Dipendenze: una cruda testimonianza dopo la morte di Whitney Houston e Amy Winehouse
In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari
Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.
Oggi, 20 febbraio 2012
di Michele Boselli
La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.
Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.
Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.
La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.
Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.
Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.
Riunioni settimanali obbligatorie
Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.
I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.
Ricaduta “bagnata”
Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.
Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.
I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.
Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli