol incontra nel 1981 anche Loredana Berté. La conosce nel negozio Fiorucci a Manhattan, la soprannomina Pasta Queen per l’abilità culinaria, e realizza un video per il suo disco Made in Italy.
Basquiat, il graffitaro maledetto
Un anno dopo la morte di Warhol nel 1987, per i postumi di un banale intervento alla cistifellea, scompare ancora più prematuramente nella stessa New York Jean-Michel Basquiat. Entra anche lui nel “club dei 27” (uccisi dall’eroina a quell’età) con Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Kurt Cobain, di recente Amy Winehouse.
«Basquiat è il primo artista di colore a diventare famoso a livello internazionale», afferma Beatrice, «e l’unico a essere riconosciuto come celebrità da un pubblico ben più ampio di quello dell’arte. Prima della sua straordinaria inventiva e originalità pittorica, ciò che affascina il pubblico giovane è la vicenda biografica, ribelle e autodistruttiva [...]. Le sue donne sono tutte bianche e in gran parte bionde. Nell’82 Madonna diventa la sua amante fissa».
Ma dopo pochi mesi la cantante si stufa: lui si droga e dorme di pomeriggio, lei vive con disciplina rosicchiando carote.
E Jeff sposa la pornostar
Stessa città, New York. Stessa epoca, Anni 80. A poche decine di metri da Basquiat vive Jeff Koons. Ma è agli antipodi dei mondi di Warhol e Basquiat: «Lui sostituisce il disincanto con il cinismo, l’economia con la finanza», scrive Beatrice. «Koons è considerato l’artista americano più “compromesso” con affari e quattrini. Nel suo studio di 1.400 metri quadri a Chelsea ha 40 dipendenti. Assomiglia a un ufficio commerciale. Koons è noto per la precisione maniacale: un perfezionista al di là di ogni ragionevole limite che controlla tutti i minimi dettagli. Le sue opere raggiungono i 25 milioni di dollari.
Tuttavia non avrebbe mai ottenuto l’ampia popolarità che oggi gli viene riconosciuta senza l’incontro con Ilona Staller, la Cicciolina “fondatrice” della pornografia moderna, immortalata in una serie di opere, sposata nel 1991. Infine il brusco e violento divorzio, e la triste disputa sull’affidamento del figlio».
«Innocenza machiavellica» è l’ossimoro più efficace, coniato dall’archistar Rem Koolhaas, per descrivere Jeff Koons. «Ormai è presente nelle collezioni dei maggiori musei del mondo», spiega Beatrice, «ma attira ancora, come tutti i grandi, odii e simpatie in egual misura. Il messaggio della sua opera è ambiguo: c’è una dosata e astuta combinazione fra calcolo e autenticità, tattica e cinismo, persuasione occulta e spiritualismo».
Mauro Suttora
Oggi, 18 aprile 2012
di Mauro Suttora
«Per Damien Hirst si può parlare di “grande truffa dell’arte”: una colossale messinscena mediatica, capace di cavalcare l’onda della cronaca con operazioni a effetto».
«Maurizio Cattelan è la prova vivente che un fallito può farcela più di un mediocre, che un pigro la spunta su un iperattivo, e che l’artista stupido è preferibile al presunto genio».
Non le manda a dire il critico d’arte Luca Beatrice nel suo nuovo libro: Pop, l’invenzione dell’artista come star (Rizzoli). Dove esamina a fondo e spiega il successo dei più importanti artisti contemporanei, partendo dagli scomparsi Salvador Dalì, Andy Warhol e Michel Basquiat, per arrivare alle tre superstar dei nostri giorni: Jeff Koons, Hirst e Cattelan.
Tutti accomunati da quotazioni milionarie e da un gusto per la provocazione continua. Hirst in questi giorni è massacrato da critici di tutto il mondo, in occasione della sua mostra retrospettiva (70 opere per 30 anni di carriera) al museo Tate Modern di Londra, aperta in previsione delle Olimpiadi e fino al 9 settembre: «Non è arte», «È solo uno speculatore», «È il re del plagio», «Non crea lui le sue opere, le fa fare da altri».
Risultato: biglietti (da 14 sterline) a ruba, obbligo di prenotazione anticipata. «Non c’è miglior pubblicità della cattiva pubblicità» è regola di marketing, e Hirst sa che fa parte del gioco: «Elvis Presley ha guadagnato tanti soldi sia dalle t-shirt con su scritto “Amo Elvis” sia con quelle “Odio Elvis”, e questa idea mi è sempre piaciuta», sorride il furbacchione.
«Basso, tarchiatello, dalla fisiognomica tipica del bad boy proveniente dalla working class», scrive Beatrice, «Hirst non ha per nulla il physique du role dell’artista predestinato al successo. Eppure è riuscito a tracciare la strada verso la gloria. Oggi gli artisti hanno sostituito le rock star in rapida e inesorabile estinzione».
Lanciato dal pubblicitario Charles Saatchi, Hirst è passato dallo squalo (vero) conservato sotto formaldeide e valutato 12 milioni di euro al teschio tempestato di diamanti del 2007 che ha battuto ogni record di quotazione: 78 milioni.
«Sviluppare un marchio così forte su un’arte così povera è qualcosa di immensamente creativo, addirittura rivoluzionario»: così la femminista australiana Germaine Greer loda la cialtronaggine.
L’unico accenno di normalità di Hirst sta nella vita familiare. La compagna californiana Maia Norman, stilista, surfista e ciclista, fa l’uomo di casa che prende le decisioni. Lui preferisce dedicarsi alla passione per i fornelli, e cucinare per i tre figli maschi: Connor, Cassius e Cyrus.
Cattelan baby pensionato a 51 anni?
«Basta, mi ritiro». Alla vigilia della definitiva consacrazione mondiale nel super gotha dell’arte, con la mostra al Guggenheim di New York dell’autunno 2011, Cattelan ha annunciato il suo addio alle scene. «E, come Veronica Lario, sceglie la Repubblica per diffondere la clamorosa decisione», commenta perfido Beatrice. Il quale ovviamente non crede al ritiro della nostra maggiore star artistica, annunciato guarda caso il 1° aprile.
Cattelan approda al successo con la Biennale di Venezia del 1993. Per farsi notare inventa un gesto clamoroso: affitta il “suo” spazio a un’azienda di cosmetici che pubblicizzava uno dei suoi prodotti. Però lo firma, titolandolo Lavorare è un brutto mestiere.
Da allora, passando per papi atterrati, bimbi impiccati e diti medi che mandano aff... la Borsa di Milano, Cattelan non ha mai smesso di far parlare di sé. E di far alzare le quotazioni.
«Lui e Berlusconi sono due facce della stessa medaglia», decreta Beatrice, «personaggi controversi che annoverano fan entusiasti e feroci detrattori, icone italiche degli ultimi vent’anni. Cattelan è frutto dell’antiarte: niente scuola, nessuna accademia, furbissimo, capisce che nell’arte contemporanea bisogna picchiare sodo, provocare, inseguire la notizia. L’altro è figlio dell’antipolitica, pratica l’incoerenza come valore assoluto, leader dei conservatori e moderati che però nei comportamenti pubblici e privati rasenta il modello irriverente e irregolare delle rockstar».
Fidanzato con la collega Vanessa Beecroft, Cattelan poi è stato per qualche tempo con la conduttrice tv Victoria Cabello di 15 anni più giovane, che gli ha permesso di “scollinare” dalle riviste d’arte ai magazine di gossip: per la prima volta ha avuto a che fare con un tipo più mediatico di lui. Non è durata molto.
PRECURSORI DECADENTI A NEW YORK
Beatrice individua in Dalì e Warhol i precursori dell’attuale tendenza a far diventare personaggi gli artisti, al di là della loro arte: «Uno slogan di Warhol è “Pensare da ricco, sembrare povero”. Mette a punto un’invenzione di Dalì: uno stile diventa tale quando viene diffuso dai media (stampa, foto, tv). L’artista, oltre alle opere, deve creare una propria immagine, quindi dal 1963 chiama nel suo studio newyorkese vari fotografi per raccontare la sua banale quotidianità. Posa con l’abilità consumata di un divo, è un guru che detta le proprie regole alla moda degli Anni 60».
Fra le sue tante «muse» (maschi e femmine, da Lou Reed a Nico), il gay decadente Warhol incontra nel 1981 anche Loredana Berté. La conosce nel negozio Fiorucci a Manhattan, la soprannomina Pasta Queen per l’abilità culinaria, e realizza un video per il suo disco Made in Italy.
Basquiat, il graffitaro maledetto
Un anno dopo la morte di Warhol nel 1987, per i postumi di un banale intervento alla cistifellea, scompare ancora più prematuramente nella stessa New York Jean-Michel Basquiat. Entra anche lui nel “club dei 27” (uccisi dall’eroina a quell’età) con Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Kurt Cobain, di recente Amy Winehouse.
«Basquiat è il primo artista di colore a diventare famoso a livello internazionale», afferma Beatrice, «e l’unico a essere riconosciuto come celebrità da un pubblico ben più ampio di quello dell’arte. Prima della sua straordinaria inventiva e originalità pittorica, ciò che affascina il pubblico giovane è la vicenda biografica, ribelle e autodistruttiva [...]. Le sue donne sono tutte bianche e in gran parte bionde. Nell’82 Madonna diventa la sua amante fissa».
Ma dopo pochi mesi la cantante si stufa: lui si droga e dorme di pomeriggio, lei vive con disciplina rosicchiando carote.
E Jeff sposa la pornostar
Stessa città, New York. Stessa epoca, Anni 80. A poche decine di metri da Basquiat vive Jeff Koons. Ma è agli antipodi dei mondi di Warhol e Basquiat: «Lui sostituisce il disincanto con il cinismo, l’economia con la finanza», scrive Beatrice. «Koons è considerato l’artista americano più “compromesso” con affari e quattrini. Nel suo studio di 1.400 metri quadri a Chelsea ha 40 dipendenti. Assomiglia a un ufficio commerciale. Koons è noto per la precisione maniacale: un perfezionista al di là di ogni ragionevole limite che controlla tutti i minimi dettagli. Le sue opere raggiungono i 25 milioni di dollari.
Tuttavia non avrebbe mai ottenuto l’ampia popolarità che oggi gli viene riconosciuta senza l’incontro con Ilona Staller, la Cicciolina “fondatrice” della pornografia moderna, immortalata in una serie di opere, sposata nel 1991. Infine il brusco e violento divorzio, e la triste disputa sull’affidamento del figlio».
«Innocenza machiavellica» è l’ossimoro più efficace, coniato dall’archistar Rem Koolhaas, per descrivere Jeff Koons. «Ormai è presente nelle collezioni dei maggiori musei del mondo», spiega Beatrice, «ma attira ancora, come tutti i grandi, odii e simpatie in egual misura. Il messaggio della sua opera è ambiguo: c’è una dosata e astuta combinazione fra calcolo e autenticità, tattica e cinismo, persuasione occulta e spiritualismo».
Mauro Suttora
Anche i ricchi perdono
IL CASO DI LETIZIA MORATTI A MILANO DIMOSTRA CHE PER BATTERE I MILIARDARI IN POLITICA NON E' NECESSARIO IL FINANZIAMENTO PUBBLICO
di Mauro Suttora
Oggi, 18 aprile 2012
Non è vero che i soldi fanno vincere, in politica. Lo dimostra la sconfitta di Letizia Moratti l’anno scorso contro Giuliano Pisapia. L’ex sindaco Pdl di Milano ha speso per la campagna elettorale oltre 12 milioni di euro, ben 11,6 dei quali regalati dal marito petroliere Gianmarco Moratti. Pisapia, eletto sindaco di centrosinistra con il 55 per cento dei voti, ha invece potuto contare su 1,7 milioni (di cui più di un milione raccolto con donazioni private minori di 50 mila euro).
Grazie a moltissimi microcontributi ha vinto anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel 2008, battendo
i repubblicani finanziati con un miliardo di dollari dalle grandi aziende. La stessa cifra fu infatti raccolta dai democratici, con una raccolta capillare di fondi.
Insomma, in democrazia i miliardari possono essere battuti anche senza finanziamento pubblico. Contrariamente a quel che sostengono i nostri politici, citando il caso di Silvio Berlusconi.
di Mauro Suttora
Oggi, 18 aprile 2012
Non è vero che i soldi fanno vincere, in politica. Lo dimostra la sconfitta di Letizia Moratti l’anno scorso contro Giuliano Pisapia. L’ex sindaco Pdl di Milano ha speso per la campagna elettorale oltre 12 milioni di euro, ben 11,6 dei quali regalati dal marito petroliere Gianmarco Moratti. Pisapia, eletto sindaco di centrosinistra con il 55 per cento dei voti, ha invece potuto contare su 1,7 milioni (di cui più di un milione raccolto con donazioni private minori di 50 mila euro).
Grazie a moltissimi microcontributi ha vinto anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel 2008, battendo
i repubblicani finanziati con un miliardo di dollari dalle grandi aziende. La stessa cifra fu infatti raccolta dai democratici, con una raccolta capillare di fondi.
Insomma, in democrazia i miliardari possono essere battuti anche senza finanziamento pubblico. Contrariamente a quel che sostengono i nostri politici, citando il caso di Silvio Berlusconi.
Finanziamento pubblico
360 MILIONI ANNUI DI SOLDI STATALI AI PARTITI. CHE STANNO UCCIDENDO LA POLITICA
di Mauro Suttora
Oggi, 18 aprile 2012
È da 40 anni che promettono. «Grazie al finanziamento pubblico non prenderemo più tangenti», disse il personalmente onestissimo Ugo La Malfa, segretario Pri, dopo che nel 1973 si scoprì che i petrolieri davano il 5 per cento a tutti i partiti di governo. I quali ci misero solo 16 giorni a confezionare la legge per incassare 45 miliardi di lire l'anno (250 milioni in euro odierni). «La Voce Repubblicana è salva», gioì La Malfa. Ancora oggi il giornale del Pri sopravvive con 630 mila euro annui di contributi statali.
Ma è da 20 anni che truffano. Nel 1993, infatti, il 90 per cento degli italiani bocciò il finanziamento pubblico. Percentuale altissima, mai raggiunta nella storia d'Italia. Ribadita con il 71% di un altro referendum radicale nel 2000, senza quorum. E confermata ancor oggi da tutti i sondaggi.
Eppure, i partiti continuano a prendere soldi statali. Dal '97 hanno cercato di farlo con il 4 per mille: chi voleva indicava il proprio contributo sulla dichiarazione Irpef. Un fiasco colossale: solo l'8 per cento aderì, 56 milioni di introito previsti, solo 5 incassati. Allora hanno inventato il trucco dei «rimborsi elettorali»: 200 milioni annui. Che si aggiungono ai 36 che la Camera dà ai gruppi parlamentari, ai 38 del Senato, ai 45 delle Regioni e ai 41 per i giornali di partito. Totale: 360 milioni.
Niente da fare: continuano a rubare. Lo hanno appena dimostrato i casi clamorosi dei tesorieri della Margherita (confluita nel Pd) Luigi Lusi e della Lega Nord Francesco Belsito. Nonché le proteste di alcuni deputati ex An, che non capiscono bene dove siano finiti vari milioni dopo la fusione con Forza Italia nel Pdl. Ma anche gli scandali che ormai ogni settimana colpiscono politici di ogni partito in ogni parte d'Italia: dalla Lombardia di Roberto Formigoni (consiglio regionale decimato) alla Puglia di Nichi Vendola (due avvisi di garanzia).
«Il finanziamento ai partiti è il cancro della democrazia»: lo dice Guido Rossi, ex presidente della Consob che di solito misura le parole. È preoccupato anche Pier Luigi Bersani, segretario Pd: «L'antipolitica rischia di uccidere i partiti». Beppe Grillo vola nei sondaggi. Ma i politici non danno segni di ravvedimento. Anzi. Sono scesi in campo personalmente i tre più importanti di loro, i segretari dei maggiori partiti (Pdl, Pd, Udc) Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, per firmare un disegno di legge per la «trasparenza» del finanziamento pubblico. Non un centesimo in meno, ma «controllato» da società di revisione dei conti.
«La verità è che senza soldi pubblici dovremmo chiudere», confessa Antonio Misiani, tesoriere Pd, bocconiano bergamasco. Ma come? I rimborsi elettorali non dovrebbero servire, appunto, per finanziare le campagne elettorali? E non è dimostrato che per le campagne i partiti spendono molto meno, solo 33 milioni l'anno in media? E che quindi tutto il resto finisce (fraudolentemente) all'attività ordinaria dei partiti, per pagare sedi, stipendi, fondazioni (le nuove correnti)?
Le decine di milioni rubate da Lusi o investite da Belsito in Tanzania rappresentano proprio quel surplus di soldi che i politici si vedono piovere addosso (2.300 milioni dal ’94 a oggi), e non sanno più dove mettere. Antonio Di Pietro è accusato da Elio Veltri, ex dirigente del suo partito, di gestione personalistica dei «rimborsi» elettorali. Gli ex margheritini non si sono neppure accorti degli ammanchi milionari di Lusi. «Siamo parte lesa», protestano Francesco Rutelli e Rosy Bindi. «Ma come possono candidarsi a governare dei politici che non riescono neppure a controllare il proprio tesoriere?», domanda perfido Ignazio Marino, loro compagno di partito.
«Non c’è da stupirsi», dice Mario Staderini, segretario di Radicali italiani, «abbiamo lottato da soli per 35 anni contro il finanziamento pubblico, e ora la bomba esplode. Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli, i fatti dimostrano che i soldi pubblici non moralizzano la politica. Anzi. I Lusi e i Belsito non sono mele marce, ma il prodotto di un sistema criminogeno che falsa il gioco democratico».
La soluzione, allora? Il modello liberale, con partiti sorretti da sottoscrizioni private. «Adottiamo il 5 per mille», propone Alfano, dimenticando il flop di 15 anni fa. Provocato però da un difetto: nella dichiarazione Irpef non si poteva indicare il singolo partito da finanziare, era un contributo per tutti. E chi mai vuole dar soldi a partiti per cui non simpatizza? L’obiezione era: non si possono «schedare» i finanziatori di ciascun partito, costringendoli a dichiarare la propria scelta. Ma è un argomento che non tiene, perché l’8 per mille alle varie Chiese garantisce invece la privacy.
«Lo Stato, poi, può contribuire alla politica non dando soldi ai burocrati di partito», propone Staderini, «ma offrendo gratis servizi a tutti i cittadini: luoghi per assemblee e riunioni, autenticatori per le firme, conoscibilità delle proposte grazie a programmi di informazione».
Perché il vero dramma dei partiti è che i soldi pubblici e il professionismo hanno ucciso il volontariato e i contributi spontanei. «Coprono appena il 10 per cento dei nostri costi», ammette Misiani del Pd. Ormai vediamo i politici come una «casta» di privilegiati con stipendi da 12 mila euro netti al mese. «Di politica campano 100 mila persone in Italia», commenta amaro Cesare Salvi, ex senatore Ds autore del libro Il costo della democrazia.
La vera «antipolitica» è quella dei politici di professione e dei partiti personalisti in cui spadroneggia un «Capo» (quasi tutti, Grillo compreso), che hanno espropriato i cittadini del gusto per la partecipazione diretta alla vita pubblica.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 18 aprile 2012
È da 40 anni che promettono. «Grazie al finanziamento pubblico non prenderemo più tangenti», disse il personalmente onestissimo Ugo La Malfa, segretario Pri, dopo che nel 1973 si scoprì che i petrolieri davano il 5 per cento a tutti i partiti di governo. I quali ci misero solo 16 giorni a confezionare la legge per incassare 45 miliardi di lire l'anno (250 milioni in euro odierni). «La Voce Repubblicana è salva», gioì La Malfa. Ancora oggi il giornale del Pri sopravvive con 630 mila euro annui di contributi statali.
Ma è da 20 anni che truffano. Nel 1993, infatti, il 90 per cento degli italiani bocciò il finanziamento pubblico. Percentuale altissima, mai raggiunta nella storia d'Italia. Ribadita con il 71% di un altro referendum radicale nel 2000, senza quorum. E confermata ancor oggi da tutti i sondaggi.
Eppure, i partiti continuano a prendere soldi statali. Dal '97 hanno cercato di farlo con il 4 per mille: chi voleva indicava il proprio contributo sulla dichiarazione Irpef. Un fiasco colossale: solo l'8 per cento aderì, 56 milioni di introito previsti, solo 5 incassati. Allora hanno inventato il trucco dei «rimborsi elettorali»: 200 milioni annui. Che si aggiungono ai 36 che la Camera dà ai gruppi parlamentari, ai 38 del Senato, ai 45 delle Regioni e ai 41 per i giornali di partito. Totale: 360 milioni.
Niente da fare: continuano a rubare. Lo hanno appena dimostrato i casi clamorosi dei tesorieri della Margherita (confluita nel Pd) Luigi Lusi e della Lega Nord Francesco Belsito. Nonché le proteste di alcuni deputati ex An, che non capiscono bene dove siano finiti vari milioni dopo la fusione con Forza Italia nel Pdl. Ma anche gli scandali che ormai ogni settimana colpiscono politici di ogni partito in ogni parte d'Italia: dalla Lombardia di Roberto Formigoni (consiglio regionale decimato) alla Puglia di Nichi Vendola (due avvisi di garanzia).
«Il finanziamento ai partiti è il cancro della democrazia»: lo dice Guido Rossi, ex presidente della Consob che di solito misura le parole. È preoccupato anche Pier Luigi Bersani, segretario Pd: «L'antipolitica rischia di uccidere i partiti». Beppe Grillo vola nei sondaggi. Ma i politici non danno segni di ravvedimento. Anzi. Sono scesi in campo personalmente i tre più importanti di loro, i segretari dei maggiori partiti (Pdl, Pd, Udc) Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, per firmare un disegno di legge per la «trasparenza» del finanziamento pubblico. Non un centesimo in meno, ma «controllato» da società di revisione dei conti.
«La verità è che senza soldi pubblici dovremmo chiudere», confessa Antonio Misiani, tesoriere Pd, bocconiano bergamasco. Ma come? I rimborsi elettorali non dovrebbero servire, appunto, per finanziare le campagne elettorali? E non è dimostrato che per le campagne i partiti spendono molto meno, solo 33 milioni l'anno in media? E che quindi tutto il resto finisce (fraudolentemente) all'attività ordinaria dei partiti, per pagare sedi, stipendi, fondazioni (le nuove correnti)?
Le decine di milioni rubate da Lusi o investite da Belsito in Tanzania rappresentano proprio quel surplus di soldi che i politici si vedono piovere addosso (2.300 milioni dal ’94 a oggi), e non sanno più dove mettere. Antonio Di Pietro è accusato da Elio Veltri, ex dirigente del suo partito, di gestione personalistica dei «rimborsi» elettorali. Gli ex margheritini non si sono neppure accorti degli ammanchi milionari di Lusi. «Siamo parte lesa», protestano Francesco Rutelli e Rosy Bindi. «Ma come possono candidarsi a governare dei politici che non riescono neppure a controllare il proprio tesoriere?», domanda perfido Ignazio Marino, loro compagno di partito.
«Non c’è da stupirsi», dice Mario Staderini, segretario di Radicali italiani, «abbiamo lottato da soli per 35 anni contro il finanziamento pubblico, e ora la bomba esplode. Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli, i fatti dimostrano che i soldi pubblici non moralizzano la politica. Anzi. I Lusi e i Belsito non sono mele marce, ma il prodotto di un sistema criminogeno che falsa il gioco democratico».
La soluzione, allora? Il modello liberale, con partiti sorretti da sottoscrizioni private. «Adottiamo il 5 per mille», propone Alfano, dimenticando il flop di 15 anni fa. Provocato però da un difetto: nella dichiarazione Irpef non si poteva indicare il singolo partito da finanziare, era un contributo per tutti. E chi mai vuole dar soldi a partiti per cui non simpatizza? L’obiezione era: non si possono «schedare» i finanziatori di ciascun partito, costringendoli a dichiarare la propria scelta. Ma è un argomento che non tiene, perché l’8 per mille alle varie Chiese garantisce invece la privacy.
«Lo Stato, poi, può contribuire alla politica non dando soldi ai burocrati di partito», propone Staderini, «ma offrendo gratis servizi a tutti i cittadini: luoghi per assemblee e riunioni, autenticatori per le firme, conoscibilità delle proposte grazie a programmi di informazione».
Perché il vero dramma dei partiti è che i soldi pubblici e il professionismo hanno ucciso il volontariato e i contributi spontanei. «Coprono appena il 10 per cento dei nostri costi», ammette Misiani del Pd. Ormai vediamo i politici come una «casta» di privilegiati con stipendi da 12 mila euro netti al mese. «Di politica campano 100 mila persone in Italia», commenta amaro Cesare Salvi, ex senatore Ds autore del libro Il costo della democrazia.
La vera «antipolitica» è quella dei politici di professione e dei partiti personalisti in cui spadroneggia un «Capo» (quasi tutti, Grillo compreso), che hanno espropriato i cittadini del gusto per la partecipazione diretta alla vita pubblica.
Mauro Suttora
Wednesday, April 11, 2012
Quando Edda Mussolini non 'schettinò'
Dai diari inediti di Claretta Petacci: nel 1941 la moglie crocerossina di Ciano lasciò per ultima la sua nave-ospedale, affondata dagli inglesi in Albania
Oggi, 4 aprile 2012
di Mauro Suttora
«Sta abbastanza bene, ha superato con molta forza e calma la prova. È stata veramente brava. Mi hanno detto che prima ha fatto scendere tutte le infermiere. Poi un marinaio le ha detto: “Scendete contessa, non fate a tempo”. E allora anche lei in acqua. C’è stata mezz’ora, con quel freddo, finché le hanno ripescate. Allora l’hanno rivestita con pantaloncini da marinaio e maglioni».
È la sera del 15 marzo 1941. Benito Mussolini telefona dall’Albania alla sua amante Claretta Petacci. E lei trascrive fedele ogni parola nel proprio diario, la cui annata 1941 è stata appena desecretata dall’Archivio Centrale dello Stato.
In quei giorni il dittatore si trova al fronte, per incoraggiare i soldati italiani che stanno perdendo la guerra contro i greci dopo averli attaccati. Ogni sera telefona a Roma alla Petacci. La notte prima, però, gli inglesi hanno silurato e affondato nel porto di Valona la nave-ospedale italiana Po, che faceva la spola fra Albania e Puglia per trasportare i feriti.
Su quella nave era imbarcata Edda Mussolini, la figlia del duce che si era arruolata come crocerossina. Così il padre lascia le prime linee in montagna e si precipita a trovarla fra i sopravvissuti. «Edda è tanto coraggiosa», telefona orgoglioso a Claretta, «quando l’ho veduta le ho detto: “Finalmente sei una donna interessante”. E lei mi ha detto che i naufragi sono tali e quali che nei film. Che non si dimenticherà facilmente quest’avventura».
