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Tuesday, November 22, 2022

Giganti del rock dai piedi di argilla. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, quei 13 che non sopportavano la vita



Folgorante libro di Paolo Vites: "Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock". Il critico musicale racconta il fenomeno dei musicisti uccisi dalla depressione

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 22 novembre 2022

Dopo quarant'anni esatti, resta imbattuto il record di Michael Jackson: il suo disco 'Thriller', uscito nel novembre 1982, con cento milioni di copie è ancora il disco più venduto della storia (il doppio del secondo, 'Dark side of the moon' dei Pink Floyd). Allora Jackson aveva 24 anni. A soli 50, nel 2009, muore per intossicazione di farmaci: propofol, lorazepam, midazolam, diazepam, lidocaina, efedrina. Tecnicamente non fu suicidio. Ma si trattò comunque di una morte provocata dall'autodistruzione, come quella di altre rockstar (Elvis Presley, Prince, Tom Petty) raccontate nell'ultimo, folgorante libro del critico musicale Paolo Vites: 'Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock' (Caissa Italia editore).

Vites tralascia la stranota lista dei rocker morti all'esatto scoccare dei loro 27 anni per droga e alcol, da Brian Jones ad Amy Winehouse, passando per i tre J (Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). Si concentra su tredici casi di musicisti che si sono suicidati in piena regola: impiccandosi, sparandosi o per overdose. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, da Whitney Houston alla cantante dei Cranberries, da quello degli Inxs ('in eccesso') a illustri sconosciuti come Neal Casal che solo Vites, superesperto di musica Usa, conosce. Tutti accomunati dalla depressione.

"Woodstock, 17 agosto 1969: salire sul palco, sedersi al proprio strumento di fronte a oltre mezzo milione di persone. Esibirsi. Quindici giorni dopo, quasi altrettanti spettatori all’Isola di Wight. Pochi anni dopo, il 28 luglio 1973, ancora sul palco per l’evento, come riportato nel Guinness dei primati, con «il pubblico più numeroso a un festival pop»: il Summer Jam al Watkins Glen, con oltre 600mila persone. Poi lo Stadio di Wembley, a Londra. E in mezzo gli stadi di tutta l’America, i teatri più lussuosi e ricchi di fama come la Royal Albert Hall di Londra, la Carnegie Hall di New York e l’Olympia di Parigi.  Il massimo a cui può aspirare un musicista rock, e non sono molti quelli che hanno toccato tali vette. Lui, Richard Manuel, insieme ai suoi compagni di The Band, è stato uno di quei giganti. Che purtroppo avevano dei piedi d’argilla, poiché vittime delle promesse e dei tradimenti del rock’n’roll".

Questo è l'inizio del capitolo sul pianista di The Band, il gruppo di Bob Dylan, che si è tolto la vita nel 1986. Lo si sente in The Weight, colonna sonora di Easy Rider; lo si vede nel film 'The Last Waltz' di Martin Scorsese. Si è appeso in bagno con il collo stretto nella sua cintura. Ma, attenti, quello di Vites non è un libro lugubre. Attraverso i suoi sapienti racconti si entra in un mondo che, come quello dello sport, è l'unico ad avere affascinato (e continua a farlo) miliardi di giovani in tutto il mondo negli ultimi 70 anni. E pazienza se in qualche caso non c'è il lieto fine.

Penso di essere l'unico oltre a Vites, in Italia, a ricordarsi di Phil Ochs. Ne ero un fan maniacale, avevo imparato a memoria la sua canzone più famosa ('I ain't marchin' anymore', Non marcio più) e la infliggevo cantandola con la chitarra ai miei compagni di liceo a Udine. I quali, con finezza friulana, si vendicarono soprannominandomi per scherzo 'Fin Occh'. Non ricordavo che questo autore di inni antimilitaristi preziosi quanto quelli di Dylan, colonna sonora delle marce contro la guerra in Vietnam (uno per tutti: 'There but for fortune', interpretato da Joan Baez) si fosse impiccato nel 1976. Questa mia mancanza di ricordi è forse uno dei motivi del suo gesto. 

Ma qualcuno si è sparato anche nel pieno della notorietà. Come Luigi Tenco, poche ore dopo essersi esibito a Sanremo di fronte a decine di milioni di telespettatori. Certo, Tenco era stato appena escluso dal festival 1967. E lo scrisse perfino sul biglietto d'addio: "Protesto contro un pubblico che manda 'Io, tu e le rose' in finale". Non risulta che l'incolpevole Orietta Berti abbia particolarmente sofferto per l'accusa contro la sua canzone, che arrivò quinta. Vinse Iva Zanicchi. E se le due brave e simpatiche cantanti ci fanno ancora compagnia dopo oltre mezzo secolo, forse Tenco ha portato loro fortuna. In ogni caso, ricorda Vites, l'ultima inchiesta sulla sua morte si è conclusa solo nel 2015. Evidentemente i complottisti, convinti per decenni che fu omicidio, non sono nati ora con vaccini e covid.

Il godibilissimo (nonostante l'argomento) libro di Vites scava a fondo, e inserisce il fenomeno dei musicisti che rinunciano alla vita in un quadro più ampio: quello della depressione, malattia che colpisce una quantità incredibile di persone.

"Nel 2030 la depressione diventerà la prima causa al mondo di giornate di lavoro perse per disabilità, superando le malattie cardiovascolari", scrive Vites. "L'Oms stima che sarà più diffusa di cancro, patologie cardiache e Alzheimer. In Italia 3,5 milioni di persone combattono contro la depressione, in Europa 35 milioni. In dieci anni la sua incidenza è aumentata del 18%. Nel mondo colpisce quasi cinque persone su cento: 322 milioni. Un male che non conosce confini: colpisce chiunque, anche se prevalentemente i redditi medi e bassi. Nel 2015 si sono suicidati in 788 mila: è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni".

Rock and roll will never die, ma ogni tanto qualche rockstar non sopporta la vita. 

Wednesday, February 29, 2012

Diario di un alcolista

Dipendenze: una cruda testimonianza dopo la morte di Whitney Houston e Amy Winehouse

In Italia gli schiavi della bottiglia sono in aumento: un milione e mezzo, e tanti giovani. Ma pochi si curano. Uno di loro, dopo tre ricoveri, ci spiega come. E quanto sono importanti i familiari

Dopo Amy Winehouse, l’alcol ha ucciso anche la cantante americana Whitney Houston. Una piaga mondiale, e in crescita. In Italia ha superato le droghe illegali ed è diventato la prima causa di morte fra gli under 25. In totale abbiamo un milione e mezzo di alcolisti, di cui centomila in cura.

Oggi, 20 febbraio 2012

di Michele Boselli

La prima volta che mi feci ricoverare in un reparto di alcologia, cinque anni fa nel piccolo ospedale di Auronzo (Belluno), evasi dopo una settimana con la complicità di una paziente uscita dal vicino reparto di psichiatria. Andammo a vivere insieme.

Lo scorso dicembre, invece, alla fine del mio terzo ricovero (un mese a San Daniele del Friuli) stavo per simulare una ricaduta con la scusa del Capodanno: sedotto da un’altra paziente che ora è la mia compagna, volevo rimanere dentro con lei il più a lungo possibile.

Ho cominciato a bere pesantemente vent’anni fa (adesso ne ho 46), quando mi trasferii per lavoro nei Paesi notoriamente alcolici dell’Europa orientale, dove era introvabile la mia amata cannabis di gioventù. Né mi ha aiutato trasferirmi, a cavallo del millennio, in un altro posto non propriamente asciutto: la Scozia. Aggiungo che sono un blogger divorziato e per fortuna senza figli. Lavoro nei call center. E per ora sono tornato a vivere dai miei genitori.

