IL VERO MOTIVO DELLA BATTAGLIA CHE DISTRUSSE L'ABBAZIA:
Gli alleati volevano tenere i tedeschi lontani dalla Francia. Così assediarono per otto mesi il monastero. Ora un documentario su History svela cosa accadde e perché
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2012
È stata una delle battaglie più lunghe della storia: quasi nove mesi. E fra le più sanguinose: 50 mila soldati alleati morti, 20 mila tedeschi e migliaia di civili italiani. Il primo spaventoso bombardamento angloamericano su Cassino (Frosinone) avvenne appena due giorni dopo l’illusione che con l’armistizio la guerra fosse finita: il 10 settembre 1943. Ma la cittadina e la sovrastante abbazia, fondata da San Benedetto nel 529, furono liberate soltanto il 18 maggio ’44.
Perché ci volle così tanto tempo? Il documentario Cassino, 9 mesi all’inferno, in onda su History (canale 407 di Sky) venerdì 25 maggio alle 21, rivela che la vera strategia alleata non era vincere presto, ma combattere a lungo. Grazie a documenti e testimonianze inedite, il regista Fabio Toncelli ha ricostruito i retroscena politico-militari della campagna anglo-americana in Italia nell’inverno 1943-44, i drammatici errori dei comandi, e le reciproche diffidenze nello schieramento alleato.
Cassino si trovava proprio sulla Linea Gustav che tagliava l’Italia in due fra il Tirreno (foce del Garigliano) e l’Adriatico (all’altezza di Ortona, in provincia di Chieti). Questa linea di fortificazioni era stata costruita dai nazisti dopo il «tradimento» dell’Italia non più fascista, guidata dal maresciallo Pietro Badoglio. Le truppe tedesche la scelsero come fronte di resistenza dopo lo sbarco alleato a Salerno, nel settembre ’43, perché era il punto più stretto della penisola italiana. Ma soprattutto perché l’abbazia di Montecassino controllava da un’altura la principale via d’accesso a Roma, con la statale Casilina.
Sacrificarsi per la Normandia
In attesa dello sbarco in Francia, il compito assegnato agli alleati in Italia era tenere impegnata la macchina bellica nazista, a qualunque costo e il più a lungo possibile. E questo segnò il destino di Cassino.
Dall’attacco a Monte Lungo a quello al fiume Rapido, fino al bombardamento del monastero, fu un susseguirsi di operazioni militari definite dagli stessi protagonisti “suicide”, e spesso basate su presupposti errati.
I documenti d’archivio con le clamorose dichiarazioni del premier britannico Winston Churchill e del generale Dwight Eisenhower, comandante delle truppe statunitensi in Europa, fanno capire le vere finalità della campagna di Cassino. Sono confermate dalle testimonianze dei soldati e dai racconti dei civili, ormai ottantenni.
La linea Gustav a Cassino era imprendibile. Già negli ultimi mesi del ’43 gli alleati avevano capito che, nonostante i bombardamenti, era impossibile sfondare in quella parte del fronte. I tedeschi erano ben piazzati sulle alture, anche se non si erano installati dentro l’abbazia.
Il generale francese Alphonse Juin, che comandava le truppe francesi composte in gran parte da arabi delle colonie (i «marocchini» diventati poi tristemente famosi per la libertà di stupro loro concessa, come mostra il film La Ciociara con Sophia Loren), lanciò quindi i suoi a dicembre in una spedizione di aggiramento all’interno, sulle Mainarde. Riuscirono a creare un varco, ma poi gli alleati non insistettero.
Perché? In realtà, quel che volevano Churchill ed Eisenhower, svanita la speranza di una veloce liberazione dell’Italia, era impegnare il maggior numero possibile di divisioni naziste nella nostra penisola. Obiettivo: distoglierle il più a lungo possibile dal già previsto sbarco in Francia. Indecisi inizialmente fra il Mediterraneo e la Normandia, alla fine gli alleati optarono per quest’ultima.
In quei mesi eroici e convulsi soltanto Churchill aveva capito il vero problema della guerra. Che non era più vincere i tedeschi, ma contenere la futura minaccia sovietica. Il premier britannico avrebbe fatto di tutto per impedire che Stalin si impadronisse di metà Europa, come poi accadde. Di qui le trattative segrete con Benito Mussolini per una pace separata con Salò: se il Duce avesse convinto Adolf Hitler a ritirare le sue truppe dall’Italia, i nazisti le avrebbero inviate sul fronte orientale, rallentando l’avanzata russa. E gli alleati avrebbero potuto egualmente sbarcare in Francia.