L’attacco di cinque aereosiluranti è avvenuto prima di mezzanotte. Per fortuna la Po, ancorata a un miglio e mezzo da terra, non ha a bordo feriti perché è appena tornata dall’Italia. Ma ci sono comunque 240 persone, fra equipaggio e personale medico: 23 annegano. Edda viene ripescata aggrappata a un relitto.
«Certo ha avuto una bella scossa», racconta Mussolini. «L’hanno portata al comando, sono stato con lei un’ora e mezza. Mi ha fatto emozione vederla così infreddolita, minuta, povera cara. Tutto è durato sette minuti, è affondato subito. Tre crocerossine sono morte».
Claretta gelosa delle infermiere
Qui la gelosissima Claretta blocca Benito e gli chiede se ha visitato qualche altra infermiera, fra le superstiti. «Non ho veduto le altre, Edda era sola. Anzi, mi ha detto: “Vai a visitare quelle disgraziate”. Ma una era da una parte, una dall’altra, quindi non potevo. Tanto più che c’è stato un allarme».
Pare infatti che il vero obiettivo degli inglesi fosse Mussolini, il cui cognome avevano scoperto nella lista degli imbarcati. In guerra le navi-ospedale non possono essere colpite. Ma devono farsi riconoscere, mentre la Po aveva le luci spente, per non far individuare al nemico il resto delle navi nel porto di Valona. Nel 2009 il relitto della Po è stato esplorato dai sommozzatori dell'Asso (Archeologia Subacquea Speleologia Organizzazione).
Mauro Suttora
Oggi, 4 aprile 2012
di Mauro Suttora
«Sta abbastanza bene, ha superato con molta forza e calma la prova. È stata veramente brava. Mi hanno detto che prima ha fatto scendere tutte le infermiere. Poi un marinaio le ha detto: “Scendete contessa, non fate a tempo”. E allora anche lei in acqua. C’è stata mezz’ora, con quel freddo, finché le hanno ripescate. Allora l’hanno rivestita con pantaloncini da marinaio e maglioni».
È la sera del 15 marzo 1941. Benito Mussolini telefona dall’Albania alla sua amante Claretta Petacci. E lei trascrive fedele ogni parola nel proprio diario, la cui annata 1941 è stata appena desecretata dall’Archivio Centrale dello Stato.
In quei giorni il dittatore si trova al fronte, per incoraggiare i soldati italiani che stanno perdendo la guerra contro i greci dopo averli attaccati. Ogni sera telefona a Roma alla Petacci. La notte prima, però, gli inglesi hanno silurato e affondato nel porto di Valona la nave-ospedale italiana Po, che faceva la spola fra Albania e Puglia per trasportare i feriti.
Su quella nave era imbarcata Edda Mussolini, la figlia del duce che si era arruolata come crocerossina. Così il padre lascia le prime linee in montagna e si precipita a trovarla fra i sopravvissuti. «Edda è tanto coraggiosa», telefona orgoglioso a Claretta, «quando l’ho veduta le ho detto: “Finalmente sei una donna interessante”. E lei mi ha detto che i naufragi sono tali e quali che nei film. Che non si dimenticherà facilmente quest’avventura».
L’attacco di cinque aereosiluranti è avvenuto prima di mezzanotte. Per fortuna la Po, ancorata a un miglio e mezzo da terra, non ha a bordo feriti perché è appena tornata dall’Italia. Ma ci sono comunque 240 persone, fra equipaggio e personale medico: 23 annegano. Edda viene ripescata aggrappata a un relitto.
«Certo ha avuto una bella scossa», racconta Mussolini. «L’hanno portata al comando, sono stato con lei un’ora e mezza. Mi ha fatto emozione vederla così infreddolita, minuta, povera cara. Tutto è durato sette minuti, è affondato subito. Tre crocerossine sono morte».
Claretta gelosa delle infermiere
Qui la gelosissima Claretta blocca Benito e gli chiede se ha visitato qualche altra infermiera, fra le superstiti. «Non ho veduto le altre, Edda era sola. Anzi, mi ha detto: “Vai a visitare quelle disgraziate”. Ma una era da una parte, una dall’altra, quindi non potevo. Tanto più che c’è stato un allarme».
Pare infatti che il vero obiettivo degli inglesi fosse Mussolini, il cui cognome avevano scoperto nella lista degli imbarcati. In guerra le navi-ospedale non possono essere colpite. Ma devono farsi riconoscere, mentre la Po aveva le luci spente, per non far individuare al nemico il resto delle navi nel porto di Valona. Nel 2009 il relitto della Po è stato esplorato dai sommozzatori dell'Asso (Archeologia Subacquea Speleologia Organizzazione).
Mauro Suttora
Wednesday, April 04, 2012
Figlia di Mussolini contro la lapide
ELENA CURTI, ULTIMA FIGLIA NATURALE VIVENTE DEL DUCE, CONTRARIA ALLA LAPIDE CHE IL COMUNE DI GIULINO DI MEZZEGRA (COMO) VUOLE INSTALLARE NEL LUOGO DOVE VENNE FUCILATO NEL 1945 CON CLARETTA PETACCI
Oggi, 28 marzo 2012
di Mauro Suttora
Come da copione: quelli di destra favorevoli, quelli di sinistra contrari a una lapide per ricordare Benito Mussolini nel punto dove venne fucilato il 28 aprile 1945.
Lo chiedeva da anni l’Unione nazionale combattenti di Como della Repubblica sociale italiana (i fascisti «repubblichini»). Ora la giunta comunale leghista di Giulino di Mezzegra (Como) ha detto sì.
E così fra un mese, nell’anniversario della morte, la croce dedicata al dittatore sul muro di villa Belmonte - dove morì con l’amante Claretta Petacci - verrà «arricchita» dal nome della donna e dalle foto di entrambi. La motivazione degli ex Rsi: «Omaggio a una donna coraggiosa, innamorata, che si è buttata davanti ai fucili sperando di salvare la vita al duce». L’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) si è opposta alla decisione, definendola «gravissima».
«Serve soltanto al turismo»
Ma, a sorpresa, anche Elena Curti, ultima figlia vivente di Benito Mussolini (nacque nel 1923 dall’amante Angela Curti Cucciati), è contro la lapide: «Non condivido l’iniziativa, serve solo a soddisfare progetti turistici locali», dice a Oggi. «Se si vuole ricordare qualcuno, si ricordino tutti i giovani che, da una parte e dall’altra, hanno pagato con la vita il loro amore per la patria. Questa lapide non farebbe che dileggiare indirettamente gli altri morti della Repubblica Sociale, dimenticandoli ulteriormente, com’è stato negli ultimi 67 anni».
O tutti o nessuno, insomma. E, da destra, la Curti risponde ai partiti di sinistra contrari alla lapide per motivi opposti: «La “democrazia” non c’entra con questo discorso di morti, e di italiani di prima e seconda categoria. Ma poiché non si perde occasione di ricordare con orgoglio l’ordine di uccidere Mussolini senza processo come “sentenza emessa in nome del popolo italiano dal Cln Alta Italia”, ricordo che quell’ordine fu illegale: il Cln non aveva alcuna veste giuridica».
Elena Curti ne ha anche per la Petacci: «L’importanza che le viene data nella vicenda di Mussolini è eccessiva. Il fatto che siano morti assieme in circostanze casuali non significa che la signora debba essere ricordata per sempre vicino a lui. Mussolini era un uomo sposato, aveva una moglie e famiglia cui era legatissimo, e che infatti non ha mai lasciato. La Petacci era solo una delle sue amanti».
La Curti, di cui Claretta era gelosissima, il 27 aprile 1945 si trovava accanto al duce nel blindato bloccato dai partigiani sul lago di Como. Mussolini poi proseguì la fuga in un camion tedesco in cui fu arrestato. Lei rimase con la colonna dei gerarchi fascisti, con i quali fu fermata a Dongo. È ormai una degli ultimi testimoni diretti viventi di quegli avvenimenti.
Oggi, 28 marzo 2012
di Mauro Suttora
Come da copione: quelli di destra favorevoli, quelli di sinistra contrari a una lapide per ricordare Benito Mussolini nel punto dove venne fucilato il 28 aprile 1945.
Lo chiedeva da anni l’Unione nazionale combattenti di Como della Repubblica sociale italiana (i fascisti «repubblichini»). Ora la giunta comunale leghista di Giulino di Mezzegra (Como) ha detto sì.
E così fra un mese, nell’anniversario della morte, la croce dedicata al dittatore sul muro di villa Belmonte - dove morì con l’amante Claretta Petacci - verrà «arricchita» dal nome della donna e dalle foto di entrambi. La motivazione degli ex Rsi: «Omaggio a una donna coraggiosa, innamorata, che si è buttata davanti ai fucili sperando di salvare la vita al duce». L’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) si è opposta alla decisione, definendola «gravissima».
«Serve soltanto al turismo»
Ma, a sorpresa, anche Elena Curti, ultima figlia vivente di Benito Mussolini (nacque nel 1923 dall’amante Angela Curti Cucciati), è contro la lapide: «Non condivido l’iniziativa, serve solo a soddisfare progetti turistici locali», dice a Oggi. «Se si vuole ricordare qualcuno, si ricordino tutti i giovani che, da una parte e dall’altra, hanno pagato con la vita il loro amore per la patria. Questa lapide non farebbe che dileggiare indirettamente gli altri morti della Repubblica Sociale, dimenticandoli ulteriormente, com’è stato negli ultimi 67 anni».
O tutti o nessuno, insomma. E, da destra, la Curti risponde ai partiti di sinistra contrari alla lapide per motivi opposti: «La “democrazia” non c’entra con questo discorso di morti, e di italiani di prima e seconda categoria. Ma poiché non si perde occasione di ricordare con orgoglio l’ordine di uccidere Mussolini senza processo come “sentenza emessa in nome del popolo italiano dal Cln Alta Italia”, ricordo che quell’ordine fu illegale: il Cln non aveva alcuna veste giuridica».
Elena Curti ne ha anche per la Petacci: «L’importanza che le viene data nella vicenda di Mussolini è eccessiva. Il fatto che siano morti assieme in circostanze casuali non significa che la signora debba essere ricordata per sempre vicino a lui. Mussolini era un uomo sposato, aveva una moglie e famiglia cui era legatissimo, e che infatti non ha mai lasciato. La Petacci era solo una delle sue amanti».
La Curti, di cui Claretta era gelosissima, il 27 aprile 1945 si trovava accanto al duce nel blindato bloccato dai partigiani sul lago di Como. Mussolini poi proseguì la fuga in un camion tedesco in cui fu arrestato. Lei rimase con la colonna dei gerarchi fascisti, con i quali fu fermata a Dongo. È ormai una degli ultimi testimoni diretti viventi di quegli avvenimenti.
Wednesday, March 28, 2012
articolo 18
10 DOMANDE PER CAPIRE
di Mauro Suttora
Oggi, 28 marzo 2012
Ci potranno licenziare tutti dall’oggi al domani? Questa è la grande paura che si aggira fra gli italiani dopo l’approvazione del nuovo disegno di legge sul lavoro da parte del consiglio dei ministri. Ma c’è veramente da preoccuparsi? Con l’aiuto di alcuni esperti, rispondiamo alle domande che tutti si pongono.
1) Che cos’è l’articolo 18?
È la norma dello statuto dei lavoratori che da 42 anni regola i licenziamenti nelle imprese con più di 15 dipendenti. Oggi il singolo lavoratore può essere mandato via solo per colpe e mancanze gravi. In caso di crisi lo stato paga la cassa integrazione collettiva, contrattata con il sindacato.
2) Perché cambiare l’articolo 18?
Perché, secondo i suoi detrattori, impedisce alle imprese di licenziare i dipendenti pigri e indisciplinati. I quali ricorrono al pretore e nella maggioranza dei casi si fanno reintegrare nel posto di lavoro.
3) Che cos’è la «flessibilità»?
La «flessibilità in uscita» è la possibilità di variare il numero dei dipendenti secondo le esigenze produttive. Gli imprenditori lamentano di non poterlo fare, e di dover ricorrere al precariato giovanile con contratti a termine per avere manodopera quando serve, e diminuirla se c’è crisi. Questa è la «flessibilità in entrata», che compensa l’inamovibilità dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato.
4) I lavoratori sono considerati «merce»?
È il monito lanciato dai vescovi. Con la globalizzazione, infatti, siamo in concorrenza con i prodotti di tutto il mondo. Se in Italia li produciamo a costi troppo alti, non riusciamo a venderli. Per questo molti industriali «delocalizzano» i propri impianti all’estero, dove il lavoro costa meno.
5) E che c’entra questo con la libertà di licenziare?
Il governo ha tre obiettivi: a) rendere meno rigido il mercato del lavoro, arrestando la fuga all’estero degli imprenditori; b) stabilizzazione dei precari, con obbligo di assunzione dopo 36 mesi di collaborazioni a termine, per compensare la diminuzione delle garanzie di posto fisso: più facile perdere un impiego, ma meno difficile trovarne un altro; c) espandere le imprese con meno di 15 dipendenti (che non assumono per non accollarsi contratti «a vita») e attrarre investimenti esteri (crollati negli ultimi anni).
6) Che cosa obietta il sindacato?
Al punto a) risponde che non possiamo competere con Paesi dove i salari sono di 3-400 euro al mese, a meno di non abbassarli drasticamente anche noi; b) l’asserito scambio garantiti/non garantiti provocherà solo più insicurezza per tutti; c) la nostra economia non è danneggiata dalle piccole imprese, che anzi ne sono il motore.
7) Cosa prevede il nuovo articolo 18?
Restano vietati, con obbligo di reintegro e pagamento danni, i licenziamenti discriminatori (per ragioni politiche, religiose, razziali, di sesso, sindacali, contro le donne che si sposano o hanno figli). Quelli disciplinari (reati commessi sul lavoro, gravi inadempienze) sono giudicati dal pretore, che se dà ragione al dipendente ne ordina il reintegro o un indennizzo monetario. Infine i licenziamenti per motivi economici (crisi dell’azienda, automatizzazione di mansioni eliminate, ecc.): se non sussistono, il lavoratore non può più recuperare il posto, ma solo incassare da 15 a 27 mensilità.
8) E se un’azienda ne approfitta, inventando crisi passeggere per liberarsi di 50enni e poi assumere ventenni pagandoli la metà?
«Con lo strumento dei licenziamenti collettivi hanno sempre avuto questa possibilità», risponde Giuliano Cazzola, ex sindacalista e deputato pdl. «Se il singolo licenziamento è ingiustificato la penale per il datore sarà in media di 50 mila euro. Mi sembra sbagliato fare terrorismo su questo».
9) All’estero come funziona?
In Germania il lavoratore che impugna il licenziamento continua a lavorare durante il processo (che in Italia dura un anno, in primo grado). Il risarcimento è di 12-18 mensilità: nel 95% dei casi lo accetta, sia perché si aggiunge al sussidio di disoccupazione che è il 66% dell’ultimo stipendio (da noi il tetto sarà di 1.100 euro mensili per un anno), sia perché se perde la causa non lo incassa. Se la vince (3% dei casi) viene reintegrato. Il «modello tedesco» piace al Pd.
In Francia non c’è reintegro per ragioni economiche, ma le aziende devono fornire al lavoratore corsi di riqualificazione professionale. In Spagna niente reintegro, e indennizzo di una mensilità e mezzo per ogni anno di anzianità aziendale. In Gran Bretagna basta un preavviso di tre mesi, risarcimento di 20 mila euro. Che in Svezia arriva addirittura a quattro anni di stipendio.
10) Quando entrerà in vigore la riforma?
Sarà approvata dal Parlamento non prima dell’autunno. «Ma non drammatizziamo», avverte l’avvocato giuslavorista Salvatore Trifirò, «già oggi la stragrande maggioranza dei reintegrati opta per le 15 mensilità di indennizzo». Un’altra soluzione di compromesso è quella del senatore pd Pietro Ichino: applicare la nuova legge ai contratti a tempo indeterminato solo fra qualche anno.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 28 marzo 2012
Ci potranno licenziare tutti dall’oggi al domani? Questa è la grande paura che si aggira fra gli italiani dopo l’approvazione del nuovo disegno di legge sul lavoro da parte del consiglio dei ministri. Ma c’è veramente da preoccuparsi? Con l’aiuto di alcuni esperti, rispondiamo alle domande che tutti si pongono.
1) Che cos’è l’articolo 18?
È la norma dello statuto dei lavoratori che da 42 anni regola i licenziamenti nelle imprese con più di 15 dipendenti. Oggi il singolo lavoratore può essere mandato via solo per colpe e mancanze gravi. In caso di crisi lo stato paga la cassa integrazione collettiva, contrattata con il sindacato.
2) Perché cambiare l’articolo 18?
Perché, secondo i suoi detrattori, impedisce alle imprese di licenziare i dipendenti pigri e indisciplinati. I quali ricorrono al pretore e nella maggioranza dei casi si fanno reintegrare nel posto di lavoro.
3) Che cos’è la «flessibilità»?
La «flessibilità in uscita» è la possibilità di variare il numero dei dipendenti secondo le esigenze produttive. Gli imprenditori lamentano di non poterlo fare, e di dover ricorrere al precariato giovanile con contratti a termine per avere manodopera quando serve, e diminuirla se c’è crisi. Questa è la «flessibilità in entrata», che compensa l’inamovibilità dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato.
4) I lavoratori sono considerati «merce»?
È il monito lanciato dai vescovi. Con la globalizzazione, infatti, siamo in concorrenza con i prodotti di tutto il mondo. Se in Italia li produciamo a costi troppo alti, non riusciamo a venderli. Per questo molti industriali «delocalizzano» i propri impianti all’estero, dove il lavoro costa meno.
5) E che c’entra questo con la libertà di licenziare?
Il governo ha tre obiettivi: a) rendere meno rigido il mercato del lavoro, arrestando la fuga all’estero degli imprenditori; b) stabilizzazione dei precari, con obbligo di assunzione dopo 36 mesi di collaborazioni a termine, per compensare la diminuzione delle garanzie di posto fisso: più facile perdere un impiego, ma meno difficile trovarne un altro; c) espandere le imprese con meno di 15 dipendenti (che non assumono per non accollarsi contratti «a vita») e attrarre investimenti esteri (crollati negli ultimi anni).
6) Che cosa obietta il sindacato?
Al punto a) risponde che non possiamo competere con Paesi dove i salari sono di 3-400 euro al mese, a meno di non abbassarli drasticamente anche noi; b) l’asserito scambio garantiti/non garantiti provocherà solo più insicurezza per tutti; c) la nostra economia non è danneggiata dalle piccole imprese, che anzi ne sono il motore.
7) Cosa prevede il nuovo articolo 18?
Restano vietati, con obbligo di reintegro e pagamento danni, i licenziamenti discriminatori (per ragioni politiche, religiose, razziali, di sesso, sindacali, contro le donne che si sposano o hanno figli). Quelli disciplinari (reati commessi sul lavoro, gravi inadempienze) sono giudicati dal pretore, che se dà ragione al dipendente ne ordina il reintegro o un indennizzo monetario. Infine i licenziamenti per motivi economici (crisi dell’azienda, automatizzazione di mansioni eliminate, ecc.): se non sussistono, il lavoratore non può più recuperare il posto, ma solo incassare da 15 a 27 mensilità.
8) E se un’azienda ne approfitta, inventando crisi passeggere per liberarsi di 50enni e poi assumere ventenni pagandoli la metà?
«Con lo strumento dei licenziamenti collettivi hanno sempre avuto questa possibilità», risponde Giuliano Cazzola, ex sindacalista e deputato pdl. «Se il singolo licenziamento è ingiustificato la penale per il datore sarà in media di 50 mila euro. Mi sembra sbagliato fare terrorismo su questo».
9) All’estero come funziona?
In Germania il lavoratore che impugna il licenziamento continua a lavorare durante il processo (che in Italia dura un anno, in primo grado). Il risarcimento è di 12-18 mensilità: nel 95% dei casi lo accetta, sia perché si aggiunge al sussidio di disoccupazione che è il 66% dell’ultimo stipendio (da noi il tetto sarà di 1.100 euro mensili per un anno), sia perché se perde la causa non lo incassa. Se la vince (3% dei casi) viene reintegrato. Il «modello tedesco» piace al Pd.
In Francia non c’è reintegro per ragioni economiche, ma le aziende devono fornire al lavoratore corsi di riqualificazione professionale. In Spagna niente reintegro, e indennizzo di una mensilità e mezzo per ogni anno di anzianità aziendale. In Gran Bretagna basta un preavviso di tre mesi, risarcimento di 20 mila euro. Che in Svezia arriva addirittura a quattro anni di stipendio.
10) Quando entrerà in vigore la riforma?
Sarà approvata dal Parlamento non prima dell’autunno. «Ma non drammatizziamo», avverte l’avvocato giuslavorista Salvatore Trifirò, «già oggi la stragrande maggioranza dei reintegrati opta per le 15 mensilità di indennizzo». Un’altra soluzione di compromesso è quella del senatore pd Pietro Ichino: applicare la nuova legge ai contratti a tempo indeterminato solo fra qualche anno.
Mauro Suttora
Wednesday, March 21, 2012
Corruzione in Italia
Vent'anni dopo Tangentopoli abbiamo fatto un esperimento. Abbiamo registrato, regione per regione,
tutti i casi di malaffare degli ultimi tre mesi. Il bilancio, da Milano a Reggio Calabria, è deprimente.
di Mauro Suttora
Oggi, 14 marzo 2012
Regione Lombardia decimata: il presidente del consiglio leghista Davide Boni indagato per tangenti, dopo che, per lo stesso motivo, era stato arrestato il suo vice Franco Nicoli Cristiani (Pdl), e l’altro vicepresidente Filippo Penati (Pd) costretto a dimettersi. A Imperia finisce in carcere per truffa sul porto turistico Francesco Bellavista Caltagirone (da non confondere con l’omonimo padrone del Messaggero e suocero di Pier Ferdinando Casini), l’ex ministro Claudio Scajola (Pdl) è indagato. E, sempre la settimana scorsa, al deputato Marco Milanese (Pdl, ex braccio destro di Giulio Tremonti) vengono trovati 300 mila euro in una banca della Costa Azzurra.
Prima di loro Luigi Lusi, segretario amministrativo del partito della Margherita, intasca addirittura 13 milioni di euro di finanziamento pubblico senza che nessuno per anni se ne accorga. Il vicepresidente umbro di Rifondazione comunista in manette perché pretendeva “tributi” dalle belle donne che passavano nel suo ufficio. E poi funzionari Usl di Udine che rubano sulle protesi per l’udito, un carabiniere palermitano che si fa dare mille euro, il sindaco sardo finito dentro per i mulini a vento...
Perfino un intero consiglio comunale sciolto in blocco (destra, sinistra, centro, tutti via) perché controllato dalla mafia. Non è accaduto in Sicilia, ma a Ventimiglia, Liguria. Idem nella vicina Bordighera, pochi mesi fa.
Vent’anni fa l’inchiesta Mani Pulite ci aveva dato l’illusione che la corruzione politica fosse stata, se non debellata, almeno aggredita. Interi partiti (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) sono scomparsi dopo Tangentopoli. Poi, però, piano piano, le tangenti sono ricomparse. A tal punto che oggi la Corte dei conti stima in 60 miliardi il costo delle mazzette.
«Prima si rubava per il partito, oggi si ruba per se stessi», dicono all’unisono da sinistra Gerardo D’Ambrosio, nel 1992 accusatore a Milano con Antonio Di Pietro, oggi senatore Pd, e da destra Gianfranco Fini, lui stesso però inciampato nella casa di Montecarlo.
Abbiamo fatto un esperimento: mettere in fila tutte le notizie di ruberie grandi e piccole degli ultimi tre mesi. Perché ormai siamo così abituati ai politici corrotti che, in mancanza di qualche particolare estremo o pruriginoso, la mazzetta non fa più notizia. Così, ecco l’elenco di arresti, processi e dimissioni soltanto per le ultime 12-14 settimane. Impressionante.
PIEMONTE. Il 21 gennaio l’Antimafia di Torino ha chiuso l’inchiesta Minotauro: connivenza fra politici e ’ndrangheta, 182 arresti fra cui l’ex sindaco di Leinì Nevio Coral, suocero di Caterina Ferrero (Pdl), assessore regionale alla Sanità arrestata l’anno scorso per appalti truccati: si è dimessa.
Il 30 gennaio 2012 finiscono dentro sindaco e vicesindaco di Castelnuovo Ceva (Cuneo): intercettati per due mesi, 20 mila euro di mazzette.
LOMBARDIA. Iniziato a gennaio il processo all’ex sindaco di Varese Aldo Fumagalli (Lega Nord): concussione e peculato, con contorno boccaccesco di escort e belle rumene che lui avrebbe preteso fossero ospitate nella Casa dei poveri.
Prima del “terremoto” del presidente leghista Boni, liberato a fine febbraio dopo tre mesi di carcere Franco Nicoli Cristiani (Pdl), ex vicepresidente del Consiglio regionale lombardo (dove siede anche Nicole Minetti): accusato di corruzione per una mazzetta da 100 mila euro sull’autorizzazione per una discarica. I rifiuti tossici finivano anche sotto la nuova autostrada Milano-Brescia, la «direttissima» Bre-Be-Mi in costruzione.
VENETO. Autostrade sfortunate anche per Lino Brentan (Pd), ex sindacalista Cgil amministratore delegato della Venezia-Padova: arrestato un mese fa per 100 mila euro di tangenti sugli appalti, nonostante il suo stipendio di oltre 200 mila.
A Belluno, invece, in dicembre è finito in manette Carlo Cetera, primario di ginecologia all’ospedale di Pieve di Cadore: voleva 2 mila euro per evitare liste d’attesa nei parti artificiali.
ALTO ADIGE. A Bolzano Peter Kritzinger tre mesi fa patteggia e restituisce 50 mila euro avuti per le manutenzioni delle case popolari.
FRIULI-VENEZIA GIULIA. Smantellata a novembre una banda che smaltiva rifiuti nella centrale termoelettrica di Monfalcone (Gorizia). E a Udine tre medici Asl arrestati per il reato di «comparaggio»: prescrivevano protesi per l’udito pretendendo soldi dalle ditte produttrici.
EMILIA. Il 21 febbraio condannato a due anni l’imprenditore Norberto Mangiarotti per una tangente di 80 mila euro al comune di Parma, il cui sindaco si è dimesso cinque mesi fa.
MARCHE. Il classico pizzo sulla pratica edilizia: l’8 marzo è stato condannato a 4 anni un funzionario di Camerano (Ancona) per lottizzazioni su terreni resi edificabili.