La seconda volta che ho provato a disintossicarmi è stato nel Parco dei Tigli di Teolo (Padova), una clinica che cura anche le dipendenze da cocaina, psicofarmaci e gioco d’azzardo. Fu un parziale successo perché completai con profitto il mese di ricovero, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma a vederlo mezzo vuoto fu un fallimento, perché non proseguii la riabilitazione nella seconda fase: una riunione alla settimana nel club degli alcolisti. Una frequentazione che dovrebbe essere a vita, mentre io mi fermai a soli cento giorni di astinenza. All’epoca era il mio record personale: traguardo festeggiato con una pinta di birra doppio malto, ovviamente seguita da molte altre.

Il preferire la birra al vino non fa di me un alcolista minore: basta berne il doppio e la quantità di principio psicoattivo diventa la stessa. Si tratta di una preferenza meramente legata al prezzo, che all’estero è più basso. In Italia invece carburo con economico vino in cartone.

Stare in alcologia a San Daniele mi ha fatto capire l’importanza di affrontare il problema in un contesto comunitario. Per evitare le ricadute ci vuole non solo la mera astinenza, ma soprattutto il miglioramento degli stili di vita personale e professionale. È il cosiddetto approccio «ecologico-sociale» sviluppato dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996) e adottato da molte strutture sanitarie italiane.

Riunioni settimanali obbligatorie

Prima gli alcolisti cronici erano di solito curati come malati nei reparti di psichiatria. Hudolin però ha osservato che i problemi dell’alcol coinvolgono anche i familiari: per esempio, nell’inversione dei ruoli tra coniugi, o tra genitori e figli. Quindi ora anche loro vengono trattati come pazienti, e almeno una-due volte alla settimana partecipano alle lezioni di educazione alla salute e alle sedute con gli operatori (psichiatri e paramedici specializzati) assieme al parente in cura.

I familiari continuano poi insieme il percorso nelle riunioni settimanali dei Cat (Club alcolisti in trattamento) capillarmente diffusi in tutta Italia. Qui il grosso ostacolo è la vergogna: bisogna frequentare il club più vicino, la gente ti conosce. Imbarazzante il caso di un mio compagno di sventura, dirigente locale di un grosso partito politico. Ma è necessario farlo, perché oltre ad aiutarsi nei momenti difficili, le famiglie devono «contagiare la salute» nell’ambiente in cui si vive.

Ricaduta “bagnata”

Esiste infatti la ricaduta “bagnata”, dal significato chiaro. Ma più insidiosa è quella “asciutta”: mantenere gli stessi comportamenti che portano a rivangare il passato con recriminazioni colpevolizzanti da parte dei familiari contro l’alcolista, costringendolo a «sedersi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati» (Bertolt Brecht). La percentuale di successo di questo metodo è del 70-80% dopo un anno.

Per un individualista e libertario come me non è stato facile accettare la terapia «eco-sociale». Ma gli operatori hanno un approccio scientifico e antiproibizionista. L’educazione di gruppo alla salute ha avuto momenti esilaranti. Il danno ormonale dell’alcol che femminilizza il corpo maschile è un deterrente per certi uomini virili? «Per me invece la prospettiva di potermi divertire con tette tutte mie è un incentivo a bere», ho scherzato.

I ricoverati in alcologia in Italia hanno in media 50-60 anni: il problema comincia presto, ma si riconosce tardi. Quasi sempre soffriamo di depressione, spesso diabete, e proveniamo da ogni estrazione sociale: dal camionista al dirigente disoccupato, dall’operaia al professionista in crisi matrimoniale, dalla pensionata sola in casa ai sempre più numerosi immigrati africani che andavano tranquillamente avanti a spinelli, ma sono passati al più dannoso alcol temendo i test antidroga.

Io, non so se ce la farò a non bere per sempre. Improbabile. Ma se ci riuscirò non sarà tanto per me stesso (l’autostima è poca), quanto per l’amore che ho trovato a San Daniele: mi hanno ridato entusiasmo per la vita.
Michele Boselli