Carneficina anche ad Anzio
È nel quadro di queste strategie, e nel timore che i tedeschi riuscissero ad arrivare alla bomba atomica prima degli americani, che si spiega lo stallo di Cassino.
Il generale Mark Clark, comandante delle truppe statunitensi in Italia, mordeva invece il freno. Voleva passare alla storia come il liberatore di Roma, e per questo sbarcò ad Anzio nel gennaio ’44, alle spalle di Cassino. Si era quindi stabilita una testa di ponte a soli 50 km dalla capitale, aggirando ancora un volta la linea Gustav. Niente da fare. Nonostante la via verso Roma fosse libera e raggiungibile in poche ore, le truppe da sbarco alleate preferirono consolidare le loro posizioni. Così i tedeschi ebbero il tempo di riorganizzarsi, di contrattaccare, e fu una carneficina.
Dovettero passare altri quattro mesi fino alla liberazione della capitale, il 4 giugno 1944. Nel frattempo, ci andò di mezzo anche l’abbazia. Che, in quanto territorio neutrale (apparteneva giuridicamente allo Stato della Città del Vaticano), non poteva essere bombardata dagli alleati, i quali detenevano il dominio dell’aria.
Ma i nazisti ne approfittarono: stiparono a pochi metri dalle mura esterne enormi depositi di munizioni. Gli angloamericani sostenevano che erano anche entrati nell’abbazia, e da lì bersagliavano gli assedianti. Non era così, e nella guerra della propaganda i tedeschi nei mesi seguenti usarono le foto dell’abbazia distrutta come esempio di una pretesa «barbarie» degli alleati.
In ogni caso, nel maggio ’44 tutto è pronto per lo sbarco segreto in Normandia. Churchill ed Eisenhower non hanno più bisogno di tenere impegnate le otto divisioni tedesche in Italia, per paura che ripieghino in Francia. Danno quindi il via libera a Clark. E, ancora una volta, la Linea Gustav viene aggirata dai francesi, questa volta sui monti Aurunci.
Mauro Suttora
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Wednesday, May 30, 2012
Wednesday, September 23, 2009
Rai contro Sky
DOPO 25 ANNI, ADDIO DUOPOLIO: LA GUERRA DELLE TRE TIVU'
Oggi, 16 settembre 2009
di Mauro Suttora
Martedì 26 maggio, settimo piano del palazzo Rai di viale Mazzini a Roma. Il presidente Sky Tom Mockridge pensa di non aver capito bene. È australiano, il suo italiano è ancora stentato. «Scusate, non ho ancora avuto tempo di leggere la vostra lettera», gli ha appena detto Mauro Masi, direttore generale Rai.
Invece è proprio così: i vertici della tv di stato non danno risposta a una lettera ricevuta più di un mese prima. Quella in cui Sky offriva 350 milioni in sette anni per continuare a trasmettere i canali Rai dal suo satellite. Oltre a una settantina di milioni per i film.
La riunione si conclude rapidamente, l’atmosfera è gelida. Ormai è la guerra. Provocata da che cosa? Da un fatto storico. Per la prima volta nel 2008 Sky ha superato il fatturato Mediaset, e insegue da vicino la Rai . Dopo mezzo secolo di monopolio Rai e un quarto di secolo di duopolio Rai/Mediaset, la tv satellitare del miliardario australiano Rupert Murdoch minaccia entrambi. I suoi cinque milioni di abbonati pagano in media 500 euro all’anno ciascuno, garantendo un’audience del 9 per cento. Un cuneo infilato fra i due giganti, e destinato ad allargarsi. La Rai infatti teme che Sky salga al 14% entro tre anni. «E ogni punto di audience in più vale trenta milioni di euro», avverte Masi.
Insomma, è iniziata una nuova era. Per questo la tv di stato ha tolto i suoi canali satellitari da Sky: dal primo agosto Raisat Extra, Premium, Cinema e Yoyo si possono vedere solo in digitale (il nuovo sistema che entro il 2012 sostituirà l’attuale, funzionante già in Sardegna e fra pochi giorni in Piemonte), o sul nuovo satellite gratuito Tivusat che Rai, Mediaset e La 7 hanno inaugurato per far concorrenza a Sky, oltre che per coprire le zone impervie non coperte dal digitale.