ABRUZZO. Mentre prosegue il processo per tangenti all’ex governatore e ministro Ottaviano del Turco, il 16 gennaio finisce di nuovo dentro, dopo quattro anni, il suo ex braccio destro Lamberto Quarta: appalti ricompensati da sontuose consulenze.
UMBRIA. Il 14 febbraio viene arrestato Orfeo Goracci (Rifondazione), vicepresidente del consiglio regionale umbro ed ex sindaco di Gubbio: associazione a delinquere e abuso d’ufficio. Pretendeva prestazioni “particolari” dalle signore che riceveva in ufficio.
LAZIO. Scoperti 300 mila euro su un conto in Costa Azzurra del deputato Marco Milanese (Pdl), ex braccio destro di Tremonti.
Il 20 febbraio è arrestato in flagranza Nicola Bianchi (Udc), consigliere comunale di Sabaudia (Latina): stava prendendo 5 mila euro in contanti.
Il 3 febbraio si scopre che nove ex dipendenti Rfi-Fs (licenziati) avevano gonfiato appalti per 150 mila euro.
PUGLIA. Nuovo «no» del Senato il 15 febbraio all’arresto di Alberto Tedesco (Pd), accusato di associazione a delinquere e corruzione per il periodo in cui era assessore regionale alla Sanità della giunta Vendola.
CAMPANIA. Corruzione aggravata e manette il 20 febbraio per otto dirigenti del provveditorato ai Lavori pubblici e imprenditori sull’appalto da 18 milioni della nuova sede Cnr di Napoli.
SARDEGNA. Al fresco il 28 gennaio Adriano Puddu, sindaco di Portoscuso (Cagliari) che si “occupava” di un parco eolico e di un’acciaieria, ma ora è accusato di corruzione e concussione sessuale. Il 29 febbraio sono stati arrestati tre compari che minacciavano i testimoni.
CALABRIA. Francesco Morelli, consigliere regionale Pdl, secondo più votato di tutta la regione (13 mila preferenze), era un “terminale” della ’ndrangheta? Ne sono convinti i magistrati che lo hanno arrestato tre mesi fa. Pesanti le accuse: corruzione, concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione d’atti d’ufficio coperti da segreto, intestazione fittizia di beni.
SICILIA. Per mille euro chiesti a un grafico pubblicitario è finito nei guai il 4 gennaio un maresciallo dei Carabinieri della stazione Olivuzza. Lo hanno smascherato i colleghi.
Iniziato il 10 febbraio a Modica (Ragusa) il processo a Serena Minardo, figlia del deputato regionale Riccardo (ex Ccd e Forza Italia, oggi Mpa), imputata di malversazione. Suo padre era stato arrestato per truffa aggravata sui contributi europei alle cooperative agricole.
Mauro Suttora
tutti i casi di malaffare degli ultimi tre mesi. Il bilancio, da Milano a Reggio Calabria, è deprimente.
di Mauro Suttora
Oggi, 14 marzo 2012
Regione Lombardia decimata: il presidente del consiglio leghista Davide Boni indagato per tangenti, dopo che, per lo stesso motivo, era stato arrestato il suo vice Franco Nicoli Cristiani (Pdl), e l’altro vicepresidente Filippo Penati (Pd) costretto a dimettersi. A Imperia finisce in carcere per truffa sul porto turistico Francesco Bellavista Caltagirone (da non confondere con l’omonimo padrone del Messaggero e suocero di Pier Ferdinando Casini), l’ex ministro Claudio Scajola (Pdl) è indagato. E, sempre la settimana scorsa, al deputato Marco Milanese (Pdl, ex braccio destro di Giulio Tremonti) vengono trovati 300 mila euro in una banca della Costa Azzurra.
Prima di loro Luigi Lusi, segretario amministrativo del partito della Margherita, intasca addirittura 13 milioni di euro di finanziamento pubblico senza che nessuno per anni se ne accorga. Il vicepresidente umbro di Rifondazione comunista in manette perché pretendeva “tributi” dalle belle donne che passavano nel suo ufficio. E poi funzionari Usl di Udine che rubano sulle protesi per l’udito, un carabiniere palermitano che si fa dare mille euro, il sindaco sardo finito dentro per i mulini a vento...
Perfino un intero consiglio comunale sciolto in blocco (destra, sinistra, centro, tutti via) perché controllato dalla mafia. Non è accaduto in Sicilia, ma a Ventimiglia, Liguria. Idem nella vicina Bordighera, pochi mesi fa.
Vent’anni fa l’inchiesta Mani Pulite ci aveva dato l’illusione che la corruzione politica fosse stata, se non debellata, almeno aggredita. Interi partiti (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) sono scomparsi dopo Tangentopoli. Poi, però, piano piano, le tangenti sono ricomparse. A tal punto che oggi la Corte dei conti stima in 60 miliardi il costo delle mazzette.
«Prima si rubava per il partito, oggi si ruba per se stessi», dicono all’unisono da sinistra Gerardo D’Ambrosio, nel 1992 accusatore a Milano con Antonio Di Pietro, oggi senatore Pd, e da destra Gianfranco Fini, lui stesso però inciampato nella casa di Montecarlo.
Abbiamo fatto un esperimento: mettere in fila tutte le notizie di ruberie grandi e piccole degli ultimi tre mesi. Perché ormai siamo così abituati ai politici corrotti che, in mancanza di qualche particolare estremo o pruriginoso, la mazzetta non fa più notizia. Così, ecco l’elenco di arresti, processi e dimissioni soltanto per le ultime 12-14 settimane. Impressionante.
PIEMONTE. Il 21 gennaio l’Antimafia di Torino ha chiuso l’inchiesta Minotauro: connivenza fra politici e ’ndrangheta, 182 arresti fra cui l’ex sindaco di Leinì Nevio Coral, suocero di Caterina Ferrero (Pdl), assessore regionale alla Sanità arrestata l’anno scorso per appalti truccati: si è dimessa.
Il 30 gennaio 2012 finiscono dentro sindaco e vicesindaco di Castelnuovo Ceva (Cuneo): intercettati per due mesi, 20 mila euro di mazzette.
LOMBARDIA. Iniziato a gennaio il processo all’ex sindaco di Varese Aldo Fumagalli (Lega Nord): concussione e peculato, con contorno boccaccesco di escort e belle rumene che lui avrebbe preteso fossero ospitate nella Casa dei poveri.
Prima del “terremoto” del presidente leghista Boni, liberato a fine febbraio dopo tre mesi di carcere Franco Nicoli Cristiani (Pdl), ex vicepresidente del Consiglio regionale lombardo (dove siede anche Nicole Minetti): accusato di corruzione per una mazzetta da 100 mila euro sull’autorizzazione per una discarica. I rifiuti tossici finivano anche sotto la nuova autostrada Milano-Brescia, la «direttissima» Bre-Be-Mi in costruzione.
VENETO. Autostrade sfortunate anche per Lino Brentan (Pd), ex sindacalista Cgil amministratore delegato della Venezia-Padova: arrestato un mese fa per 100 mila euro di tangenti sugli appalti, nonostante il suo stipendio di oltre 200 mila.
A Belluno, invece, in dicembre è finito in manette Carlo Cetera, primario di ginecologia all’ospedale di Pieve di Cadore: voleva 2 mila euro per evitare liste d’attesa nei parti artificiali.
ALTO ADIGE. A Bolzano Peter Kritzinger tre mesi fa patteggia e restituisce 50 mila euro avuti per le manutenzioni delle case popolari.
FRIULI-VENEZIA GIULIA. Smantellata a novembre una banda che smaltiva rifiuti nella centrale termoelettrica di Monfalcone (Gorizia). E a Udine tre medici Asl arrestati per il reato di «comparaggio»: prescrivevano protesi per l’udito pretendendo soldi dalle ditte produttrici.
EMILIA. Il 21 febbraio condannato a due anni l’imprenditore Norberto Mangiarotti per una tangente di 80 mila euro al comune di Parma, il cui sindaco si è dimesso cinque mesi fa.
MARCHE. Il classico pizzo sulla pratica edilizia: l’8 marzo è stato condannato a 4 anni un funzionario di Camerano (Ancona) per lottizzazioni su terreni resi edificabili.
ABRUZZO. Mentre prosegue il processo per tangenti all’ex governatore e ministro Ottaviano del Turco, il 16 gennaio finisce di nuovo dentro, dopo quattro anni, il suo ex braccio destro Lamberto Quarta: appalti ricompensati da sontuose consulenze.
UMBRIA. Il 14 febbraio viene arrestato Orfeo Goracci (Rifondazione), vicepresidente del consiglio regionale umbro ed ex sindaco di Gubbio: associazione a delinquere e abuso d’ufficio. Pretendeva prestazioni “particolari” dalle signore che riceveva in ufficio.
LAZIO. Scoperti 300 mila euro su un conto in Costa Azzurra del deputato Marco Milanese (Pdl), ex braccio destro di Tremonti.
Il 20 febbraio è arrestato in flagranza Nicola Bianchi (Udc), consigliere comunale di Sabaudia (Latina): stava prendendo 5 mila euro in contanti.
Il 3 febbraio si scopre che nove ex dipendenti Rfi-Fs (licenziati) avevano gonfiato appalti per 150 mila euro.
PUGLIA. Nuovo «no» del Senato il 15 febbraio all’arresto di Alberto Tedesco (Pd), accusato di associazione a delinquere e corruzione per il periodo in cui era assessore regionale alla Sanità della giunta Vendola.
CAMPANIA. Corruzione aggravata e manette il 20 febbraio per otto dirigenti del provveditorato ai Lavori pubblici e imprenditori sull’appalto da 18 milioni della nuova sede Cnr di Napoli.
SARDEGNA. Al fresco il 28 gennaio Adriano Puddu, sindaco di Portoscuso (Cagliari) che si “occupava” di un parco eolico e di un’acciaieria, ma ora è accusato di corruzione e concussione sessuale. Il 29 febbraio sono stati arrestati tre compari che minacciavano i testimoni.
CALABRIA. Francesco Morelli, consigliere regionale Pdl, secondo più votato di tutta la regione (13 mila preferenze), era un “terminale” della ’ndrangheta? Ne sono convinti i magistrati che lo hanno arrestato tre mesi fa. Pesanti le accuse: corruzione, concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione d’atti d’ufficio coperti da segreto, intestazione fittizia di beni.
SICILIA. Per mille euro chiesti a un grafico pubblicitario è finito nei guai il 4 gennaio un maresciallo dei Carabinieri della stazione Olivuzza. Lo hanno smascherato i colleghi.
Iniziato il 10 febbraio a Modica (Ragusa) il processo a Serena Minardo, figlia del deputato regionale Riccardo (ex Ccd e Forza Italia, oggi Mpa), imputata di malversazione. Suo padre era stato arrestato per truffa aggravata sui contributi europei alle cooperative agricole.
Mauro Suttora
Wednesday, March 07, 2012
Stipendi dei ministri
CURIOSITA': MONTI HA UNA PALAZZINA A VARESE E DUE NEGOZI IN CORSO BUENOS AIRES A MILANO. LE BUCCE DI BANANA DI PAOLA SEVERINO E GIULIO TERZI
di Mauro Suttora
Oggi, 24 febbraio 2012
Quelli che ci hanno rimesso di più sono Corrado Passera e Paola Severino. Per diventare ministro di Sviluppo e Trasporti il primo ha rinunciato a uno stipendio da tre milioni e mezzo l’anno (era il più importante banchiere italiano, capo di Intesa San Paolo) e ora ne guadagna 220 mila. Gli rimane però un patrimonio di venti milioni.
Perde addirittura il 97 per cento del proprio reddito annuo la nuova titolare della Giustizia. «Ammirevole», commenta con Oggi il politologo Piero Ignazi, «ed è un bene che cominci a succedere in Italia. Negli Stati Uniti è normale che professionisti di successo accettino di “servire la comunità“ per un certo periodo, abbandonando lucrosi affari privati. Da noi è già accaduto con il sindaco di Milano Pisapia, anche lui avvocato di nome come la Severino».
Più disincantato Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, che ci dice: «La mia approvazione per Passera o la Severino non aumenta grazie ai loro sacrifici: se hanno deciso così, vuol dire che fare il ministro gli piace, o gli interessa. L’importante è che siano competenti e capaci».
Qualcuno però storce il naso. «Siamo passati dal governo di Creso [Berlusconi] a quello dei Paperoni», constata Luca Telese sul Fatto, «dall’autocrazia dell’imprenditore fai-da-te agli ottimati illuminati. La politica è diventata il gioco dei ricchi. E Paperone diventa antipatico quando chiede prestiti a Paperino».
Nessuno lo ricorda, ma la legge che impone ai ministri di esibire la propria dichiarazione dei redditi risale al 1982. Quindi, il governo Monti non ci ha regalato nulla: ha solo deciso, dopo trent’anni, di rispettare una norma desueta. «Però la trasparenza è importante», dice Polito, «e oltre ai redditi è bene conoscere tutti gli interessi di chi amministra la cosa pubblica. Perché i condizionamenti privati esistono. Non è guardonismo».
Certo, fa un po’ impressione scoprire che la ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri possiede 24 immobili. Ma spesso si tratta di unità immobiliari minuscole, come box, negozi o terreni, oppure di lasciti ereditari posseduti in quota minima assieme a fratelli e parenti.
Monti e sua moglie, per esempio, sembrano essere grandi possidenti immobiliari, con le loro 26 proprietà (di cui dodici appartamenti). Ma poi si scopre che la metà di queste stanno in un’unica palazzina di Varese, nel trafficato viale Borri, frutto di un investimento di famiglia (il padre di Monti, dirigente bancario, sfollò da Milano durante la guerra). Gli abitanti dei sette alloggi (con quattro box) non sapevano di pagare l’affitto a un padrone così illustre. «E, a dirla tutta, non sono tanto d’accordo con le sue liberalizzazioni», confessa l’ortopedico Rapetti, che occupa il negozio di 40 metri quadri.
Una curiosità: oltre agli appartamenti dove vive a Milano (zona Fiera) e a Bruxelles (dov’è stato commissario Ue per dieci anni, fino al 2004), Monti possiede anche due negozi all’angolo fra corso Buenos Aires e via Redi a Milano. «In totale la sua rendita immobiliare annua ammonta a 77 mila euro», scrive Claudio Bernieri nella prima biografia pubblicata sul premier (Il sacro Monti, ed. Affari italiani).
Monti ha rinunciato agli stipendi di presidente del Consiglio e ministro dell’Economia. Ma conserva le pensioni da ex commissario Ue (170 mila euro annui) e di professore universitario, cui aggiunge dallo scorso 11 novembre (11.11.11, data simbolica?) i 300 mila euro da senatore a vita. In totale, quindi, non sarà un gran salasso rispetto al milione del suo reddito 2011. L’unico introito che non ha più è quello di presidente dell’università Bocconi.
«Sono comunque impressionato dai guadagni dei ministri-professori», storce il naso Stefano Zecchi, docente di Estetica. «Io, a fine carriera e ordinario da quando avevo 34 anni, prendevo 5mila euro al mese. Ora non più, c’è il contributo di solidarietà. Vedo invece che i miei colleghi Fornero, Giarda, Profumo e Ornaghi riescono a decuplicare il mio stipendio. Bravi, perché grazie al prestigio della cattedra universitaria ottengono consulenze e nomine nei consigli d’amministrazione. Ma non si pensi che i professori guadagnino così tanto».
Il commendevole spogliarello finanziario ministeriale ha provocato qualche piccola scivolata. La Severino si era dimenticata di dichiarare la propria villa da dieci milioni sull’Appia con parco e piscina, acquistata nel 2005. È intestata non a lei, ma a una società. Pizzicata dal Fatto, ha dato la colpa a un errore del commercialista.
Si è irritato con il sito Dagospia, annunciando querela, il ministro degli Esteri Giulio Terzi. Che vive con la compagna e madre dei suoi gemellini Antonella Cinque in una casa accanto a piazza di Spagna. Lo splendido appartamento le è stato affittato da Propaganda Fide (ente missionario del Vaticano) una decina d’anni fa, quando la Cinque era stretta collaboratrice del ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Dagospia ha scritto che Terzi abita lì, lui ha smentito, ma senza precisare che l’affitto è in capo alla compagna.
Bucce di banana evitabili se, oltre ai propri redditi e patrimoni, politici e funzionari pubblici pubblicassero anche quelli dei coniugi. Finora l’ha fatto solo Monti. Ma, in un Paese in cui i tangentari intestano tutto a mogli e parenti, sarebbe una buona idea. Avete fatto trenta, fate trentuno.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 24 febbraio 2012
Quelli che ci hanno rimesso di più sono Corrado Passera e Paola Severino. Per diventare ministro di Sviluppo e Trasporti il primo ha rinunciato a uno stipendio da tre milioni e mezzo l’anno (era il più importante banchiere italiano, capo di Intesa San Paolo) e ora ne guadagna 220 mila. Gli rimane però un patrimonio di venti milioni.
Perde addirittura il 97 per cento del proprio reddito annuo la nuova titolare della Giustizia. «Ammirevole», commenta con Oggi il politologo Piero Ignazi, «ed è un bene che cominci a succedere in Italia. Negli Stati Uniti è normale che professionisti di successo accettino di “servire la comunità“ per un certo periodo, abbandonando lucrosi affari privati. Da noi è già accaduto con il sindaco di Milano Pisapia, anche lui avvocato di nome come la Severino».
Più disincantato Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, che ci dice: «La mia approvazione per Passera o la Severino non aumenta grazie ai loro sacrifici: se hanno deciso così, vuol dire che fare il ministro gli piace, o gli interessa. L’importante è che siano competenti e capaci».
Qualcuno però storce il naso. «Siamo passati dal governo di Creso [Berlusconi] a quello dei Paperoni», constata Luca Telese sul Fatto, «dall’autocrazia dell’imprenditore fai-da-te agli ottimati illuminati. La politica è diventata il gioco dei ricchi. E Paperone diventa antipatico quando chiede prestiti a Paperino».
Nessuno lo ricorda, ma la legge che impone ai ministri di esibire la propria dichiarazione dei redditi risale al 1982. Quindi, il governo Monti non ci ha regalato nulla: ha solo deciso, dopo trent’anni, di rispettare una norma desueta. «Però la trasparenza è importante», dice Polito, «e oltre ai redditi è bene conoscere tutti gli interessi di chi amministra la cosa pubblica. Perché i condizionamenti privati esistono. Non è guardonismo».
Certo, fa un po’ impressione scoprire che la ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri possiede 24 immobili. Ma spesso si tratta di unità immobiliari minuscole, come box, negozi o terreni, oppure di lasciti ereditari posseduti in quota minima assieme a fratelli e parenti.
Monti e sua moglie, per esempio, sembrano essere grandi possidenti immobiliari, con le loro 26 proprietà (di cui dodici appartamenti). Ma poi si scopre che la metà di queste stanno in un’unica palazzina di Varese, nel trafficato viale Borri, frutto di un investimento di famiglia (il padre di Monti, dirigente bancario, sfollò da Milano durante la guerra). Gli abitanti dei sette alloggi (con quattro box) non sapevano di pagare l’affitto a un padrone così illustre. «E, a dirla tutta, non sono tanto d’accordo con le sue liberalizzazioni», confessa l’ortopedico Rapetti, che occupa il negozio di 40 metri quadri.
Una curiosità: oltre agli appartamenti dove vive a Milano (zona Fiera) e a Bruxelles (dov’è stato commissario Ue per dieci anni, fino al 2004), Monti possiede anche due negozi all’angolo fra corso Buenos Aires e via Redi a Milano. «In totale la sua rendita immobiliare annua ammonta a 77 mila euro», scrive Claudio Bernieri nella prima biografia pubblicata sul premier (Il sacro Monti, ed. Affari italiani).
Monti ha rinunciato agli stipendi di presidente del Consiglio e ministro dell’Economia. Ma conserva le pensioni da ex commissario Ue (170 mila euro annui) e di professore universitario, cui aggiunge dallo scorso 11 novembre (11.11.11, data simbolica?) i 300 mila euro da senatore a vita. In totale, quindi, non sarà un gran salasso rispetto al milione del suo reddito 2011. L’unico introito che non ha più è quello di presidente dell’università Bocconi.
«Sono comunque impressionato dai guadagni dei ministri-professori», storce il naso Stefano Zecchi, docente di Estetica. «Io, a fine carriera e ordinario da quando avevo 34 anni, prendevo 5mila euro al mese. Ora non più, c’è il contributo di solidarietà. Vedo invece che i miei colleghi Fornero, Giarda, Profumo e Ornaghi riescono a decuplicare il mio stipendio. Bravi, perché grazie al prestigio della cattedra universitaria ottengono consulenze e nomine nei consigli d’amministrazione. Ma non si pensi che i professori guadagnino così tanto».
Il commendevole spogliarello finanziario ministeriale ha provocato qualche piccola scivolata. La Severino si era dimenticata di dichiarare la propria villa da dieci milioni sull’Appia con parco e piscina, acquistata nel 2005. È intestata non a lei, ma a una società. Pizzicata dal Fatto, ha dato la colpa a un errore del commercialista.
Si è irritato con il sito Dagospia, annunciando querela, il ministro degli Esteri Giulio Terzi. Che vive con la compagna e madre dei suoi gemellini Antonella Cinque in una casa accanto a piazza di Spagna. Lo splendido appartamento le è stato affittato da Propaganda Fide (ente missionario del Vaticano) una decina d’anni fa, quando la Cinque era stretta collaboratrice del ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Dagospia ha scritto che Terzi abita lì, lui ha smentito, ma senza precisare che l’affitto è in capo alla compagna.
Bucce di banana evitabili se, oltre ai propri redditi e patrimoni, politici e funzionari pubblici pubblicassero anche quelli dei coniugi. Finora l’ha fatto solo Monti. Ma, in un Paese in cui i tangentari intestano tutto a mogli e parenti, sarebbe una buona idea. Avete fatto trenta, fate trentuno.
Mauro Suttora
Wednesday, February 29, 2012
Charlize Theron, bellissima ubriaca
di Mauro Suttora
Oggi, 29 febbraio 2012
Sarà la più bella ubriaca nella storia del cinema. Charlize Theron è la protagonista del film Young adult, nei cinema italiani dal 9 marzo 2012. Fa la parte di una scrittrice alcolizzata che torna nel suo paesino in Minnesota per riconquistare il suo primo fidanzato ormai sposato. Nonostante ogni sera ingolli un whisky dopo l’altro, di giorno appare sobria e splendida.
La Theron, ex modella sudafricana, appena quindicenne ebbe un'esperienza traumatica: assistette alla morte del padre Charles, alcolizzato, ucciso per legittima difesa da sua madre (che lui aveva aggredito) e che si salvò dall’accusa di omicidio.
L’anno dopo, accompagnata dalla madre, Charlize vince un concorso per giovani modelle a Positano (Salerno) e si trasferisce a Milano per fare la modella. Nel 1993 diventa famosa con lo spot della Martini dove mostra il suo fondoschiena. Nel 2004 vince l’Oscar con The Monster, dove interpreta una serial killer.
Oggi, 29 febbraio 2012
Sarà la più bella ubriaca nella storia del cinema. Charlize Theron è la protagonista del film Young adult, nei cinema italiani dal 9 marzo 2012. Fa la parte di una scrittrice alcolizzata che torna nel suo paesino in Minnesota per riconquistare il suo primo fidanzato ormai sposato. Nonostante ogni sera ingolli un whisky dopo l’altro, di giorno appare sobria e splendida.
La Theron, ex modella sudafricana, appena quindicenne ebbe un'esperienza traumatica: assistette alla morte del padre Charles, alcolizzato, ucciso per legittima difesa da sua madre (che lui aveva aggredito) e che si salvò dall’accusa di omicidio.
L’anno dopo, accompagnata dalla madre, Charlize vince un concorso per giovani modelle a Positano (Salerno) e si trasferisce a Milano per fare la modella. Nel 1993 diventa famosa con lo spot della Martini dove mostra il suo fondoschiena. Nel 2004 vince l’Oscar con The Monster, dove interpreta una serial killer.
Diario di un alcolista
Dipendenze: una cruda testimonianza dopo la morte di Whitney Houston e Amy Winehouse
In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari
Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.
Oggi, 20 febbraio 2012
di Michele Boselli
La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.
Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.
Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.
La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.
Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.
Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.
Riunioni settimanali obbligatorie
Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.
I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.
Ricaduta “bagnata”
Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.
Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.
I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.
Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli
In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari
Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.
Oggi, 20 febbraio 2012
di Michele Boselli
La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.
Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.
Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.
La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.
Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.
Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.
Riunioni settimanali obbligatorie
Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.
I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.
Ricaduta “bagnata”
Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.
Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.
I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.
Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli
Wednesday, February 08, 2012
La guerra del Puzzone
BARUFFE TRENTINE: il formaggio di Moena, famoso in tutto il mondo, sta per ottenere la Dop. Ma ora che lo fanno a Predazzo, gli allevatori della val di Fassa si sono ribellati: «Niente latte». E hanno inventato il Cher de fasha
Moena (Trento), 1 febbraio 2012
Fino al 1918 sopra Moena, al passo San Pellegrino, correva il confine fra Austria e Italia: di qua il Trentino irredento, di là la provincia di Belluno. Cent’anni dopo, un’altra guerra viene combattuta in val di Fassa. Quella del Puzzone.
Si tratta del formaggio tipico di Moena, ormai famoso in tutto il mondo: è arrivato nei migliori negozi di gastronomia in Europa, e anche a New York. Simile alla fontina e puzzolente uguale, il Puzzone è una denominazione relativamente recente: risale a trent’anni fa, quando i valligiani fassani scoprirono che il nome choc garantisce un ricordo indelebile. Prima, era per tutti semplicemente formaggio «nostrano», o spetz tsaorì (saporito) in ladino, e nessuno si sognava di esportarlo.
Questa storia di successo si coronerà fra qualche mese, quando andrà in porto la concessione della Dop (Denominazione di origine protetta) da parte dell’Unione europea. I Puzzoni potranno essere prodotti soltanto nelle valli di Fassa, Fiemme, Primiero, e negli adiacenti comuni altoatesini di Trodena e Anterivo.
Il caseificio locale chiude
Nel frattempo, però, il caseificio di Moena ha chiuso (posizione disagiata, scomodo per i camion) e si è fuso con quello della confinante Predazzo. Quindi le 38 mila forme annuali di Puzzone oggi vengono prodotte lì: sette chilometri più a sud, stessa valle (quella del torrente Avisio), però nome diverso: non più Fassa, ma Fiemme.
Apriti cielo. I fieri allevatori fassani, che dalle loro preziose malghe a 100-2000 metri conferivano latte incontaminato al caseificio di Moena, si sono rifiutati di portarlo a quello della valle rivale.