Il problema è che per vederli bisogna comprare altri due decoder, oltre a quello di Sky.
Ma, soprattutto, adesso la Rai cripta su Sky anche i suoi programmi più visti: partite della nazionale e Formula Uno. Il gran premio di Monza del 13 settembre si è potuto vedere su Raiuno solo via etere (o in digitale in Sardegna, o sul satellite Tivusat). «Il criptaggio è necessario per i programmi di cui non deteniamo i diritti internazionali», spiega Masi. E Sky è visibile anche all’estero.
Ma queste sono schermaglie legali. La Rai, infatti, per poter riscuotere il canone ha un contratto di «servizio pubblico» con lo stato che le impone di far vedere i propri canali su tutte le «piattaforme» (etere, digitale, satellite, telefonini, internet). Ora che ha un suo satellite, seppure in condominio con Mediaset e La 7, non è più tenuta a trasmettere su Sky, per di più gratis.
E allora perché continua a farlo? Perché i dati Auditel sugli ascolti, importantissimi perché determinano i prezzi degli spot, vengono calcolati anche sui loro canali trasmessi da Sky. Quindi, fossero anche solo pochi punti percentuali, né Rai né Mediaset vogliono rinunciarci.
Però i prossimi tre anni sono cruciali nella guerra delle tre tivù. «La transizione al digitale può rappresentare un vantaggio per Sky», teme Masi, «perché non è scontato che gli attuali telespettatori si dotino automaticamente di decoder al momento del cambio: saranno più esposti alle alternative».
Insomma, la Rai non vuole favorire Sky, che finora ha usato i suoi canali e quelli Mediaset come «traino» per i propri, posizionandoli all’inizio della numerazione del decoder. Per continuare a fornire Raisat a Sky avrebbe voluto che quest’ultima pagasse non 50 milioni all’anno (per sette anni), ma duecento, includendo nel prezzo anche Raiuno, Raidue e Raitre.
«Sarebbe l’unica tv pubblica europea a non fornire gratis i propri canali al satellite», rispondono a Sky, «e quando lo fece la Itv inglese perse il 40 per cento degli ascolti. L’utente Sky non disdice l’abbonamento se non vede i canali Rai, perché paga l’abbonamento per vedere i canali a pagamento, non quelli gratuiti». Aggiunge il professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e commentatore tv del Sole: «Se la Rai fosse una società privata, gli azionisti inseguirebbero sotto i ponti degli amministratori che rinunciassero a Sky: oltre alle centinaia di milioni perse per Raisat, c’è stato un calo consistente di ascolti per i gran premi criptati. Andar via da Sky è autolesionismo».
«Ma i cinquanta milioni annui offerti da Sky per i nostri canali si riducono a venti come margine di utile netto», risponde Masi, «e li recupereremo entro due anni grazie alla pubblicità su Raisat trasmessa in chiaro».
L’unica cosa certa, in questa complicato conflitto, è che finora Mediaset sta a guardare: si è limitata a far concorrenza a Sky nella pay-tv con i canali Premium sul digitale terrestre. Il governo Berlusconi ha colpito Sky un anno fa raddoppiando l’Iva. La società Medusa (di Berlusconi) potrebbe negare i suoi film a Sky. Ma Paolo Gentiloni del Pd accusa: «La Rai sta combattendo per conto di Berlusconi una guerra non sua, fra le due tv commerciali Sky e Mediaset».
Mauro Suttora
Oggi, 16 settembre 2009
di Mauro Suttora
Martedì 26 maggio, settimo piano del palazzo Rai di viale Mazzini a Roma. Il presidente Sky Tom Mockridge pensa di non aver capito bene. È australiano, il suo italiano è ancora stentato. «Scusate, non ho ancora avuto tempo di leggere la vostra lettera», gli ha appena detto Mauro Masi, direttore generale Rai.
Invece è proprio così: i vertici della tv di stato non danno risposta a una lettera ricevuta più di un mese prima. Quella in cui Sky offriva 350 milioni in sette anni per continuare a trasmettere i canali Rai dal suo satellite. Oltre a una settantina di milioni per i film.