I contadini locali sono rimasti fedeli all’altro loro caseificio sociale, quello di Campitello di Fassa (appena trasferito nella nuova sede di Pera). Il quale, visto il successo del Puzzone, ha pensato bene di «inventare» un formaggio praticamente uguale, sia per sapore che per etichetta: il Cuor di Fassa (Cher de Fasha in ladino). Successo anche per questa novità: «Produciamo 15 mila forme l’anno», ci dice Paolo Brunel, presidente del caseificio di Pera.
I fassani hanno sempre visto Moena con sospetto: ultimo comune a sud, stava sotto il vescovo di Trento e non con Bressanone, come il resto della valle. E ora, addirittura il «tradimento» con Predazzo...
Mauro Suttora
Moena (Trento), 1 febbraio 2012
Fino al 1918 sopra Moena, al passo San Pellegrino, correva il confine fra Austria e Italia: di qua il Trentino irredento, di là la provincia di Belluno. Cent’anni dopo, un’altra guerra viene combattuta in val di Fassa. Quella del Puzzone.
Si tratta del formaggio tipico di Moena, ormai famoso in tutto il mondo: è arrivato nei migliori negozi di gastronomia in Europa, e anche a New York. Simile alla fontina e puzzolente uguale, il Puzzone è una denominazione relativamente recente: risale a trent’anni fa, quando i valligiani fassani scoprirono che il nome choc garantisce un ricordo indelebile. Prima, era per tutti semplicemente formaggio «nostrano», o spetz tsaorì (saporito) in ladino, e nessuno si sognava di esportarlo.
Questa storia di successo si coronerà fra qualche mese, quando andrà in porto la concessione della Dop (Denominazione di origine protetta) da parte dell’Unione europea. I Puzzoni potranno essere prodotti soltanto nelle valli di Fassa, Fiemme, Primiero, e negli adiacenti comuni altoatesini di Trodena e Anterivo.
Il caseificio locale chiude
Nel frattempo, però, il caseificio di Moena ha chiuso (posizione disagiata, scomodo per i camion) e si è fuso con quello della confinante Predazzo. Quindi le 38 mila forme annuali di Puzzone oggi vengono prodotte lì: sette chilometri più a sud, stessa valle (quella del torrente Avisio), però nome diverso: non più Fassa, ma Fiemme.
Apriti cielo. I fieri allevatori fassani, che dalle loro preziose malghe a 100-2000 metri conferivano latte incontaminato al caseificio di Moena, si sono rifiutati di portarlo a quello della valle rivale.
I contadini locali sono rimasti fedeli all’altro loro caseificio sociale, quello di Campitello di Fassa (appena trasferito nella nuova sede di Pera). Il quale, visto il successo del Puzzone, ha pensato bene di «inventare» un formaggio praticamente uguale, sia per sapore che per etichetta: il Cuor di Fassa (Cher de Fasha in ladino). Successo anche per questa novità: «Produciamo 15 mila forme l’anno», ci dice Paolo Brunel, presidente del caseificio di Pera.
I fassani hanno sempre visto Moena con sospetto: ultimo comune a sud, stava sotto il vescovo di Trento e non con Bressanone, come il resto della valle. E ora, addirittura il «tradimento» con Predazzo...
Mauro Suttora
I politici laureati "sfigati"
DAVVERO CHI SI LAUREA DOPO I 26 ANNI DEVE VERGOGNARSI? ECCO A CHE ETA' HANNO FINITO GLI STUDI MINISTRI ED EX
di Mauro Suttora
Oggi, 1 febbraio 2012
Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.
Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).
Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.
Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.
Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.
Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.
Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.
Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.
Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.
Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.
Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.
Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.
Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 1 febbraio 2012
Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.
Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).
Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.
Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.
Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.
Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.
Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.
Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.
Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.
Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.
Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.
Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.
Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora
Wednesday, January 25, 2012
Capodanno alle Maldive
I POLITICI POSSONO ANDARE IN VACANZA DOVE VOGLIONO. MA SE SCELGONO LE MALDIVE PROPRIO ADESSO, NON SONO BUONI POLITICI
di Mauro Suttora
Oggi, 18 gennaio 2012
Ma si rendono conto che il clima è cambiato? I nostri politici di professione svacanzano alle Maldive per Capodanno in suites da migliaia di euro al giorno, e si scandalizzano per lo scandalo: «Che c'è di strano, era l'anniversario di matrimonio, era il sessantesimo compleanno, avevamo lavorato tanto, abbiamo pagato tutto...»
Naturalmente. Nessun reato. Avevano tutto il diritto di andare dove volevano. Ma proprio in questo momento, dovevano andare in uno dei posti più lussuosi della Terra? Ora che scattano i sacrifici da loro causati e imposti: benzina alle stelle, addizionali Irpef, pensionati non più protetti dall'inflazione?
La nostra copertina della settimana scorsa ha fatto il giro del mondo. Il quotidiano spagnolo Abc ha ripubblicato le foto di Schifani, Rutelli, Casini e Fini negli atolli, mentre agli italiani tocca «ajustarse el cinturòn», stringere la cinghia. I tedeschi hanno fatto il paragone con la loro cancelliera Angela Merkel, che per Natale si è accontentata di un'austera pensione a tre stelle a Pontresina (Svizzera). E noi abbiamo fotografato il sindaco di Londra Boris Johnson, venuto in ferie pure lui senza scorta in un tre stelle nella nostra Champoluc (Aosta): auto a noleggio, in fila allo skilift.
Anche in Italia c'è chi ha capito. A cominciare da Mario Monti, Capodanno a Roma con figli e nipotini. «Ma a palazzo Chigi!», ha tuonato Roberto Calderoli, immaginando chef e camerieri in livrea. Invece nell'alloggio di servizio a cucinare il cotechino e a servire a tavola c'erano solo la signora Monti e sua sorella. Povero Calderoli: ora è indagato lui per truffa perché si è scoperto che da ministro usò un aereo di Stato per andare a Cuneo a trovare il figlio della compagna. Danno erariale: 10 mila euro.
La musica è cambiata per i nuovi ministri e sottosegretari. Carlo Malinconico non ha fatto neppure in tempo ad ambientarsi, che ha dovuto dimettersi per avere accettato in passato soggiorni gratis all'hotel Pellicano di Porto Ercole (Grosseto) da un esponente della «Cricca». Filippo Patroni Griffi è indagato per un appartamento di 100 metri quadri dietro al Colosseo comprato dall'Inps per soli 170 mila euro. Profilo basso anche per Corrado Passera: non più villona sull'Appia o casa da 11 mila euro al mese d'affitto in via Madonnina a Milano per la nuova moglie; con lei si è appena trasferito in un anonimo appartamento ai Parioli.
Un nuovo rigore, contraddetto però dalla vecchia classe politica che non vuole sentir parlare di tagli ai propri stipendi o pensioni d’oro. L’abolizione delle Province? Contestata. Maria Elisabetta Casellati, non più sottosegretario, a Cortina continua a esibire la scorta. Il presidente della provincia di Bolzano guadagna più del presidente Usa Barack Obama (25 mila euro al mese), il suo vice più di quello francese Nicolas Sarkozy, il capo della provincia di Trento prende 2 mila euro al mese più della Merkel.
«Non ho niente contro la ricchezza», ci dice la commentatrice Marina Terragni, «chi ha guadagnato soldi onestamente ha il diritto di spenderli. Ma se un politico di carriera in questo particolare momento non capisce che farsi fotografare ai tropici a Capodanno è disastroso, non è un bravo politico. Non è sintonizzato con lo spirito del tempo. Oltretutto è una scelta tragicomica, da cinepanettone, quella delle Maldive. Lo sanno che lì ci sono i paparazzi. Cosa gli costava andarsene in Maremma - perchè di solito i politici a Roma lì hanno la villa - e starsene tranquilli? Avrebbero anche evitato lo choc da fuso orario, perché a una certa età non è che certi sbalzi caldo/freddo facciano benissimo... Consiglio l'Italia, la prossima volta. Il nostro è il Paese più bello del mondo. E in più non si rischia di fare una brutta fine, alle prossime elezioni». Ovvero: se non per sobrietà, contenetevi almeno per furbizia.
Più perfida Ambra Angiolini, «Casta diva» tv, che a Piazza pulita su La Sette ha commentato: «Non si può più nemmeno fuggire nell’oceano Indiano, che si incappa nella trippetta flaccida di Schifani».
C'è cascato anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, nella trappola intercontinentale da 800 euro a notte: fotografato in un resort thailandese. Uno dei pochi politici di nome che ha dribblato sapientemente il problema è stato Pierluigi Bersani: Capodanno a Bettola (Piacenza), dai suoceri.
Insomma, a ben cinque anni dalla pubblicazione del libro La Casta, che ha svelato i privilegi dei 100 mila politici italiani a tempo pieno, poco è cambiato. Tante promesse e annunci, ma quasi nessun risparmio effettivo. Anche dopo il taglio del 10 per cento a tutti gli stipendi d’oro pubblici, uno stenografo al Senato continua a guadagnare 260 mila euro l’anno: il doppio del vicepresidente degli Stati Uniti. E un barbiere 130 mila. Totale per il Parlamento: un miliardo e mezzo l’anno. Gli sprechi continuano, e anche le ostentazioni.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 18 gennaio 2012
Ma si rendono conto che il clima è cambiato? I nostri politici di professione svacanzano alle Maldive per Capodanno in suites da migliaia di euro al giorno, e si scandalizzano per lo scandalo: «Che c'è di strano, era l'anniversario di matrimonio, era il sessantesimo compleanno, avevamo lavorato tanto, abbiamo pagato tutto...»
Naturalmente. Nessun reato. Avevano tutto il diritto di andare dove volevano. Ma proprio in questo momento, dovevano andare in uno dei posti più lussuosi della Terra? Ora che scattano i sacrifici da loro causati e imposti: benzina alle stelle, addizionali Irpef, pensionati non più protetti dall'inflazione?
La nostra copertina della settimana scorsa ha fatto il giro del mondo. Il quotidiano spagnolo Abc ha ripubblicato le foto di Schifani, Rutelli, Casini e Fini negli atolli, mentre agli italiani tocca «ajustarse el cinturòn», stringere la cinghia. I tedeschi hanno fatto il paragone con la loro cancelliera Angela Merkel, che per Natale si è accontentata di un'austera pensione a tre stelle a Pontresina (Svizzera). E noi abbiamo fotografato il sindaco di Londra Boris Johnson, venuto in ferie pure lui senza scorta in un tre stelle nella nostra Champoluc (Aosta): auto a noleggio, in fila allo skilift.
Anche in Italia c'è chi ha capito. A cominciare da Mario Monti, Capodanno a Roma con figli e nipotini. «Ma a palazzo Chigi!», ha tuonato Roberto Calderoli, immaginando chef e camerieri in livrea. Invece nell'alloggio di servizio a cucinare il cotechino e a servire a tavola c'erano solo la signora Monti e sua sorella. Povero Calderoli: ora è indagato lui per truffa perché si è scoperto che da ministro usò un aereo di Stato per andare a Cuneo a trovare il figlio della compagna. Danno erariale: 10 mila euro.
La musica è cambiata per i nuovi ministri e sottosegretari. Carlo Malinconico non ha fatto neppure in tempo ad ambientarsi, che ha dovuto dimettersi per avere accettato in passato soggiorni gratis all'hotel Pellicano di Porto Ercole (Grosseto) da un esponente della «Cricca». Filippo Patroni Griffi è indagato per un appartamento di 100 metri quadri dietro al Colosseo comprato dall'Inps per soli 170 mila euro. Profilo basso anche per Corrado Passera: non più villona sull'Appia o casa da 11 mila euro al mese d'affitto in via Madonnina a Milano per la nuova moglie; con lei si è appena trasferito in un anonimo appartamento ai Parioli.
Un nuovo rigore, contraddetto però dalla vecchia classe politica che non vuole sentir parlare di tagli ai propri stipendi o pensioni d’oro. L’abolizione delle Province? Contestata. Maria Elisabetta Casellati, non più sottosegretario, a Cortina continua a esibire la scorta. Il presidente della provincia di Bolzano guadagna più del presidente Usa Barack Obama (25 mila euro al mese), il suo vice più di quello francese Nicolas Sarkozy, il capo della provincia di Trento prende 2 mila euro al mese più della Merkel.
«Non ho niente contro la ricchezza», ci dice la commentatrice Marina Terragni, «chi ha guadagnato soldi onestamente ha il diritto di spenderli. Ma se un politico di carriera in questo particolare momento non capisce che farsi fotografare ai tropici a Capodanno è disastroso, non è un bravo politico. Non è sintonizzato con lo spirito del tempo. Oltretutto è una scelta tragicomica, da cinepanettone, quella delle Maldive. Lo sanno che lì ci sono i paparazzi. Cosa gli costava andarsene in Maremma - perchè di solito i politici a Roma lì hanno la villa - e starsene tranquilli? Avrebbero anche evitato lo choc da fuso orario, perché a una certa età non è che certi sbalzi caldo/freddo facciano benissimo... Consiglio l'Italia, la prossima volta. Il nostro è il Paese più bello del mondo. E in più non si rischia di fare una brutta fine, alle prossime elezioni». Ovvero: se non per sobrietà, contenetevi almeno per furbizia.
Più perfida Ambra Angiolini, «Casta diva» tv, che a Piazza pulita su La Sette ha commentato: «Non si può più nemmeno fuggire nell’oceano Indiano, che si incappa nella trippetta flaccida di Schifani».
C'è cascato anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, nella trappola intercontinentale da 800 euro a notte: fotografato in un resort thailandese. Uno dei pochi politici di nome che ha dribblato sapientemente il problema è stato Pierluigi Bersani: Capodanno a Bettola (Piacenza), dai suoceri.
Insomma, a ben cinque anni dalla pubblicazione del libro La Casta, che ha svelato i privilegi dei 100 mila politici italiani a tempo pieno, poco è cambiato. Tante promesse e annunci, ma quasi nessun risparmio effettivo. Anche dopo il taglio del 10 per cento a tutti gli stipendi d’oro pubblici, uno stenografo al Senato continua a guadagnare 260 mila euro l’anno: il doppio del vicepresidente degli Stati Uniti. E un barbiere 130 mila. Totale per il Parlamento: un miliardo e mezzo l’anno. Gli sprechi continuano, e anche le ostentazioni.
Mauro Suttora
Wednesday, January 18, 2012
Chi è Attilio Befera
L'UOMO CHE CI FARA' PAGARE LE TASSE
di Mauro Suttora
Oggi, 11 gennaio 2012
Sarà lui il Superman che sconfiggerà gli evasori fiscali? Il physique du role, onestamente, non c'è. Guido Bertolaso ci appariva scattante nei suoi golfini attillati della Protezione Civile. Attilio Befera, invece, assomiglia già per nome e cognome a quello che è: un tranquillo dirigente ministeriale 65enne. Eppure il direttore dell'Agenzia delle Entrate lo sta imparando a conoscere l'Italia intera. Finora erano i ministri delle Finanze a esporsi in prima persona contro l'evasione. Da Bruno Visentini con i suoi registratori di cassa negli anni '80 a Vincenzo Visco, sono stati tanti gli spauracchi dei contribuenti neghittosi.
Ma Befera non è né ministro né politico. E, in tempi di «tecnici» neutrali, forse è proprio questa la sua forza. Così, ha cominciato a esternare. Beppe Grillo dice che bisogna «capire le ragioni» di chi manda pacchi bomba a Equitalia, di cui Befera è presidente? «Questa volta non sei divertente», gli replica subito. Ottanta ispettori dell'Agenzia invadono Cortina a Capodanno, controllando i conti di alberghi e negozi? Befera si fa intervistare da Piazzapulita su La Sette e difende la clamorosa operazione. Insomma, ci mette la faccia.
Il cambio di passo rispetto al recente passato è evidente. Spot tv dipingono gli evasori come loschi parassiti. Milioni di notifiche Equitalia ci intimano di pagare tutto e subito: dai 30 euro delle multe stradali, ai milioni di qualche tremenda imposta societaria. Il premier Mario Monti, diretto superiore di Befera in quanto ministro di Economia e Finanze, appone il sigillo finale: «Sono gli evasori a mettere le mani nelle tasche degli onesti». E non lo Stato, come sostenuto da leghisti e berlusconiani.
Befera, nel palazzo romano della sua Agenzia delle Entrate in via Cristoforo Colombo, quasi all'Eur, è il simbolo di questa nuova consapevolezza. L'Italia sull'orlo della bancarotta non può più sopportare i 120 miliardi annui sottratti al fisco: «Con quelli, i nostri bilanci sarebbero a posto», ripete.
Nato a Roma, madre abruzzese (Luco dei Marsi, dove la domenica va a passeggiare nei boschi), a 19 anni appena diplomato comincia a lavorare in banca. Studente-lavoratore, laurea in Economia e commercio 110 e lode. In 30 anni a Efibanca scala tutte le posizioni fino alla direzione centrale. Fa anche il sindacalista, Cgil bancari. Nel 1995 il ministro delle Finanze del governo Dini, Augusto Fantozzi, lo chiama nel Secit (Servizio centrale ispettori tributari). Sedici mesi dopo è già direttore centrale delle Entrate.
Dal 2001 lo Stato cerca di rimediare alla sua cronica inefficienza creando prima l'autonoma Agenzia delle Entrate (che oggi ha 33 mila dipendenti), e nel 2006 togliendo a 40 banche private la riscossione: nasce Equitalia, braccio «armato» del fisco, guidato da Befera. Al quale riesce il miracolo: si fa apprezzare sia da Visco, ministro del centrosinistra dal '96 al 2000 e poi nel 2006-8, sia da Giulio Tremonti, che arriva nel 2001 con il centrodestra di Berlusconi e torna nel 2008.
Poche ore nel maggio 2008 segnano il destino di Befera: quelle durante le quali il suo predecessore all'Agenzia delle Entrate rende pubbliche in rete tutte le dichiarazioni Irpef degli italiani, dopo che Berlusconi ha vinto le elezioni. Proteste, dimissioni, e arriva Attilio. Che però conserva la presidenza del fortino Equitalia, un chilometro più in là verso l'Ardeatina.
Al mastino bipartisan resta sempre meno tempo per ascoltare Mozart, leggere Camilleri e andare alle partite della Lazio. L'unico rito al quale rimane fedele da 40 anni è l'incontro al sabato mattina nel caffè sotto casa nel suo elegante quartiere romano con i tre amici di una vita: il cardiologo Renato, l'assicuratore Luciano, e Mario, ormai pensionato. Con i suoi 456 mila euro di stipendio (38 mila al mese, altro che tetto) e 45 anni di contributi potrebbe ritirarsi anche lui. Ma non ci pensa. Anzi, proprio ora arriva una nuova giovinezza. Intanto è arrivata una nuova compagna, dopo una separazione difficile dalla moglie che gli ha dato due figli, un maschio e una femmina. Ormai grandi, e allora lui passeggia con i suoi due cani, un alano e un bassotto.
Dopo la pioggia di buste con proiettili e attentati a Equitalia nelle ultime settimane, a Befera e ai suoi collaboratori è stata imposta la scorta. Beffardo destino per quest’uomo mite, che quando si arrabbia al massimo dice, alzando un po’ la voce sarcastico: «Amore mio…»
Metà Italia lo ama, metà lo odia. Chi gli sta vicino rivela che quattro cose gli rendono la vita più serena: la stima di Monti, quella di Giorgio Napolitano, la sua ammirazione per Cavour. E l’alleanza di ferro che ha stretto con Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps che gestisce paritariamente con l’Agenzia delle Entrate gli ottomila riscossori di Equitalia.
Meno coordinati sono i rapporti con la Guardia di Finanza, i militari della lotta anti-evasori. A volte c’è un po’ di concorrenza con l’Agenzia, proprio come capita fra Carabinieri e Polizia. Il blitz di Cortina, per esempio, è stato condotto dall’Agenzia; e un comandante locale dei finanzieri ha detto che non ne sapeva nulla, per di più dichiarandosi perplesso sull’opportunità della data scelta, al picco dell’alta stagione. Ma sono inezie, e pochi giorni dopo ecco le Fiamme gialle liguri scatenate in negozi e locali di Portofino, Santa Margherita e Genova.
Solo operazioni d’immagine? Lo si vedrà con i bilanci che Befera sarà capace di esibire a fine 2012. Ma questo è anche il primo anno in cui le somme recuperate dal fisco non sono state messe preventivamente a bilancio dal governo. Perché per ora si tratta solo di speranze. Se diventeranno certezze, e supereranno i nove miliardi del 2011, dipende da Attilio.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 11 gennaio 2012
Sarà lui il Superman che sconfiggerà gli evasori fiscali? Il physique du role, onestamente, non c'è. Guido Bertolaso ci appariva scattante nei suoi golfini attillati della Protezione Civile. Attilio Befera, invece, assomiglia già per nome e cognome a quello che è: un tranquillo dirigente ministeriale 65enne. Eppure il direttore dell'Agenzia delle Entrate lo sta imparando a conoscere l'Italia intera. Finora erano i ministri delle Finanze a esporsi in prima persona contro l'evasione. Da Bruno Visentini con i suoi registratori di cassa negli anni '80 a Vincenzo Visco, sono stati tanti gli spauracchi dei contribuenti neghittosi.
Ma Befera non è né ministro né politico. E, in tempi di «tecnici» neutrali, forse è proprio questa la sua forza. Così, ha cominciato a esternare. Beppe Grillo dice che bisogna «capire le ragioni» di chi manda pacchi bomba a Equitalia, di cui Befera è presidente? «Questa volta non sei divertente», gli replica subito. Ottanta ispettori dell'Agenzia invadono Cortina a Capodanno, controllando i conti di alberghi e negozi? Befera si fa intervistare da Piazzapulita su La Sette e difende la clamorosa operazione. Insomma, ci mette la faccia.
Il cambio di passo rispetto al recente passato è evidente. Spot tv dipingono gli evasori come loschi parassiti. Milioni di notifiche Equitalia ci intimano di pagare tutto e subito: dai 30 euro delle multe stradali, ai milioni di qualche tremenda imposta societaria. Il premier Mario Monti, diretto superiore di Befera in quanto ministro di Economia e Finanze, appone il sigillo finale: «Sono gli evasori a mettere le mani nelle tasche degli onesti». E non lo Stato, come sostenuto da leghisti e berlusconiani.
Befera, nel palazzo romano della sua Agenzia delle Entrate in via Cristoforo Colombo, quasi all'Eur, è il simbolo di questa nuova consapevolezza. L'Italia sull'orlo della bancarotta non può più sopportare i 120 miliardi annui sottratti al fisco: «Con quelli, i nostri bilanci sarebbero a posto», ripete.
Nato a Roma, madre abruzzese (Luco dei Marsi, dove la domenica va a passeggiare nei boschi), a 19 anni appena diplomato comincia a lavorare in banca. Studente-lavoratore, laurea in Economia e commercio 110 e lode. In 30 anni a Efibanca scala tutte le posizioni fino alla direzione centrale. Fa anche il sindacalista, Cgil bancari. Nel 1995 il ministro delle Finanze del governo Dini, Augusto Fantozzi, lo chiama nel Secit (Servizio centrale ispettori tributari). Sedici mesi dopo è già direttore centrale delle Entrate.
Dal 2001 lo Stato cerca di rimediare alla sua cronica inefficienza creando prima l'autonoma Agenzia delle Entrate (che oggi ha 33 mila dipendenti), e nel 2006 togliendo a 40 banche private la riscossione: nasce Equitalia, braccio «armato» del fisco, guidato da Befera. Al quale riesce il miracolo: si fa apprezzare sia da Visco, ministro del centrosinistra dal '96 al 2000 e poi nel 2006-8, sia da Giulio Tremonti, che arriva nel 2001 con il centrodestra di Berlusconi e torna nel 2008.
Poche ore nel maggio 2008 segnano il destino di Befera: quelle durante le quali il suo predecessore all'Agenzia delle Entrate rende pubbliche in rete tutte le dichiarazioni Irpef degli italiani, dopo che Berlusconi ha vinto le elezioni. Proteste, dimissioni, e arriva Attilio. Che però conserva la presidenza del fortino Equitalia, un chilometro più in là verso l'Ardeatina.
Al mastino bipartisan resta sempre meno tempo per ascoltare Mozart, leggere Camilleri e andare alle partite della Lazio. L'unico rito al quale rimane fedele da 40 anni è l'incontro al sabato mattina nel caffè sotto casa nel suo elegante quartiere romano con i tre amici di una vita: il cardiologo Renato, l'assicuratore Luciano, e Mario, ormai pensionato. Con i suoi 456 mila euro di stipendio (38 mila al mese, altro che tetto) e 45 anni di contributi potrebbe ritirarsi anche lui. Ma non ci pensa. Anzi, proprio ora arriva una nuova giovinezza. Intanto è arrivata una nuova compagna, dopo una separazione difficile dalla moglie che gli ha dato due figli, un maschio e una femmina. Ormai grandi, e allora lui passeggia con i suoi due cani, un alano e un bassotto.
Dopo la pioggia di buste con proiettili e attentati a Equitalia nelle ultime settimane, a Befera e ai suoi collaboratori è stata imposta la scorta. Beffardo destino per quest’uomo mite, che quando si arrabbia al massimo dice, alzando un po’ la voce sarcastico: «Amore mio…»
Metà Italia lo ama, metà lo odia. Chi gli sta vicino rivela che quattro cose gli rendono la vita più serena: la stima di Monti, quella di Giorgio Napolitano, la sua ammirazione per Cavour. E l’alleanza di ferro che ha stretto con Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps che gestisce paritariamente con l’Agenzia delle Entrate gli ottomila riscossori di Equitalia.
Meno coordinati sono i rapporti con la Guardia di Finanza, i militari della lotta anti-evasori. A volte c’è un po’ di concorrenza con l’Agenzia, proprio come capita fra Carabinieri e Polizia. Il blitz di Cortina, per esempio, è stato condotto dall’Agenzia; e un comandante locale dei finanzieri ha detto che non ne sapeva nulla, per di più dichiarandosi perplesso sull’opportunità della data scelta, al picco dell’alta stagione. Ma sono inezie, e pochi giorni dopo ecco le Fiamme gialle liguri scatenate in negozi e locali di Portofino, Santa Margherita e Genova.
Solo operazioni d’immagine? Lo si vedrà con i bilanci che Befera sarà capace di esibire a fine 2012. Ma questo è anche il primo anno in cui le somme recuperate dal fisco non sono state messe preventivamente a bilancio dal governo. Perché per ora si tratta solo di speranze. Se diventeranno certezze, e supereranno i nove miliardi del 2011, dipende da Attilio.
Mauro Suttora
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