La riunione si conclude rapidamente, l’atmosfera è gelida. Ormai è la guerra. Provocata da che cosa? Da un fatto storico. Per la prima volta nel 2008 Sky ha superato il fatturato Mediaset, e insegue da vicino la Rai . Dopo mezzo secolo di monopolio Rai e un quarto di secolo di duopolio Rai/Mediaset, la tv satellitare del miliardario australiano Rupert Murdoch minaccia entrambi. I suoi cinque milioni di abbonati pagano in media 500 euro all’anno ciascuno, garantendo un’audience del 9 per cento. Un cuneo infilato fra i due giganti, e destinato ad allargarsi. La Rai infatti teme che Sky salga al 14% entro tre anni. «E ogni punto di audience in più vale trenta milioni di euro», avverte Masi.
Insomma, è iniziata una nuova era. Per questo la tv di stato ha tolto i suoi canali satellitari da Sky: dal primo agosto Raisat Extra, Premium, Cinema e Yoyo si possono vedere solo in digitale (il nuovo sistema che entro il 2012 sostituirà l’attuale, funzionante già in Sardegna e fra pochi giorni in Piemonte), o sul nuovo satellite gratuito Tivusat che Rai, Mediaset e La 7 hanno inaugurato per far concorrenza a Sky, oltre che per coprire le zone impervie non coperte dal digitale.
Il problema è che per vederli bisogna comprare altri due decoder, oltre a quello di Sky.
Ma, soprattutto, adesso la Rai cripta su Sky anche i suoi programmi più visti: partite della nazionale e Formula Uno. Il gran premio di Monza del 13 settembre si è potuto vedere su Raiuno solo via etere (o in digitale in Sardegna, o sul satellite Tivusat). «Il criptaggio è necessario per i programmi di cui non deteniamo i diritti internazionali», spiega Masi. E Sky è visibile anche all’estero.
Ma queste sono schermaglie legali. La Rai, infatti, per poter riscuotere il canone ha un contratto di «servizio pubblico» con lo stato che le impone di far vedere i propri canali su tutte le «piattaforme» (etere, digitale, satellite, telefonini, internet). Ora che ha un suo satellite, seppure in condominio con Mediaset e La 7, non è più tenuta a trasmettere su Sky, per di più gratis.
E allora perché continua a farlo? Perché i dati Auditel sugli ascolti, importantissimi perché determinano i prezzi degli spot, vengono calcolati anche sui loro canali trasmessi da Sky. Quindi, fossero anche solo pochi punti percentuali, né Rai né Mediaset vogliono rinunciarci.
Però i prossimi tre anni sono cruciali nella guerra delle tre tivù. «La transizione al digitale può rappresentare un vantaggio per Sky», teme Masi, «perché non è scontato che gli attuali telespettatori si dotino automaticamente di decoder al momento del cambio: saranno più esposti alle alternative».
Insomma, la Rai non vuole favorire Sky, che finora ha usato i suoi canali e quelli Mediaset come «traino» per i propri, posizionandoli all’inizio della numerazione del decoder. Per continuare a fornire Raisat a Sky avrebbe voluto che quest’ultima pagasse non 50 milioni all’anno (per sette anni), ma duecento, includendo nel prezzo anche Raiuno, Raidue e Raitre.
«Sarebbe l’unica tv pubblica europea a non fornire gratis i propri canali al satellite», rispondono a Sky, «e quando lo fece la Itv inglese perse il 40 per cento degli ascolti. L’utente Sky non disdice l’abbonamento se non vede i canali Rai, perché paga l’abbonamento per vedere i canali a pagamento, non quelli gratuiti». Aggiunge il professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e commentatore tv del Sole: «Se la Rai fosse una società privata, gli azionisti inseguirebbero sotto i ponti degli amministratori che rinunciassero a Sky: oltre alle centinaia di milioni perse per Raisat, c’è stato un calo consistente di ascolti per i gran premi criptati. Andar via da Sky è autolesionismo».
«Ma i cinquanta milioni annui offerti da Sky per i nostri canali si riducono a venti come margine di utile netto», risponde Masi, «e li recupereremo entro due anni grazie alla pubblicità su Raisat trasmessa in chiaro».
L’unica cosa certa, in questa complicato conflitto, è che finora Mediaset sta a guardare: si è limitata a far concorrenza a Sky nella pay-tv con i canali Premium sul digitale terrestre. Il governo Berlusconi ha colpito Sky un anno fa raddoppiando l’Iva. La società Medusa (di Berlusconi) potrebbe negare i suoi film a Sky. Ma Paolo Gentiloni del Pd accusa: «La Rai sta combattendo per conto di Berlusconi una guerra non sua, fra le due tv commerciali Sky e Mediaset».
Mauro Suttora
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